Johan Kihlberg’s Impera – Age of Discovery – Recensione
Gentili lettori e lettrici di www.melodicrock.it , quando si parla del batterista svedese Johan Kihlberg, non si può non pensare al suo progetto IMPERA. Dopo tre dischi di buon successo, Johan ha deciso che è giunta l’ora di provare a lavorare ad un progetto solista. Per fare ciò decide di avvalersi del contributo del chitarrista dei Lion’s Share, LARS CHRISS che, oltre ad essere un ottimo musicista, è anche un rinomato produttore e tecnico del suono. Ma non basta, le ambizioni sono alte. Quindi non formano una vera e propria band, ma invitano al progetto tantissimi loro vecchi amici amici (soprattutto cantanti) che quindi danno a questo disco la tipica caratteristica dello Studio Project. Ora potremmo iniziare mille discorsi sugli Studio Project con decine di ospiti: da un certo punto di vista c’è sicuramente un arricchimento dal punto di vista artistico e stilistico. Dall’altra parte però si corre il rischio di perdere il filone narrativo e di pathos che un singer unico può dare. Ma questo lo analizzeremo alla fine. Più che altro mi pongo un importante quesito: visto da come viene presentato questo lavoro (titolo/cover), non è che questo sarà ne più, ne meno che il quarto disco degli Impera senza la line up degli Impera??????? Non ci resta che passare all’ascolto:
un breve preludio sinfonico ci introduce alle note del primo brano “That´s The Way That Life Goes” cantato da Nils Patrik Johansson (Lion’s Share, Astral Doors) che con una prestazione direi notevole, ma forse un po’ sopra le righe, ci fa entrare nel mondo dell’hard rock di matrice prettamente epica. Malgrado non sia lo stile di voce che prediligo l’inizio è piacevole e di gran classe. A seguire troviamo il brano “FEAR” che vede alla voce sempre Johanson, ma questa volta accompagnato da Mick Devine (Seven). L’epicità continua a farla da padrona anche se il cantato di Devine e gli arrangiamenti un po’ più morbidi mi fanno preferire questo brano al primo. Nota dolente: un intermezzo sinfonico di quasi due minuti al centro del brano che trovo troppo prolisso e che fa perder mordente al brano.
Con “Falling” ennesimo cambio alla voce (Michael J. Scott ), riduzione dei beat al minuto e, almeno nella prima parte I suoni si ammorbidiscono, per poi fare spazio all’ennesimo inciso hard ed epico.
Bene, ora possiamo dire che ci troviamo di fronte ad un disco di Epic Hard Rock?
Ehm, se continuiamo con l’ascolto……..direi di no!!!!
Con “The end of the Road” si cambia registro!! Torna Devine alla voce (questa volta da solo) e cambia tutto. La parte epica lascia il posto ad un ottimo brano di melodic hard rock in cui ci sono tutti gli ingredienti (melodia, corì, inciso accattivante) per renderlo uno dei brani più riusciti del disco.
Siamo ormai alla sesta traccia e si cambia ancora!!! “ Just A Conversation”, cantata da Göran Edman (Yngwie Malmsteen, John Norum) è un brano molto AOR (american Style) con struttura del testo ed arrangiamenti che strizzano l’occhio agli inarrivabili Boulevard.
Nigel Bailey è l’interprete di “the right Stuff” in cui si torna all’hard rock in un brano abbastanza anonimo che di positivo ha solo la grande prestazione di Nigel!!
Tocca ora a Michael Sadler (Saga) a deliziarci con “Why Does She Care” brano dal gusto decisamente retrò in cui I vecchi amori musicali di Johan (Abba, Simple Minds, Humane League) si materializzano donandoci sicuramente il miglior brano di questo disco.
“I Am I” (alla voce Mick Devine) si presenta con un intro “a cappella” per poi svilupparsi nel brano più AOR del disco.
“It’s a Revolution” è l’ultimo brano che, con il suo intro stile “The Who”, non ci azzecca molto con il resto degli altri brani. Hard Rock anonimo che la grandissima voce di Baley a stento riesce a rendere poco più che sufficiente.
IN CONCLUSIONE
al termine dell’ascolto posso subito rispondere alla domanda che mi ponevo all’inizio della recensione: questo NON E’ in quarto lavoro degli Impera. Certo, in alcune sonorità ed in alcuni brani li possono ricordare ma niente di più. “Age of Discovery” è un lavoro dalle molte (forse troppe) sfaccettature. Decisamente più debole nelle parti epiche, aumenta in qualità (sicuramente non eccelsa) quando I suoni si ammorbidiscono. Capitolo cantanti: a mio parere troppi e troppo differenti. Tutto questo ha fatto in modo di creare una specie di “fritto misto” senza capo ne coda con un songwriting sicuramente non eccelso. Quindi “Age of Dicovery è un brutto lavoro? Forse no! Nel senso che comunque ci sono quattro o cinque brani che valgono la pena di essere ascoltati e la presenza di Devine e Bailey danno quel tocco in più al disco. Ottima la produzione. Ed allora…….diamogli un ascolto!
Let’s Rock