Glenn Hughes…un nome che non ha certo bisogno di presentazioni, per chi frequenta le pagine di questa o di altre riviste e portali dedicati alla musica più bella del mondo.
“The Voice Of Rock” può infatti vantare nel suo pesante curriculum una continuità qualitativa che ha pochi eguali, considerata la corposa produzione discografica in oltre 40 anni di carriera.
Dai tre leggendari album nelle formazioni Mark III e Mark IV dei Deep Purple, passando attraverso una rigenerata carriera solista a metà anni ’90, per arrivare in tempi più recenti all’impressionante trittico con il supergruppo Black Country Communion.
Le due ultime apparizioni del cantante/bassista di Cannock , avevano però lasciato l’amaro in bocca a più di qualche fan.
Troppo frenetico ed arrabbiato (dopo lo scioglimento forzato dei BCC) nei chiassosi California Breed, troppo lineare nel compitino svolto su commessa per il progetto Voodoo Hill.
Ecco allora che il saggio Glenn (a distanza di ben 8 anni) decide opportunamente di concentrarsi su un disco solista, ritornando tra noi con un’ispirazione, una lucidità e una personalità conosciuta solo ai grandissimi.
Non sbaglia niente Glenn, a partire dalla scelta come co-produttore di Soren Andersen (già apprezzato per il suo splendido lavoro nel nuovo Tygers Of Pan Tang).
Quello che colpisce da subito di questo Resonate è infatti il mix potente, cristallino e perfettamente bilanciato studiato dal chitarrista/produttore danese.
L’opener Heavy è pulsante, potente e si muove con decisione sulla spinta dell’Hammond suonato dal misconosciuto Lachy Doley.
La ricerca di qualche effetto più moderno giova inoltre parecchio alla riuscita del brano.
Come capirete più avanti, Hughes pesca bene anche qui. Doley sarà sicuramente un nome nuovo anche per gli ascoltatori più attenti,
in realtà l’organista australiano è una sorta di nuovo Messia per i devoti al culto dell’organo Hammond.
My Town è un’altro pezzo tirato, giocato su vorticosi giri basso e le chitarre down-tuned di Soren Andersen ma l’inimitabile timbro di Glenn smorza la tensione in un refrain che rimane già in testa al primo ascolto.
Con Flow, il passo si fa pesante e rallentato. Ipnotico nel suo incedere fino ad esplodere nel primo solo monster di Andersen.
Let It Shine porta uno sprazzo di luce, lungo il tunnel magnificamente oscuro in cui il disco sembra infilarsi. Un classico in stile Hughes.
Steady ci riporta ad un’andatura più sostenuta, per rallentare solo nel refrain sognante ancora tipicamente Glenn Hughes.
È qui che sale il cattedra Lachy Doley. Dalla magnetica intro allo sferzante lead di Hammond che si incastra a meraviglia tra un’altro solo di basso ed uno di chitarra.
Insomma…oltre alle indiscutibili capacità tecniche dei musicisti, sarà anche la variegata struttura dei brani a tenervi appiccicati agli speakers.
Resonate è un disco enorme nel suono, che cresce brano dopo brano quasi da far paura.
Come nella plumbea God Of Money, dove il basso di Glenn sembra arrivare direttamente dall’Inferno, puntellato da un riff capace di tagliare il quarzo.
Il ritornello è tra i più riusciti del disco ma il pezzo tocca il suo apice negli assoli di un’indemoniato Lachy Doley , dove anche la chitarra di Soren Andersen sembra immersa nel fuoco.
La seconda parte del disco registra un leggero calo, con pezzi meno ispirati come How Long e Stumble and Go ma resta in grado di riservarci ancora qualche bella sorpresa.
È il momento del miglior Hughes alla voce, accompagnato dal piano elettrico Clavinet di Doley. When I Fall è proprio la ballata Soul-Blues che aspettavamo. Avrei preferito un chorus più audace ma l’interpretazione dell’ex Purple, in frangenti come questo, non lascia spazio a pignolerie.
Si pesca invece dal pedigree Funky-Rock nella scoppiettante Landmines, con un trascinante solo in talk-box di Andersen a fare la differenza.
La chiusura del disco è riservata ad un’altra piece di rilievo : Long Time Gone.
Suggestiva nell’intro di chitarra acustica e voce, per cambiare poi pelle e tempo fino ad un bridge stile Motown.
CONCLUSIONE
Con Resonate, la leggenda Glenn Hughes sceglie di non crogiolarsi in un facile ripescaggio di quei contenuti che lo hanno reso grande in passato.
Opta per una produzione “moderna” con suoni all’avanguardia, puntando su un chitarrista e produttore come Soren Andersen (a mio avviso il Top-Producer del momento), senza rinunciare agli stilemi dell’Hard Rock più classico, grazie all’innesto di un vero e proprio stregone dell’organo Hammond come Lachy Doley.
Il risultato è un lavoro vario, originale anche nella struttura delle canzoni.
Un disco che “risuonerà” a lungo nei vostri lettori e che difficilmente resterà fuori dal podio per i tre migliori dischi del 2016.