Sono tre le date italiane che gli inglesi The Darkness hanno riservato all’Italia all’interno del tour a supporto del loro ultimo disco Pinewood Smile, uscito ormai qualche settimana fa.
La prima di queste si è tenuta l’8 novembre all’Alcatraz di Milano, in un locale veramente gremito di fans calorosi (tanti i giovani e i giovanissimi!) pronti a cantare a squarciagola i più grandi successi dei loro beniamini.
A supporto del gruppo di cartellone, gli americani Blackfoot Gypsies, venuti apposta da Nashville, nel Tennessee, per incontrare per la prima volta i fans italiani.
BLACKFOOT GYPSIES
Autori di un set un po’ più lungo del previsto a causa di qualche ritardo della band headliner, i Blackfoot Gypsies riescono ad infiammare la platea grazie al loro particolarissimo sound hard rock a stelle e strisce, fortemente influenzato dal country, dal southern rock, dal blues e dal folk USA anni’60/’70s.
Divertentissimi e fortemente coesi come band, i quattro si fanno guidare dal carisma e dalla simpatia del frontman e chitarrista Matthew Paige, la cui timbrica acuta tende a ricordare un po’ a quella di un certo Tommy Shaw degli Styx. Al suo fianco, fondamentale con i suoi cori, il bassista Dylan Whitlow e il preciso e potente batterista Zack Murphy, ma soprattutto il (geniale) armonicista di colore Ollie Dogg, vero fautore del peculiare sound di questo gruppo, e autore di alcuni assoli di armonica davvero di alto profilo.
L’impressione finale è che questo giovane gruppo abbia stoffa da vendere, e che la scelta di accompagnare i The Darkness in tour sia stata fortemente azzeccata, basti vedere l’enorme applauso che il pubblico italiano gli riserva a fine show, e i tanti, tantissimi selfie scattati e dischi venduti nell’area merchandising. Non mi stupirei di rivederli presto alle nostre latitudini.
THE DARKNESS
Alla fine praticamente puntuali, i The Darkness salgono sul palco milanese accompagnati dalle note della intro Arrival. Il boato è assordante, e si amplifica ancora non appena – nell’ordine – il nuovo (fenomenale) batterista e figlio d’arte Rufus Taylor, il simpatico bassista Frankie Poullain, il chitarrista Daniel Hawkins e infine il coloratissimo frontman Justin Hawkins irrompono uno dopo l’altro on stage. L’apertura di set è affidata alla rocciosa Open Fire, che scalda a puntino le ugole della gente prima dell’attacco di una Love Is Only a Feeling che per prima fa esplodere l’Alcatraz di energia. La serata è una di quelle buone, e la band si dimostra davvero in formissima, tanto che alla terza canzone – Southern Trains – Justin avrà già raccolto almeno cinque o sei reggiseni lanciati sul palco dalle fans estasiate. Da ora in avanti il frontman – permettetemi di dirlo, piaccia o non piaccia la sua ugola, è tra i più carismatici in circolazione – inizierà a giocare con la platea, tra pose bizzarre, smorfie facciali, incitamenti vari e accenni improvvisati a canzoni dei Queen e dei Van Halen che regalano ben più che un sorriso ai supporter.
Se il classicone Black Shuck viene poi accolto con totale euforia, anche la nuova Buccaneers of Hispaniola non manca di risultare efficace suonata in sede live. One Way Ticket e Givin’ Up, una dietro l’altra, fanno esplodere ancora una volta i fans, prima delle più recenti All the Pretty Girls e Barbarian, ben interpretate dal gruppo. Il sempreverde Justin (non invecchia mai!) siede poi alla tastiera per interpretare in stile Freddie Mercury Friday Night prima e English Country Garden poi, a cui seguono la nuova Happiness (sensazionale dal vivo), l’ancora recente Every Inch of You
Makin’ Out, e il secondo singolo tratto dal nuovo disco Solid Gold.
Per il finale ritornano i classici, ed ecco allora Get Your Hands Off My Woman e Growing on Me, dopo le quali la band saluta e lascia per finta il palco. Il bis è a sorpresa affidato prima alla bella Japanese Prisoner of Love, dopo la quale Justin ringrazia il sempre fedele pubblico italiano (ci siamo visti diverse volte, questa serata credevo sarebbe stata la peggiore di sempre a causa di alcuni problemi che abbiamo avuto. Invece, si è rivelata la più bella e folle di tutte, e di questo vi ringrazio di cuore, sono state all’incirca le sue parole) per attaccare con la definitiva I Believe in a Thing Called Love, conclusasi con la totale standing ovation del pubblico di frone a una esisizione da lode di questa – decisamente maturata e migliorata – band inglese.
Setlist:
Open Fire
Love Is Only a Feeling
Southern Trains
Black Shuck
Buccaneers of Hispaniola
One Way Ticket
Givin’ Up
All the Pretty Girls
Barbarian
Friday Night
English Country Garden
Happiness
Every Inch of You
Makin’ Out
Solid Gold
Get Your Hands Off My Woman
Growing on Me
Encore:
Japanese Prisoner of Love
I Believe in a Thing Called Love