Devils In Heaven – Rise – Recensione
Una delle copertine più pacchiane della storia nasconde un gioiello di melodic rock partorito da un gruppo perseguitato dalla sfiga. Un disco che avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere un crack e che per nostra somma gioia è stato ripescato da Aor Heaven dandoci la possibiltà di gustarcelo a quasi trent’anni di distanza.
Un po’ di storia: i Devils In Heaven sono un gruppo Australiano ,della Tasmania per l’esattezza, che ebbe il suo quarto d’ora di celebrità vincendo un concorso di un programma televisivo ed assicurandosi così la possibiltà di registrare un singolo con la Sony. Correva l’anno 1992 e la Sony, adempiuto il vincolo contrattuale, non aveva nessun interesse nella promozione e nello sviluppo di questo progetto, affaccendata com’era sia nella produzione dell’uscita di Rick Price (tra l’altro ottimo disco ,ma flop commerciale) e nella rincorsa ad altre coordinate sonore. Comunque sia, il singolo un po’ di rumore nella scena underground lo fece (su Discogs mi sembra sia quotato sui 300/350 dollari ) e questo stimolò i diavoli della tasmania a registrare un ep autoprodotto direttamente negli Usa avvalendosi della collaborazione artistica e produttiva di Sir Arthur Payson (Mitch Malloy, Tattoo Rodeo, Kane Roberts, tanto per fare qualche nome dei suoi assistiti). Nasce così nel 1993 Liberation ,un ep con tre tracce uscito per la super underground Possum records. Inutile dire che un sound del genere nel 1993 senza nessuna spinta promozionale, non ebbe la minima speranza . Se comprerete questo Rise, troverete inclusa una esaustiva intervista che narra tutte le vicissitudini di questi sfortunati ragazzi, dalla perdita della voce del singer David Whitney, alla prematura scomparsa del batterista Phil Crothers.
Questa edizione contiene tutte le cinque canzoni precedentemente edite, più altre sette registrazioni mai uscite, tutte remasterizzate e ripulite, inoltre le ultime due bonus track sono la riproposizione delle versioni originali dell’epoca.
Musicalmente parlando , le canzoni si muovono su coordinate melodic rock /aor con qualche puntata nel pop rock di matrice Aussie, volendo sintetizzare in estremo ,un mix tra 1927 e From The Fire per chi li conosce, ma non avrete difficoltà a collocarlo nel tipico filone anni 80 poiché ne ripercorre in pieno lo spirito. Per me è stato amore al primo ascolto e tutte le canzoni hanno una loro dignità , chiaramente si nota una certa disomegeneità dovuta al fatto che le canzoni sono state composte in epoche diverse e cercando di trovare una vera e propria direzione sonora, in ogni caso sono tutti esperimenti riusciti. Citerò in ordine sparso Liberation che con il suo bridge avrebbe reso fieri i gemelli Nelson e Take Me che si muove su un territorio molto accostabile ai From The Fire. Segue Ain’t It A Wonder, una ballad che ai tempi avremmo definito strappamutande, il classico lento da ballare abbracciati ad una bella pischellotta, veramente emozionale. Ships In The Night è un mid tempo che deve molto alla scena Australiana ed il sound 1927 è inconfondibile. Ascoltate poi con che approccio Boltoniano viene affrontata Ships in The Night, un vero e prorio hit mancato. All Night va ad esplorare il pop/rock più orecchiabile e non va lontano dalle atmosfere compositive alla Mark Spiro. I moderni amanti del revival synth pop potranno invece sculettare amabilmente sulle note di Listen To My Heart con quell’intro alla Donna Summer che farà impallidire tutti i Brother Firetribe dell’universo. Cito inoltre la conclusiva ballad Heart, Mind & Soul delicata e coinvolgente.
Insomma a me è scattato il colpo di fulmine per questa sfortunatissima band dalle grandi doti e se sicuramente si candida per la copertina più brutta del millennio, questo Rise merita l’acquisto ad occhi chiusi perché qui…..mancò la fortuna, non di certo il valore.