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30 Maggio 2024 9 Commenti Denis Abello
genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Art of Melody Music / Burning MInds
Amo le sorprese… soprattutto quelle inaspettate ed in grado di farti emozionare e questo Portraits, primo lavoro a firma Night Pleasure Hotel, è proprio questo; una sorpresa inaspettata ed emozionante.
Se a questo aggiungiamo un po’ di sano patriottismo dicendo che la band ha origini completamente Italiane e che esce per un’etichetta anch’essa Italiana (Burning Minds / Art Of Melody Music) ecco che allora la smania di buttare giù due rihe su questa riuscita opera AOR è sicuramente tanta!
Una decina di anni fa Alex Mari, voce con un discreto curriculum che vede partecipazioni nella Michele Luppi Band, Barock Project, Ophiura, e backing vocalist con i Rhapsody of Fire mette in piedi la “Alex Mari & the lovers” iniziando a portare live pezzi di Queen, Toto, Police e Ac/Dc ma con l’intento di pubblicare musica inedita. Come spesso accade in questi casi ci vuole un po’ a stabilizzare la formazione e l’entrata in pianta stabile di Gianluca Pisana alla batteria e Sebastiano Barbirato alle chitarre porta alla nascita dei Night Pleasure Hotel!
IN questa prima opera Alex Mari e Sebastinao Barbinato si alternano al basso con il primo che si prende anche l’onere delle tastiere mentre il piano è presidiato da Gianluca Pisana e a loro si aggiungono comparsate di nomi quali Michele Luppi (Whitesnake), Luca Zabbini (Barock Project, PFM), Paolo Caridi (Ellefson-Soto, Reb Beach, Geoff Tate, Krell), Gianluca Tagliavini (PFM), Roberto Galli (Michele Luppi’s Heaven, Danger Zone, Wheels Of Fire) e Iarin Munari (Red Canzian, Roberto Vecchioni, Paolo Vallesi).
Senza toglievi il gusto di sviscerare personalmente un album come questo sappiate che le fondamenta su cui poggia le sue basi questo lavoro affondano in un AOR di gran classe impreziosito da arrangiamenti curati ed eleganti. Tendenzialmente di base USA il sound riporta ai Foreigner come in Shivers o ai Survivor come nella introduttiva Niko andando a toccare le corde dell’AOR più cromato ed intimista, quasi westcoast come nella bellissima Walking Through The Horizon in cui è impossibile non perdersi tra le note intense di voce e chitarra.
Just Once è forse il pezzo più AOR “classico” mentre notevoli sono i lenti e le ballate del lotto proposto, come la delicata We Say Goodbye, la raffinata e con accenni da prog italiano (non a caso tra gli ospiti troviamo gente che ha militato nei PFM) Sweet Melodies of Rain o ancora la toccante What I Feel. A conferma di un album dalle diverse anime non possiamo non citare il tratto westcoast/pop di For You! Bellissima chiusura infine su un brano cantato in italiano come Quella Sera che riporta alla mente, per intensità e tipologia di sonorità, il pop/rock italiano più elegante e sofisticato.
Voce sopraffina quella di Alex Mari (altra gradita sorpresa!), che in trio con Gianluca Pisana e Sebastiano Barbinato, riesce a cesellare un album in grado di andare a toccare sicuramente le corde di chi è alla ricerca di un lavoro personale e delicato. Un perfetto mix e mastering, a cura di Roberto Priori, arricchisce di dettagli un lavoro in grado di svettare sulle uscite di questo 2024!
30 Maggio 2024 2 Commenti Giulio Burato
genere: AOR / MELODIC ROCK
anno: 2024
etichetta: AOR Blvd Records
Il quattordicesimo album dei Newman, alla cadenza media di un’uscita discografica ogni due anni, si presenta con un art-work che raffigura una cassa che esplode dei vivaci colori. La calda voce di Steve, pluristrumentista britannico, si avvale della collaborazione di Rob McEwen e di Ben Green.
