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Inglorious – Ride To Nowhere – Recensione

20 Gennaio 2019 11 Commenti Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music

Dopo essere stati individuati come il futuro del rock britannico, arriva il terzo album degli Inglorious, segno inequivocabile del raggiungimento della maturità artistica della band.

La carica prorompente e la capacità di coinvolgere l’ascoltatore si palesano già dalla prima traccia: “Where Are You Now” è una bomba, dal ritornello corale e sfrenato, cristallina e genuina fino in fondo. Si passa alla successiva “Freak Show”, puramente hard rock, dalle sfumature strumentali interessanti e ben strutturate. Le acque si calmano lievemente sull’introspettiva ed emotiva “Never Alone”, gemma preziosa e dagli orizzonti sconfinati, dotata di una melodia che letteralmente rapisce. “Tomorrow” è arcana e oscura, tenebrosa nella sua solennità titanica, completa e sfuggevole. Si arriva così alla scanzonata “Queen”, trotterellante e movimentata, dal groove deciso e prorompente, che ci catapulta nella martellante e dissonante “Liar”, pregevolmente crudele e pestata, a bilanciare perfettamente le sonorità dell’album.

Un sapore tra il vintage e il contemporaneo, che sbalza e fa sobbalzare, accompagnano la corposa e spregiudicata “Time To Go”, dalla trama godibile e riconoscibile. “I Don’t Know You” si presenta come un canonico lento blueseggiante, intervallato da sprazzi di follia ritmica, ottimo esempio di cosa sta diventando l’hard rock contemporaneo. Si torna a pestare sulle note di “While She Sleeps”, stupenda e inebriante, che prepara le orecchie e il cuore alla title – track “Road To Nowhere”, ovattata, schizofrenica, dagli abbinamenti e dal gusto impeccabile, dalla resa granitica.

Il lento acustico “Glory Days” chiude un lavoro decisamente riuscito, dalle sfaccettature molteplici e interessanti, una creatura di livello altissimo in tutte le sue componenti, sia strumentali che soprattutto vocali, un tassello fondamentale della musica odierna che farà sicuramente parlare di sé anche in futuro: consigliatissimo.

Toby Hitchcock – Reckoning – Recensione

17 Gennaio 2019 13 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music

La mia prima recensione del 2019 va a pescare una frase del 2011 di Andrea Vizzari, scritta nelle conclusioni che si riferiscono alla recensione del primo album solista di Toby Hitchcock:
“Davvero un disco strano questo Mercury’s Down “

Se era strano “Mercury’s Down”, lo è ancora di più questo nuovo “Reckoning”. I motivi possono essere diversi; vado a elencarne alcuni.

Se “Mercury’s Down” era una pseudo-clonazione del primo album dei W.e.t. dove l’impronta di Martensson era tangibile, il nuovo capitolo può assumere la simbiosi degli ultimi lavori di Palace e dei Find Me dove il tocco di chitarra di Michael Palace diventa un marchio di fabbrica quasi “assillante”.
Altresì il cambio di genere è un altro segnale lampante del cambio di rotta; da un robusto hard rock melodico di chiara impostazione scandinava a un melodic rock che sconfina all’Aor dei recenti anni.

