H.E.A.T – Tearing Down The Walls – Recensione
Il mondo della musica e del rock in particolar modo è e sarà sempre pieno di grandi e piccole band che devono affrontare dei cambiamenti importanti al loro interno. Cambiamenti che riguardano la direzione sonora che bisogna intraprendere in un determinato momento, cambiamenti/sostituzioni di musicisti o molto spesso entrambe le cose. Nel caso di dipartite importanti in seno alla formazione, l’incognita è sempre dietro l’angolo e i problemi sono i seguenti: trovare qualcuno che sia il più possibile simile (nello stile/modo di suonare/canto) a colui che si vuole sostituire sperando nella continuità della proposta musicale oppure scegliere elementi con uno stile personale e “inedito” in modo da reinventarsi come gruppo tentando di proporre qualcosa di nuovo?
Quando nel 2011 gli H.E.A.T pubblicarono “Address The Nation” il sottoscritto era abbastanza scettico su Erik Grönwall vista l’ugola decisamente diversa dal dimissionario Kenny Leckremo, ma quei giovani svedesi riuscirono a tirare fuori dal cilindro un album splendido e potente come pochi confermandosi ancora una volta come la punta di diamante di un genere che sembra rinato negli ultimi anni. Ma quando anche uno dei maggiori songwriters della band, il chitarrista Dave Dalone, abbandona la scialuppa verso altri lidi ecco che anche questo quarto album a titolo “Tearing Down The Walls” non parte certo col favore dei pronostici. Affidati i compiti chitarristici al solo Eric Rivers il gruppo si tuffa in questa nuova avventura continuando la direzione sonora già parzialmente assaporata e gustata col precedente disco.
Basando tutte le proprie forza sull’ugola potente e graffiante dell’istrionico Grönwall, gli H.E.A.T abbandonano quell’aor di chiara matrice scandinava dei primi due dischi per muoversi su un melodic hard rock sempre più yankee fatto di grandi riff, produzione imponente e la giusta dose di ritornelli tanto ruffiani quanto vincenti. Si parte a tutta forza con “Point Of No Return”: Gronwall sugli scudi, refrain spaccasassi e cattiveria “melodica” al punto giusto; non avrà magari lo stesso appeal di una “Breaking The Silence” ma la grinta e la carica sono pressoché uguali. “A Shot At Redemption” è il primo singolo estratto dal disco che non mancherà di sorprendere durante i primi ascolti: messo alle spalle l’aor, questa “cowboy song” semplice e diretta non mancherà di colpire in sede live stampandosi subito nella mente degli ascoltatori grazie all’irresistibile ritornello. Di tutt’altra pasta invece la terremotante “Inferno” (e come poteva essere altrimenti con quel nome), dall’impatto sonoro devastante e primo vero highlight del disco. La brevissima “The Wreckoning”, traccia strumentale di appena un minuto, serve come intro ad “Tearing Down The Walls”, titletrack in cui il gruppo ritorna alle melodie e ai canovacci tipicamente 80’s: Grönwall dirige e guida da autentico trascinatore un pezzo memorabile che trova la sua parte migliore nell’esplosione corale nel ritornello da stadio. Se bisogna apprezzare lo sforzo della band di provare qualcosa di diverso nel secondo singolo “Mannequin Show”, purtroppo il risultato non è certo dei migliori a causa di una melodia presa quasi a piene mani da “Woman In Love” di Barbra Streisand e “Baby One More Time” di Britney Spears. Dopo un leggero passo falso per fortuna gli svedesi si riprendono alla grande con “We Will Never Die” ed “Emergency”, due delle migliori tracce di tutto “Tearing Down The Walls”: se la classe e l’eleganza della prima con quel tappeto di tastiere e un ritornello cristallino possono già lasciare stupiti è con la seconda che veramente si tocca l’apice del genere. Presi ancora a modello i mitici Europe di “Out Of This World”, il gruppo crea la canzone perfetta che ogni gruppo in questo genere vorrebbe avere: sound e melodie devastanti, chorus irresistibile, una freschezza compositiva davvero senza eguali, un cantante che riesce a superare persino il maestro Tempest e Rivers libero di esprimersi al meglio con uno splendido assolo che avrebbe fatto ingelosire persino Kee Marcello. La parte finale del disco pur mantenendosi su livelli alti non riesce però a mantenere quella magnificenza della traccia appena descritta: “All The Nights”, unica ballad del disco, ci delizia per la sua delicatezza e dolcezza con protagonisti unici il piano e la voce di Erik mentre “Eye For An Eye” ed “Enemy In Me” mostrano ancora il lato aggressivo e anthemico del gruppo. La conclusiva “Laughing At Tomorrow” si sviluppa in maniera piuttosto strana e riprende un modo diverso di comporre che già il gruppo ci aveva mostrato con “Downtown”, anch’essa ultima traccia ma del precedente “Address The Nation”. Se la strofa scorre via in maniera ordinaria è il ritornello a spiazzare con la sua aria festosa e quei cori da “sagra della birra” che poco si incastra con l’aria respirata fino ad ora.
IN CONCLUSIONE
Riprendendo il discorso iniziale, per essere una band piuttosto giovane gli H.E.A.T hanno affrontato l’ennesimo cambio in formazione nel migliore dei modi. Il lavoro dietro la produzione (ancora una volta a cura di Tobias Lindell) è neanche a dirlo perfetto, la scelta di rimanere con una sola chitarra sembra abbia giovato al sound che adesso risulta ancor più pulito e potente di prima. Il songwriting è ancora una volta superiore al 90 per cento di altri artisti del genere nonostante qualche brano non proprio eccezionale per i loro standard elevatissimi e Grönwall è la solita macchina da guerra che domina l’intero disco e su cui ormai la band ha focalizzato il proprio modo di comporre musica. Il gruppo svedese sembra ormai avviato in un processo di maturazione che vede l’abbandono delle sonorità tipicamente “aor” di matrice scandinava per dar spazio ad un melodic hard rock tipicamente americano in cui sembra muoversi comunque con estrema scioltezza e bravura. Qualche momento leggermente sottotono non va ad intaccare la qualità generale del disco che si assesta in linea di massima con quella del precedente “Address The Nation”, di cui “Tearing Down The Walls” è il suo seguito perfetto e ulteriore passo in avanti di una band che ancora una volta ha pochi rivali e che continua il suo percorso creativo con una naturalezza e una bravura che solo i grandi musicisti possiedono.