Analizzando questo “Colour in sound” posso affermare che è stato dato rilievo alla produzione e, nel particolare, allo spazio dato ai sintetizzatori in stile anni’80 (basta fare skip immediato sulla futuristica “Games” o sulla sofisticata title-track) che rendono inedito l’album rispetto ad altre antecedenti uscite.
Il singolo “Godspeed” è un bel biglietto apripista, canzone dalle linee musicali che trasudano di passato ma che evolvono con qualche distinto tocco synth. Altra canzone da gustare e la successiva “In euphoria” con un refrain ben studiato, fuori dalle strutture convenzionali, e con innesti di keys ben assestati. Sulla stessa falsa riga anche “Cascaded”, più soffusa nei versi per poi aprirsi verso il ritornello.
“Wake of the wanderlust”, “War Against The Mind “e “Can’t stop falling” risultano più canoniche e vicine ad un Newman passato.
Semplice ma ottimamente interpretato il lento “Who holds you”.
“Colour in sound” è un album amabile; non farà gridare al miracolo, ma si apprezza per quei tocchi di originalità presenti nella sua struttura, presi a campione nella canzone che manca all’appello, ossia “Afterglow”.
22 Maggio 2024 3 Commenti Giulio Burato
genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Escape
Seconda uscita discografica per i Remedy a meno di due anni dal primo, interessante “Something That Your Eyes Won’t See” (qui la recensione), album che ha fatto successo nelle classifiche dei paesi nordici e che suggerisco di ascoltare.
Alla band non manca il piglio dell’originalità per la scelta dei titoli; infatti, anche il nuovo “Pleasure beats the pain” conferma tale regola, consegnandoci anche una copertina ben riconoscibile su uno sfondo rosso. In uscita il 24 maggio 2024, con Escape Music, l’album è stato mixato e masterizzato da Erik Martensson (Eclipse) per Mass Destruction Production.
“Pleasure beats the pain” si apre con il mid-tempo “Crying Heart”, secondo singolo del nuovo lavoro, dalla costruzione che sa di anni ottanta, seguito a ruota dal singolo apripista “More has the night”, un gioiellino da ascoltare per struttura, armonie e gli intarsi di tastiere e chitarre, amalgamati alla perfezione, che sfociano in un ritornello splendidamente riuscito.
“Sin for me” si apre truce, passa ad un solo di chitarra, e riparte spedita scaturendo in un refrain complesso ma efficace. “Angelina” ha un DNA soft rock con un coretto che ti si attacca al padiglione auricolare e che ci rimanda alle grandi coralità degli ABBA e dei più “familiari” Bad Habit. Il morbido inizio di “Bad Blood” sale di carica all’innesto tra bridge e chorus, mentre il terzo singolo “Caught by Death” riporta in primo piano il chitarrista Roland Forsman coadiuvato dal lavoro di Jonas Dicklo al basso. Più semplice e diretta “Hearts on fire”, mentre la carica iniziale di “Poison” ci regala una canzone con interessanti sfumature di tastiere e variazioni chitarristiche di pregio. “Girl’s got trouble” ha un’anima e un ritmo blues e sembra uscita dallo shaker tra i Deep Purple e gli Y&T.
Nell’acustica “Something They Call Love”, il cantato di Robert Van Der Zwan mi rimanda idealmente al Mike Tramp solista; le orchestrazioni presenti a fine brano lo rendono piacevole, sfumando e chiudendo la scaletta proposta dai Remedy.
21 Maggio 2024 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Mighty Music
Finalmente è giunta al termine la lunga attesa per il quarto album di JD Miller: in uscita “Empyrean”, dalle molteplici influenze e dalle sonorità particolari.