Mettiamoci infine, pure la copertina; dal classico stile “Frontiers” di quelle annate, dove colori e scenari fantascientifici la facevano da padrone, a un autoritratto “pop”.
Unica nota “conservativa” dal passato è la bellissima voce di Toby che meglio si adatta a “Reckoning”.Il resto della (project) band è totalmente nuova con la presenza di nomi ben noti nel settore come Daniel Flores alla produzione, tastiere e alla batteria, il giovane Michael Palace al basso e chitarra, e Yngve “Vinnie” Strömberg come supporto alle percussioni.
Date le contrastanti premesse, l’ascolto delle undici tracce non può che essere tortuoso come un sentiero di montagna. Per carità “Reckoning” non è un album con canzoni oggettivamente brutte anzi, giusto per citarne qualcuna, “Gift Of Flight” o “This Is Our World” fanno la loro bella figura; la voce di Toby poi affascina per profondità ed estensione. Qualcosa però non quadra; parlo sia di un certo effetto da “sottovuoto” che fa la batteria, sia dell’impronta, definita prima “assillante”, di Michael Palace su ogni canzone che, alla lunga, diventa quasi un ronzio fastidioso; se cantasse lui, sembrerebbe un sequel del suo primo album “Master of The Universe”. Si ha quindi un senso di appiattimento sul lavoro di songwriting, è il deja-vu è subito servito.
Mi chiedo se l’impressione possa essere corretta, ma la mia idea “destabilizzata” sull’efficacia di queste prime uscite di Toby rimane tale.

IN CONCLUSIONE

Un vecchio adagio dice: “Saltare da palo in frasca”.

Le prime due uscite soliste dell’ottimo vocalist Toby Hitchcock possono essere metaforicamente così rappresentate. Non c’è, infatti, un filo conduttore che le unisce tranne la presenza della calda e bella voce di Toby. Le canzoni sono apprezzabili ma il senso di già sentito in altri progetti è viscerale.

In simpatia e stima, lo valuto con un’altra frase fatta: “ Sei politico”.

Thomas Silver – The Gospel According To Thomas – Recensione

11 Gennaio 2019 3 Commenti Stefano Gottardi

genere: Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Volcano Records

Chitarrista nei primi sei dischi degli Hardcore Superstar, Thomas Silver ha fatto parte di uno dei gruppi hard rock di maggior successo degli ultimi anni, quelli in cui era più difficile emergere dai bassifondi dell’underground suonando quel tipo di musica. Nel 2000, quando uscì, Bad Sneakers And A Pina Colada venne accolto tiepidamente dal pubblico e la band scandinava impiegò qualche anno prima di riempire davvero i locali, anche se l’Italia ha sempre avuto un occhio di riguardo nei loro confronti. È proprio in uno dei Paesi che maggiormente ha amato il suo vecchio gruppo che Silver lancia la sua carriera solista: nello Stivale il chitarrista svedese ha oggi trovato casa (a Tuoro su Trasimeno, vicino Perugia), i musicisti che lo accompagnano dal vivo e l’etichetta. Sono passati dieci anni fra la sua fuoriuscita dagli Hardcore Superstar e questo solo album, ed il fatto che le sonorità che lo hanno reso conosciuto fra gli appassionati di certo hard rock/rock’n’roll festaiolo e di stampo eighties non gli appartengano più, lo dimostravano già i singoli diffusi prima del disco: “Bury The Past”, risalente al 2015, e “D-Day”, “Caught Between Worlds” e “Public Eye”, usciti nelle settimane antecedenti la release.

Il CD è contenuto in un jewel case con booklet di 8 pagine corredato dai testi delle 11 canzoni che lo compongono. L’artwork di copertina unisce le iniziali dell’artista a simboli esoterici, che ben rispecchiano il mood oscuro dell’album, sebbene i testi non trattino questi argomenti ma siano invece uno spaccato sulle sensazioni provate da Thomas in seguito al suo allontanamento dalla band madre, e ad alcune vicende personali come il divorzio dalla ex moglie e l’incontro con l’attuale compagna. Musicalmente il disco percorre territori rock ma ponendo vari accenti su stili diversi, personalizzando la proposta nonostante durante l’ascolto si sentano forti echi di D-A-D, Andy Mc Coy solista, e in misura minore Hanoi Rocks, Michael Monroe solista, Bauhaus, David Bowie e The 69 Eyes post svolta goth rock. The Gospel According To Thomas è un lavoro intimista, talvolta anche intricato e non propriamente di facile assimilazione: serve un po’ di tempo, infatti, per apprezzarne le melodie e coglierne le sfumature. È difficile, e probabilmente inutile, fare un track-by-track che possa rendere giustizia ai pezzi: la track list, molto ben assemblata, mette uno dopo l’altro gli incastri al posto giusto, rendendo l’esperienza uditiva avvincente man mano che scorrono i brani. Poco diretto, ma sicuramente ricercato, il songwriting è un punto di forza su cui Silver basa le fondamenta di un platter nonostante tutto piuttosto personale e lontano dal suo passato e dalle mode.

