Last In Line – Jericho – Recensione
Vivian Campbell alla chitarra, Vinny Appice e Phil Soussan a formare la sezione ritmica, e Andrew Freeman alla voce: di certo una delle migliori formazioni disponibili sulle scene odierne per gli amanti dell’hard ‘n’ heavy vecchia maniera.
Sotto l’immutato moniker Last in Line (che rimanda al passato di due dei quattro musicisti nella formazione dei Dio), ma forti di una nuova label (la major earMusic), questi quattro sempreverdi ragazzacci escono sul mercato con il loro terzo album, intitolato Jericho. E la linea compositiva rimane la stessa: una serie di riff granitici, possenti, vetusti ed ispirati come non mai, heavy fino al midollo si accompagnano a un drumming potentissimo ed essenziale, riconoscibilissimo, pulsante, tutto groove e qualità, che si completa di un basso di primissimo ordine, profondo e portante, e di una vocalità decisa, cattiva, estesa, urlata dritta in faccia a chi sente. Con il contorno di una produzione in studio dinamica, ben tarata in modo da far sentire ogni strumento avanti, come se dovesse fisicamente entrarci nel petto, dritto nella nostra anima più oscura e metallica.
Un songwriting così vario e ispirato può permettersi anche degli azzardi, come quello di far suonare come opener del disco Not Today Satan, una traccia decisamente atipica per il gruppo, in quanto upbeat, dall’atmosfera in chiaro-scuro, e dal tratto hard questa volta frutto di sfumature moderne, quasi vicine all’alternative. Nel complesso però è una scelta azzeccata e che dimostra come, anche variando in parte il proprio sound, questa formazione risulti essere così coesa e sicura di se da mostrarsi assolutamente coerente anche con un brano dallo stile così diverso, che tutti gli altri avrebbero inserito al massimo dalle seconda metà del disco, in poi. Spiazzante, chapeau!
Con Ghost Town torniamo invece su binari più consoni, che rimandano all’hard rock e al metal più primitivo, che ha i suoi highlights nel possente giro di basso di Soussan, nell’assolo strepitoso di Campbell, e nello scream selvaggio di Freeman a fine canzone. Il riff d’apertura di Bastard Son, subito seguito dal drumming tutto prestanza di Appice, basta da solo a rendere questa track un classico della band, al pari di una Dark Days subito accattivante grazie non solo al suo refrain, ma anche e soprattutto al suo stoppato, che è maschio, cattivissimo, tutto energia.
Si spostano invece i riflettori sull’eccellente cantato di Freeman nella più melodica e slowtempo Burning Bridges, seguita dal singolo dinamitardo Do The Work, dominato dal suo ottimo refrain (che in qualche modo sa anche di Def Leppard, per come è corale e d’impatto), ricco da vendere di groove e di feeling ottantiano. Via poi con l’hard ‘n’ heavy decisamente speed di Hurricane Orlagh, un altro pezzo da novanta del disco, nonchè la classica traccia in grado di farci immediatamente alzare dalle sedie per scapocciare come dei forsennati, e con Walls Of Jericho, canzone ancora una volta molto tirata, vicina al sound antico dei Dio, epica e metallica, ma ricca di melodia nell’ennesimo grande assolo di un Campbell ancora in grande spolvero.
Groove e potenza, questa volta in chiave decisamente hard rock, sono le caratteristiche primarie anche di Story Of My Life, una canzone deciamente radio-friendly anche grazie alla sua compattezza, che porta il brano ad essere racchiuso in poco meno di quatto minuti di musica completa ed elettrizzante. We Don’t Run, dopo una breve intro strumentale in puro stile Last in Line, si evolve poi come una mid-tempo di spessore, rilassata sulle strofe ma arrichita da un altro ritornello di impatto, semplice ed orecchiabile, corale e piacevole fin dal primo ascolto. Hard rock anni’90, con qualche rimando non troppo celato ai Dokken e ai Lynch Mob di quegli anni, il brano Something Wicked disegna ancora una serie di trovate interessanti, in un sound differente che non stona in alcun modo all’interno del platter.
Ma è con il sigillo di House Party At The End Of The World che questa registrazone tocca una nuova e finale vetta. Lo stile si fa nuovamente hard ‘n’ heavy, ancora ’80s e ancora una volta alla Dio, e il tutto raggiunge finalmente tonalità epiche magnifiche, monumentali e inarrivabili ai più, esattamente come il cantanto di un indomabile Freeman, pura star di una traccia di commiato da lode e bacio accademico, che cala il sipario sull’ennesima ottima registrazione di una band viva, vera, e solida come una lastra di pesante granito. Lodi, lodi, lodi!