Dopo la strumentale intro “Prelude Of The Empyrean”, entriamo nel mondo etereo di Miller con “The Butterfly”, compatta e decisa, dal ritornello orecchiabile, ottimo rompighiaccio in vista della tracce successive. Arriviamo a “Inside The Night”, movimentata e godibilissima, dai fraseggi strumentali molto interessanti, soprattutto nelle parti soliste centrali. “Out Of Control” scatena un’energia non indifferente, con una dinamica sempre ben dosata e una esecuzione musicale molto convincente. Passiamo a “I’ll Never Give Up”, molto contemporaneo nelle atmosfere, concentrato, intenso, lascia un buon ricordo all’ascoltatore. “Awake (We Are The Machine)” martella dal primo all’ultimo secondo, senza pause e senza troppi fronzoli, mostrando l’anima più metallara della compagine svedese, così come la successiva “One In A Million”, tiratissima e dalla trama spietata. Mistero e tensione per “Call The Police”, dalle sensazioni oscure, ma dal sound gradevole e a tratti rammsteiniano (soprattutto nella parte iniziale), che si addolcisce via via che i secondi scorrono, al contrario di “Enemy”, che non sorprende e non brilla. La lunghissima “Alive” chiude degnamente questo lavoro di studio, maturo, dalle sonorità molto contemporanee e dalla resa tutto sommato gradevole.
21 Maggio 2024 3 Commenti Giulio Burato
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Reigning Phoenix Music
Ricordo chiaramente quando, per la prima volta, nell’allora MTV, vidi passare il video di “18 And life” degli esordienti Skid Row, capitatati dalla fluente chioma di Sebastian Bach. Da lì a poco comprai direttamente il vinile di quell’omonimo e spettacolare disco, ricco di potente melodia che mi conquistò in maniera totale. A 35 anni di distanza mi ritrovo a recensire il quinto album, in studio, da solista del cantante canadese, all’anagrafe Sebastian Bierk.
I componenti di calibro della band sono Devin Bronson (chitarre) Todd Kerns (basso) e Jeremy Colson (batteria).
Uscito per Reigning Phoenix Music, l’album si avvale dell’importante lavoro in cabina di “navigazione” di Robert Ludwig (Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Tool, Kiss, Metallica etc) e di Michael Elvis Baskette in produzione.
Dopo tutta questa premessa, mi butto, senza remore ed aspettative (i precedenti quattro album non mi hanno mai preso), ad ascoltare “Child Within The Man”, dall’artwork “rivedibile”.
Tirando le somme, dopo diversi ascolti, affermo che il disco mi ha sorpreso.
Suoni ben prodotti, sessione ritmica potente e di livello, Sebastian ben assestato dietro al microfono.
Già dall’opener Everybody Bleeds si capisce dove la nave andrà a navigare. I riff sono tosti e scuri, la voce è ficcante ed aggressiva al punto giusto. Sulla stessa rotta di navigazione altre canzoni come la successiva Freedom, arricchita da John 5 (Motley Crue) alla chitarra, mentre su Future of Youth appare la bella Orianthi.
Coordinate navali che virano verso acque maggiormente moderniste per Hard Darkness, F.U., impreziosita dalla presenza di Steve Stevens (Billy Idol), Crucify Me e Vendetta, quest’ultima con una orecchiabilità più accentuata nel ritornello.
Boe colorate di Skid Row per il singolo (Hold On) To The Dream, con la costruzione acustica (sotto)coperta poi da un potente ingresso di chitarra in stile “Slave to the grind”, e dalla susseguente What Do I Got To Lose?.
Poteva mancare una power ballad? “To live again” scritta con Myles Kennedy degli Alter Bridge, colma la casella vuota del lento potente, sontuoso e viscerale.
Seppure in copertina ci sia raffigurata un’auto in primo piano e non un vascello, io ho navigato con questo ““Child Within The Man” senza aspettative; alla fine ho fatto un bel viaggio, col vento in poppa, ricco di energia, e col timoniero Sebastian Bach in ottima forma.
19 Maggio 2024 4 Commenti Redazione MelodicRock.it
genere:
anno: 2024
etichetta: Frontiers Music Srl
Recensione a cura di Luke Bosio che la redazione di MelodicRock.it ringrazia!
Come un novello Saruman, Denis Abello (direttore di MelodicRock.it n.d.r.) mi ha risvegliato dal sonno eterno – ormai sono a tutti gli effetti un recensore arrugginito e pensionabile – per affidarmi la recensione di un gruppo che ho avuto la fortuna di seguire con molta attenzione e grande interesse sin dagli esordi, ovvero quelli del binomio vinilico “Night Of The Demon/The Unexpected Guest” (rispettivamente 1981/1982).