IN CONCLUSIONE

Oscuro, malinconico e maturo, fra impennate punk e pennellate blues, il rock di Thomas Silver è il protagonista assoluto di un disco convincente in cui il chitarrista e cantante svedese si mette a completo sevizio delle canzoni. Il risultato, a patto che siate disposti a concedergli qualche passaggio in più nello stereo, vi sorprenderà.

Viana – Forever Free – Recensione

10 Gennaio 2019 5 Commenti Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2018
etichetta: Escape Music

Dopo il buon successo dell’album d’esordio nel 2017, torna in questo nuovo anno il chitarrista italiano Stefano Viana con il suo progetto hard rock e un nuovo album, fresco e dagli ottimi spunti.

La partenza è affidata alla title track “Forever Free”, corale e solare, un vero e proprio inno cantato a squarcia gola, emotivamente segnante e dal ritornello impressivo. “In The Name Of Love” ha un ottimo impatto sull’ascoltatore, soprattutto per la trama vocale gaudente e per il melodioso assolo di chitarra. Si passa rapidamente a “Heart Of Stone”, cadenzata e ritmata, sempre in linea con la filosofia dell’autore, come la successiva e sfavillante “We Can’t Choose”, che presenta le medesime caratteristiche strutturali e strumentali. “Who Do You Think You Are”, introdotta da un prezioso intro di tastiera, è un lento canonico, trasportante e coinvolgente, struggente nella trama musicale, una chicca per gli amanti del genere. Si torna al classico AOR con “Live Free Or Die”, discretamente incisiva e leggermente scontata.

Oscura e struggente, il lento “Do You Remember” risulta complessivamente un brano molto interessante, sia per l’intensità musicale che per quella testuale, che ne fanno la vera sorpresa dell’album. “Friday Night” passa in un soffio e si riversa nella simile “I Wanna Tell You”, puramente rock, classica in tutte le sue sfumature. Sulle titaniche note di “We Will Never Say Goodbye” si chiude questo album, sontuoso negli arrangiamenti, suonato in modo eccellente ma alcune volte carente dal punto di vista dell’innovazione e della freschezza.

Electric Boys – The Ghost Ward Diaries – Recensione

10 Gennaio 2019 3 Commenti Stefano Gottardi

genere: Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Mighty Music

Per molti gli Electric Boys sono solo quelli di “All Lips And Hips”, singolo estratto dal primo disco su Atco del 1989 Funk-O-Metal Carpet Ride, il cui video ha goduto di un certo successo ai tempi d’oro di MTV. Senza dubbio il combo svedese oltre a quel brano aveva altro da offrire, ma il suo retro-hard rock funkeggiante, unito ad un look vagamente psichedelico, si è un po’ perso fra la mischia. Pur condannati a un ruolo di secondo o terz’ordine, come decine e decine di altre rock band uscite a cavallo della fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, gli Electric Boys hanno comunque conquistato una piccola fetta del mercato di settore, entrando nelle grazie di una frangia di affezionati ascoltatori europei e americani. Con il grunge che bussava alle porte, ed un sound non del tutto originale, il quartetto scandinavo ha cercato nuove soluzioni musicali. Il più heavy Groovus Maximus del 1992, registrato ai prestigiosi Abbey Road Studios, e il quasi stoner (stile all’epoca ancora in “via di sviluppo”) Freewheelin’ del 1994, hanno però velocemente condotto il gruppo verso la fine della prima parte della propria carriera. Il leader e fondatore Conny Bloom (chitarra e voce) si è rivisto nei Silver Ginger 5 di Ginger Wildheart e poi nei riformati Hanoi Rocks, assieme all’altro ex “ragazzo elettrico” originario Andy Christell (basso). Nel 2009 la Universal ha deciso di pubblicare un loro Greatest Hits e la band si è riunita, è andata in tour e ha dato alle stampe un nuovo lavoro, And Them Boys Done Swang (2011), a cui ha fatto seguito tre anni dopo Starflight United.