A tal chiamata ho risposto con entusiasmo, anche perché tanta era la curiosità di ascoltare il nuovo “Invincible“, primo album ad uscire sotto l’egida della nostrana Frontiers Records e non meno importante, il fatto che il nome Demon, riecheggia ancora nelle mia memoria come qualcosa di altamente nobile e importante. Non si assurge allo status di ‘leggenda’ per caso, sia ben chiaro, i gradi bisogna guadagnarseli sul campo di battaglia e un onere da cui la band non si è mai tirata indietro. Il rischio in alcuni casi è che band seminali, dopo aver impresso il proprio marchio su un intero movimento musicale, si perdano per strada o, più semplicemente, vengano superate dai tempi e dall’evoluzione di quella musica che essi stessi hanno contribuito a plasmare o molto più banalmente decidano di cambiare completamente stile.
Come detto poc’anzi nel caso specifico dei Demon abbiamo a che fare con una formazione che ha fatto uscire due album importantissimi in piena esplosione del movimento della N.W.O.B.H.M. rendendo unica la loro proposta anche per l’iniziale uso di tematiche oscure che tanto pesantemente hanno connotato il settore fin dai propri albori. I temi horror/demoniaci, il look del cantante Dave Hill durante gli spettacoli (in stile Grand Guignol preso in prestito direttamente dall’Alice Cooper anni 70) fecero il resto nel creare una leggenda.
In realtà, i Demon, non erano affatto una band contraddistinta da chitarre gemelle e cavalcate furiose come vorrebbe la ricetta originale del british metal di inizio anni ’80, dato che affondavano le radici del loro impianto musicale, solide radici, risalenti al decennio precedente (Deep Purple, Black Sabbath e Uriah Heep su tutti) miscelate con le soluzioni più in voga dell’epoca.
I Demon vivono oggi una dimensione di ‘Cult band’ che forse non rende loro pieno merito e che in parte è stata offuscata da un periodo poco felice (leggasi perdita di tanti fans) inaugurato proprio da quel “The Plague” (1983) che sancirà un nuovo corso e che porterà il gruppo verso lidi sempre più distanti da quelli originali e sempre meno interessanti per noi amanti della distorsione, fino al ritorno alle radici metal 30 e passa anni dopo, ma questa è un’altra storia.
Quello che importa infatti, è che pur limitatamente a due album storici e senza tralasciare anche cosa di buono hanno saputo fare dopo, come ad esempio “Breakout” (per me è il loro equivalenete a “On A Storytellers Night” dei Magnum) “Hold On To A Dream” o “Taking The World By Storm”, il gruppo dello Staffordshire rimane fondamentale da conoscere anche per il ruolo storicamente importante che ha ricoperto. continua
10 Maggio 2024 2 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Nuovo album dei Blue Oyster Cult? Sì, ma non del tutto nuovo, voi direte, e perché? Semplice, questo “Ghost stories” non è composto da canzoni appena scritte dalla premiata ditta Bloom/Roeser, ma da pezzi registrati tra il 1978 ed il 1983 e pubblicati solo ora, dopo essere stati remixati, inoltre sono state aggiunte anche le nuove parti registrate da Richie Castellano, oramai con i BOC da vent’anni.
Data la poca prolificità della band statunitense che, ricordiamo, dal 1988 ad oggi ha pubblicato solo quattro album in studio prima di questo, probabilmente si è pensato di fare questa operazione per mantenerne vivo il nome, vista l’urgenza dell’etichetta, la nostra Frontiers, di far uscire pubblicazioni più o meno fresche del proprio roster, ma sarà stata una mossa azzeccata?
Staremo a vedere, intanto parliamo della composizioni che compongono quello che, a tutti gli effetti è il quindicesimo lavoro in studio dei Blue Oyster Cult, si comincia con ‘Late night street fight’, un boogie rock tipico dei BOC del periodo fine seventies/inizio eighties, comunque piacevolmente spiazzante, seppur nei suoi tre minuti e mezzo, questo potrebbe far presagire il solito album pieno di voli esaltanti nel mondo blueoystercultiano, ma così non è, almeno non del tutto, perché già da ‘Cherry’ si comincia a capire perché queste tracce sono state scartate ai tempi per lasciare spazio a composizioni più ispirate, che, ricordo, sono andate a comporre dischi enormi come “Cultosaurus Erectus”, “Fire of unknown origin” e “The revolution by night”, sembra di sentire i Rolling Stones in botta e, chiaramente, senza il valore aggiunto della copia Jagger/Richards e se con ‘So supernatural’ sembra che le cose vadano meglio, con il suo andamento più oscuro, ma retto su una linea tutto sommato semplice ed orecchiabile, ecco che la cover di ‘We gotta get out of this place’ degli Animals, originariamente incisa da Eric Burdon e soci nel 1965, fa scendere subito l’attenzione, ok, si tratta di un pezzo sostanzialmente pop, ma nella versione dei nostri, non guadagna ne in freschezza, ne in incisività, si prosegue con ‘Soul jive’, dove fa capolino il funky a-la Stevie Wonder, reinterpretato alla loro maniera, perlomeno porta una ventata di freschezza, che viene però subito spazzata via da ‘Gun’, dove lo spettro degli Stones torna ad aleggiare, ma senza incidere e lasciare alcunché di memorabile, un po’ più di verve la da ‘Shot in the dark’, ritmata e più coinvolgente rispetto ai pezzi precedenti, ma non è che ci volesse molto. E così si arriva alla seconda cover contenuta sull’album, ovvero quella ‘Kick out the jams’ degli MC5, originariamente uscita come singolo nel 1969 e qui riportata in una versione che non rende giustizia a quella vigorosa di Wayne Kramer e soci, insomma , a parte il tributo al rock più sanguigno, sinceramente non riesco a capire il perché di un rifacimento così edulcorato di un pezzo che rappresenta la rabbia del proto punk, espressa anche in un testo diretto e senza compromessi; stancamente ci trasciniamo verso la fine con il rock fumoso di ‘Money machine’, almeno sorretta da un bel riff, con l’hard melodico finalmente un p0′ spiazzante di ‘Don’t come running to me’, fino alla chiusura con ‘If I fell’, la cover dei Beatles contenuta originariamente su “A hard day’s night’ del 1964, rifatta pari pari alla già melensa versione originale, nota a margine, questa è l’unica canzone registrata recentemente, ossia nel 2016, ma la cosa non cambia nulla del risultato finale.
Dicevamo, sarà stata una mossa azzeccata? Beh, sicuramente il nome è di richiamo e di rilievo, l’operazione è quantomeno discutibile e se devo essere sincero, a me, non ha convinto per nulla, quello che penso dei Blue Oyster Cult continuerà ad essere qualcosa di grande ed inspiegabile con termini semplici, quindi “Ghost stories” non scalfirà la mia convinzione, piuttosto credo che aumenterà invece quella che mi porta a pensare che la Frontiers abbia perso una occasione di pubblicare qualcosa di veramente intrigante, ma io non gestisco una label, per cui rimane soltanto un mio pensiero…
07 Maggio 2024 17 Commenti Alberto Rozza
genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Frontiers
A quarant’anni dalla loro nascita, arriva il nuovo disco dei britannici FM, grande e storica band capace di sfornare grandi lavori, sempre orientati sull’AOR.