Sul finire del 2018 è invece uscito The Ghost Ward Diaries, con il gruppo ancora una volta in formazione originale ma con un drummer aggiuntivo, Jolle Atlagic (The Quill/Hanoi Rocks), che campeggia anche nella foto di copertina. Il CD è contenuto in un digipack un po’ anonimo, privo di booklet. L’attacco dell’opener e primo singolo “Hangover In Hannover” chiama in causa gli AC/DC, prima che la rassicurante voce di Bloom porti tutto su binari più tipicamente consoni al sound attuale degli Electric Boys. Se il brano apripista, con relativo video, aveva scaldato gli animi e fatto ben sperare in vista dell’uscita del disco, la seguente “There She Goes Again” è il primo banco di prova e conferma quanto di buono sentito finora puntando tutto su melodia e maestosità dei cori. La semi-ballad “You Spark My Heart”, che in qualche frangente ricorda lo stile pop rock e radiofonico del Joey Tempest solista di A Place To Call Home, è un crescendo di emozioni e centra in pieno l’obiettivo. “Love Is A Funny Feeling” è il primo vero pezzo a richiamare il passato mettendo in mostra le atmosfere funkeggianti dei tempi d’oro. La lenta e bluesy “Gone Gone Gone” chiude alla grande quello che nella tracklist è indicato come il lato A, mentre il B si apre con “Swampmotofrog”, song strumentale dal retrogusto seventies che fa idealmente da trampolino di lancio ad un secondo lato più classico, dove non mancano colpi di classe come quello ben assestato dal rock and roll ruffiano di “First The Money, Then The Honey”, dagli accenni southern di “Rich Man, Poor Man” o dal gran finale riservato all’atmosferica e convincente “One Of The Fallen Angels”.

IN CONCLUSIONE

Curatissimo nei suoni e nel songwriting, The Ghost Ward Diaries è il miglior platter post reunion del gruppo svedese, ed uno dei loro migliori di sempre. Una delle perle hard rock del 2018.

State of Salazar – Superhero – Recensione

05 Gennaio 2019 10 Commenti Iacopo Mezzano

genere: AOR / Westcoast
anno: 2018
etichetta: Frontiers Music

Gli State of Salazar tornano nei negozi con un nuovo album, quattro anni dopo il loro ottimo debutto del 2014 intitolato “All The Way” e dopo aver accettato l’abbondono del tastierista Stefan Mårtenson, ora sostituito da Kevin Hosford, quest’ultimo non solo strumentista ma anche cantante e compositore.

Superhero, questo il titolo del nuovo platter uscito per Frontiers Music a fine dicembre 2018, mantiene inalterato il gusto rock melodico in stile westcoast del gruppo, che continua ampiamente a lasciarsi influenzare dalla musica dei vari Toto, Journey, Survivor, Boston, Chicago e compagnia bella ogni qual volta si approccia alla composizione di un nuovo pezzo. Ed è forse questo l’unico difetto che mi sento immediatamente di evidenziare nella fase di analisi di una (comunque buonissima) release come questa: la talvolta eccessiva volontà dei componenti di rifarsi totalmente al sound dei loro idoli, finendo a sfiorarne in alcune occasioni persino il plagio. Per amor del cielo, lo stesso fatto di imitare anche lontanamente i Toto (giusto per fare un esempio..) presuppone una incredibile padronanza compositiva e tecnica da parte dei musicisti che sarebbe solo che da essere elogiata, ma da un secondo lavoro discografico come questo mi sarei aspettato qualche spunto personale in più. Ditemi poi voi se avete avuto le mie stesse impressioni.