Partiamo senza troppe titubanze con “Out Of The Blue”, perfetto esempio di AOR, intenso, caldo e coinvolgente. “Don’t Need Another Heartache” risulta un pezzone standard, dalle buone vibrazioni, riconoscibile e impressivo. Passiamo a “No Easy Way Out”, ritmata e suadente, che presto si riversa in “Lost”, ben più rockeggiante e cadenzata. “Whatever It Takes” torna su sentieri più introspettivi e malinconici, mantenendo una dinamica interessante. Con “Black Water” si torna su groove più intensi, raggiungendo picchi di coralità non indifferenti. Ci rilassiamo sulle scanzonate note di “Cut Me Loose”, brano che fa muovere le spalle e fa canticchiare, così come la successiva “Leap Of Faith”, molto movimentata e dalla struttura titanica. “California” non stupisce più di tanto, mantenendosi sullo standard dell’album, al contrario della più “contemporanea” “Another Day In My World”, che presenta anche inserti digitali. Conclusa l’arrembante “Blue Sky Mind”, possiamo dire di aver ascoltato un lavoro di grande compattezza, dai suoni e dalle trame ben azzeccate e complessivamente ben eseguite: gli FM non deludono mai.
24 Aprile 2024 2 Commenti Alberto Rozza
genere: Progressive Metal
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Per questo 2024 in uscita il nuovissimo lavoro dei tedeschi Vanden Plas, super band progressive, iconica, di grandissimo spessore e sempre in grado di produrre brani di estrema qualità.
Si parte alla grande con la title track “The Empyrean Equation Of The Long Lost Things”, complessa, articolata, stupendamente cesellata, che scorre piacevolmente nonostante i suoi 8 minuti di durata: ottimo inizio! “My Icarian Flight” stupisce e incanta, per le sue parti vocali cristalline, limpide e allo stesso tempo intense e calde, che si mescolano alla trama musicale sempre azzeccata e raffinata. Arriviamo alla poderosa “Sanctimonarium”, dalla grande carica ritmica, ottimamente giocata sulla dinamica e su parti cadenzate, che la rendono vivace e coinvolgente. “The Sacrilegious Mind Machine” è un pezzone micidiale, movimentato, metalloso al punto giusto, una vera chicca piazzata non per nulla al giro di boa dell’album. Sulla componente puramente tecnica non c’è nulla da dire, ma la grande capacità di coniugarla alla melodia, per renderla fruibile e non pesante (e monotona!), è ben presente in questo lavoro: ne dà prova la superba “They Call Me God”, gagliarda, titanica e travolgente. Della durata di ben 15 minuti, variegati, eterogenei e sensazionali, “March Of The Saints” chiude trionfalmente questa piccola grande perla del nostro periodo storico, della quale si può dire veramente poco, se non contemplarne la bellezza e ringraziare i musicisti per aver prodotto un lavoro di questa portata.
22 Aprile 2024 6 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Ero stato piacevolmente colpito dal precedente album dei King Zebra (recensione Qui), tanto da giudicarlo con un bell’ 80 tondo, in questo caso invece sono rimasto abbastanza più freddino.
Non che ci siano variazioni significative nel sound, anzi a orecchio la produzione mi sembra più centrata che nell’ episodio precedente, ma si perde un po’ in freschezza compositiva con canzoni un po’ più scontate e con meno killer instinct. Il lato catchy mi sembra abbondantemente preservato grazie alle scorrevoli Children Of The Night e Dina non a caso scelti come singoli, mentre tra alti e bassi, il disco naviga nelle sonorità fine eighties, pescando a piene mani nelle sonorità dell’Alice Cooper di Trash, dai Ratt e compagnia bella, anche se ogni tanto non si disdegna di accennare ad agganci melodici più moderni di scuola scandinava.
Niente di nuovo sotto il sole dunque un disco che intrattiene con un buon Hard Rock, senza inventare nulla e che ha i suoi momenti migliori nell’ opener Starlight, nel mid tempo Love Me Tonight, nella rockeggiante Love Lies e nella gradevole e un po’ fuori dagli schemi Cyanide. Le canzoni che mi hanno convinto meno sono invece sono la stanca With You Forever e la conclusiva Restless Revolution che non decolla mai.
In sostanza un passetto indietro rispetto al precedente Survivors, anche se il lavoro è comunque ben suonato ed interpretato e, come detto, beneficia di una produzione di livello. Resta il fatto che può essere un buon intrattenimento per gli amanti del genere e merita comunque un ascolto, perché qualche buono spunto c’è.