Detto ciò, Marcus Nygren alla voce e il nuovo ingresso Kevin Hosford trovano immeditamente la giusta intesa, guidando – con grande sicurezza – il resto dei componenti verso la perfetta esecuzione dei motivi musicali. Johan Thuresson alle chitarre fa un ottimo lavoro già nel brano opener If You Wait For Me, un pezzo solido, in stile Work of Art, che trova nel groove ritmico coposo di Johannes Hansson al basso e Kristian Brun alle pelli, oltre che nella vocalità ispirata del cantante, la sua massima ragione d’essere. My Heart Is At War è forse il pezzo più derivativo del lotto, e non è difficile sentire al suo interno assonanze con un paio di hit anni’80, neppure troppo celate, e riviste in chiave moderna/scandinava. Hold On Tonight è un ottimo motivo, raffinato, che rimane immediatamente impresso nella mente, e Masquerade un’altra canzone che facilmente il gruppo proporrà dal vivo per come sa risultare immediatamente catchy all’orecchio di chi la ascolta, grazie anche al superlativo lavoro vocale dei cantanti.

Il bel ritmo di She’s A Loaded Gun abbina ottimi arrangiamenti a energie positive, mentre la delicatissima ballad Lie To Me, che presenta l’ottimo cantato della ospite Kristina Talajic in perfetto duetto con Nygren, mi ha immediatamente portato alla mente l’omonimo brano dei Bon Jovi, lasciandomi un po’ interedetto. La orecchiabile Joanne ci porta poi a Someone I Know, il brano più westcoast della tracklist, molto bello ma ancora una volta troppo avvicinabile a Toto, Chicago e agli AOR francesci. Meglio la curata e ricercata To The Wire, che anticipa la ballad Love Will Find A Way, interpretata in modo egregio dal cantante ma che – e sarà un problema mio.. – nel suo incipit mi ha fatto subito pensare alla inimitabile Follow Your Heart del sempre compianto Fergie Frederiksen, mista a qualche traccia dei Pride of Lions (tipo Are You The Same Girl..). Infine, cala il sipario la title track Superhero, una canzone questa sì molto più personale, e per questo da me annoverabile tra le più riuscite di questo album.

IN CONCLUSIONE

Mi sono preso un po’ di tempo in più prima di fare uscire questa recensione, e ho davvero cercato di farmi piacere quel continuo senso di deja vu provato durante l’ascolto di questo Superhero. Ma alla fine, guardando anche la copertina del disco quasi identica a quella dell’ultimo dei Treat, non ho potuto fare a meno di abbassare di almeno dieci/quindici punti percentuali il voto di un prodotto di per se bellissimo, ma davvero troppo clone dei cloni.

Abbiamo qui ottimi suoni, begli arrangiamenti, notevoli prove tecniche strumentali e vocali, e un songwriting sicuramente ben organizzato. Tutto questo va sicuramente riconosciuto. Già quattro anni fa scommettevo su di loro, ma oggi gli State of Salazar mi hanno deluso sul piano dell’originalità, qui totalmente mancata. In fin dei conti quindi, li preferivo all’esordio..

Reverend Backflash – Too Little Too Late – Recensione

05 Gennaio 2019 0 Commenti Stefano Gottardi

genere: Rock 'n' Roll/Punk Rock
anno: 2018
etichetta: Pogo's Empire

Attivi dal 2003, i viennesi Reverend Backflash si sono creati un piccolo zoccolo duro di estimatori ed un giro di contatti che li ha ripetutamente portati a suonare in posti come Svizzera, Germania, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Italia. Poco prolifici discograficamente parlando, hanno puntato tutto sulla qualità. Too Little Too Late, uscito nel Settembre del 2018 per l’indie label austriaca Pogo’s Empire, è infatti soltanto il loro terzo full-length. Chi li conosce non ha di certo bisogno di cercare indizi nella copertina, e sa già che il loro rock ‘n’ roll sfacciato e diretto come un Pendolino Roma-Milano non mancherà di farli divertire anche in questo nuovo lavoro. Il jewel case, con booklet di dodici pagine completo di foto di gruppo e tutti i testi, contiene un dischetto che fa battere il piedino sin dalla canzone apripista “Never Turn Over”. Rock and roll, dicevamo, ma contaminato da punk 77, power pop e persino ska, di ispirazione scan ma orientato più verso il filone “born to lose” che quello “party rock”. Grezzo e smaccatamente melodico, il sound del quartetto austriaco piacerà più ai fan dei Backyard Babies che a quelli degli Hardcore Superstar o dei Crashdïet, e a chi apprezza vecchie glorie come KISS, Ramones, Cheap Trick.

Per niente concettuale, il songwriting è sbarazzino e, seppur pregno di citazioni, capace di mantenersi fresco e interessante per tutta la durata del disco, puntando sull’immediatezza delle melodie e sulla presa dei ritornelli, zuccherosi e gradevolmente stuzzicanti. “Non importa che tu sia uomo o donna: indipendentemente da quanti anni tu abbia, non sarai mai vecchio abbastanza per apprezzare un po’ di chitarra elettrica”! Questo è più o meno il senso di una frase inserita nella sopraccitata opener che, in definitiva, sembra il manifesto programmatico dei Reverend Backflash e del più recente capitolo della loro saga. È difficile, effettivamente, restare indifferenti a “Fuckaround”, “Ready When You Are”, “I Do Not Get You”, “Too Little & Too Late”, “Spinnin’ Records” e “You Let Me Down” (solo per citare qualche titolo, perché trovare filler qua in mezzo è dura), pezzi che paiono essere stati concepiti con il solo ed esclusivo scopo di far divertire. Registrato in un giorno e mezzo, praticamente in presa diretta, l’album ha suoni che rispecchiano appieno lo spirito live del combo austriaco, e in fin dei conti è proprio quello che ci si aspetterebbe di sentire mettendo nello stereo un CD di questo tipo.

IN CONCLUSIONE

In quasi vent’anni di recensioni ho spesso terminato le mie analisi con l’abusatissima frase “it’s only rock and roll but I like it”: sarebbe scontato farlo un’altra volta, ma ormai è troppo tardi…

Devil’s Hand – Devil’s Hand – Recensione

24 Dicembre 2018 40 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Hard Rock / Hard 'n' Heavy
anno: 2018
etichetta: Frontiers Music

E’ il 90° minuto del 2018. In campo la nazionale Hard Rock contro il Resto della Musica, risultato fisso sullo 0-0. Attenzione, c’è una sostituzione tra le fila della squadra di casa. Sembra entri in campo Mike Slamer! Il mister gli sta indicando di mettersi su alto, lungo una fascia, pronto a sfornare l’assist vincente. E’ l’ultimo minuto di recupero, la palla arriva proprio tra i piedi del neo-ingresso Slamer. Il giocatore punta il difensore, lo salta.. Cross!!! E’ preciso!!! A centro aria svetta Andrew Freeman, in prestito dai Last In Line… Colpisce il pallone di testa… Gooooooooool!!!!

Quando meno te lo aspetti, ecco il capolavoro.

continua

Palace – Binary Music – Recensione

24 Dicembre 2018 10 Commenti Alberto Rozza

genere: AOR
anno: 2018
etichetta: Frontiers Music

Per tutti gli amanti dell’AOR di qualità purissima, delle tastiere avvampanti e delle atmosfere avvolgenti ecco fiammante il nuovo album di Palace, band svedese capitanata dall’omonimo pluristrumentista Michael Palace.

La partenza è di assoluto spicco: la title – track “Binary Music” rockeggia poderosamente, con una coralità strumentale e vocale di rara bellezza, un brano riuscito in ogni sua sfaccettatura. Suoni siderali introducono “Tears Of Gaia”, introspettiva e nostalgica, ritmicamente compatta e con buoni spunti testuali. Un alone crudele e sommesso avvolge “Nothing Personal”, dalle sfumature poppeggianti, dove la presenza della testiera risulta predominante. Sempre vibrante e deciso, l’artista svedese ci propone “Promised Land”, gagliarda nella sua struttura, dal ritornello arrembante. “Love Songs”, nonostante un ritmo sufficientemente sostenuto, non tradisce le aspettative, danzando sul filo del rasoio di genere, forse strizzando troppo l’occhio al pop. L’ottima resa complessiva del lavoro viene riprovata nella sognante “Dangerous Grounds”, graffiante e superba, perfetta nella sua trama semplice e lineare.

La sinfonica “Queen Of The Prom”, introdotta da una parte corale a cappella di grande effetto, risulta un brano azzeccatissimo, vivace e stupefacente, incredibile nella sua capacità di stupire e di tenere sull’attenti l’ascoltatore. “Who’s Counting Time” è il classico lentone spezza cuore e strappalacrime, una cliché, un atto dovuto, perfettamente eseguito, dal grande trasporto e pathos, che in modo leggero penetra i sentimenti e che troppo rapidamente ci lascia per la successiva “Julia”, decisamente più scanzonata e selvaggia, ottimo stacco dinamico.

Con l’incisiva e titanica “To Have And To Hold” si chiude Binary Music, un album di spessore, dalla caratura musicale molto alta, una chicca di fine anno per tutti gli amanti del genere e non, dalle sfumature interessanti e gradevolissime: ottimo lavoro!

City Of Thieves – Beast Reality – Recensione

21 Dicembre 2018 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Frontiers Music

Arriva finalmente il primo lavoro di studio dei britannici City Of Thieves, band genuina, dai suoni caldi e compatti, che fa dell’hard rock nostalgico e retrò il proprio marchio di fabbrica.

Partenza fulminante con la veloce e convincente “Reality Bites”, pezzo dalle grandi sonorità, coinvolgente e globalmente ben riuscito. La marca hard rock si fa sentire preponderante in “Fuel And Alcohol”, martellante e senza freni inibitori, un brano ruvido, sporco ed energetico. “Buzzed Up The City” è accattivante ma complessivamente poco originale, molto simile a tutta quella gamma sonora tipica del genere, dal quale attinge a piene mani. Le ritmiche si fanno più cupe strascicate su “Lay Me To Waste”, potente e spietato, dagli ottimi fraseggi chitarristici. “Control” risulta nel complesso abbastanza scontato, al contrario del ben più stimolante singolo “Incinerator”, cadenzato, spregiudicato e piacevolissimo in tutte le sue componenti musicali. “Animal” ha un buon tiro e una coralità di livello, ma come altri brani presenti nell’album non eccelle per originalità.

Cambio di atmosfera sulla profonda “Right To Silence”, leggermente stoner, che graffiando e pestando porta l’ascoltatore a “Born To Be Great”, vera sorpresa del disco, solare e frivola, pezzo gagliardo e suonato in modo impeccabile. Un grandioso assolo distorto spicca nella chiassosa “Damage” mentre intrecci puramente rock’n’roll spadroneggiano in “Give It Away”, anch’essa urlata e lineare.

Terminata la conclusiva “Something Of Nothing”, intensa e sentita, ci rimane nelle orecchie e nel cuore un buon lavoro complessivo, sicuramente ben realizzato ma a conti fatti poco fresco e quasi per nulla originale, dal leggero sapore di incompiutezza.