LOGIN UTENTE

Ricordami

Registrati a MelodicRock.it

Registrati gratuitamente a Melodicrock.it! Potrai commentare le news e le recensioni, metterti in contatto con gli altri utenti del sito e sfruttare tutte le potenzialità della tua area personale.

effettua il Login con il tuo utente e password oppure registrati al sito di Melodic Rock Italia!

Ultime Recensioni

  • Home
  • /
  • Ultime Recensioni

Devicious – Reflection – recensione

02 Marzo 2019 6 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Hard rock
anno: 2019
etichetta: Metalapolis Records

Devo essere sincero; il melodicrock made in Germany non è mai stato in testa alle mie preferenze, anche se alcuni dischi di gruppi quali Casanova, Fair Warning e Frontline, per un certo periodo hanno fatto tappa fissa nel mio lettore cd. Il genere proposto dai DeVicious ricalca notevolmente lo stile dei nomi sopra citati, riuscendo ad avvicinarvisi parecchio sia per qualità che per continuità. Merito di una band ben amalgamata in cui la voce di Zoran Sandorov si inserisce alla perfezione sia nella sezione ritmica composta da Alex Frey e Lars Rippa che tra i pregevoli assoli di Radivoj Petrovic. Sfruttando il recentissimo ed apprezzato album di debutto Never Say Never uscito nell’agosto del 2018 i cinque ragazzi tedeschi si ributtano nella mischia proponendoci questo loro nuovo lavoro.

continua

Blood Red Saints – Pulse – recensione

02 Marzo 2019 0 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock / Modern Rock
anno: 2019
etichetta: AOR Heaven

Uscito il 22 Febbraio, via AOR Heaven, “Pulse”, terzo album dei britannici Blood Red Saints, a un solo anno di distanza dal precedente ” Love hate conspiracies”.

Il percorso della band capitanata alla voce da Pete Godfrey continua la sua evoluzione verso territori moderni, allontanandosi sempre più delle radici AOR del primo album “Speedway”.
Prodotto dallo stesso Pete Godfrey e dal chitarrista Lee Revill, “Pulse” presenta undici tracce tutte scritte dalla coppia, che mettono in mostra un Melodic Rock dal piglio contemporaneo e suonato con sagacia.

continua

Last In Line – II – Recensione

28 Febbraio 2019 11 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Hard 'N' Heavy
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music

Non me ne voglia il mitico Nico D’Andrea, che nel 2016 recensì con parole non troppo entusiaste il loro (per me invece) notevole esordio Heavy Crown, ma gli hard ‘n’ heavy rocker Last In Line si riconfermano su livelli altissimi anche con il loro secondo album II, da poco uscito nei negozi per la label Frontiers Music.

E non me ne vogliano neppure i fans più accantiti dei Def Leppard, ma quando l’arcinoto chitarrista Vivian Campbell ritorna a suonare il genere più suo, ovvero quell’hard rock/heavy metal fatto di riff grossi, corposi epici e maestosi che hanno di fatto caratterizzato tutti i primi anni della sua carriera (compresi i bellissimi esordi con i Sweet Savage, chi li ricorda?), torna definitivamente a casa. Apre la porta, toglie gli stivali e mette le ciabatte. Si avvicina al frigo, stappa la birra, beve un bel sorso e tira un sonoro rutto. Poi poggia le natiche su divano, imbraccia la chitarra, e inizia a divertirsi davvero (sì, questa è la reale sensazione che si ha sentendolo suonare così passionale e a suo agio questo genere musicale!).

E – diavolo! – non me ne vogliano neppure i millemila bravi produttori di dischi che ascoltiamo tutti i giorni ammazzarsi letteralmente per trovare i suoni perfetti per i loro lavori, ma appena clicchiamo play su un album come questo e sentiamo questa apparente essenzialità di suoni (che non vogliono altro che una chitarra di carattere accompagnata da una sezione ritmica struttrata sui colpi secchi alle pelli – potentissimi, inconfondibili – di un Vinny Appice e sul perfetto tocco cupo e roboante delle corde del basso di Phil Soussan), ci rotoleremmo per terra come cagnolini che vedono rincasare il padrone la sera con un bel pacco di crocchette nuove e gustosissime.

Ma si, ma si.. ma non me ne vogliano neppure tutti quelli che non riescono a dimenticare Ronnie James Dio, ma ora hanno davvero iniziato a rompere i cosiddetti con i loro paragoni (e scusate l’uscita di poco stile, ma dovevo togliermi il sassolino). I Last in Line non sono più i Dio, e Andrew Freeman non è assolutamente Ronnie. Andrew non è uno scemo, sa che chiunque uscirebbe con le otta rosse da un confronto con Dio (son davvero bravo con i giochi di parole, neh?!) e perciò non ha mai e poi mai voluto scimmiottare il suo stile e le sue movenze. Mai! Anzi, Freeman si è ritagliato con onestà il suo spazio e, con il sudore della fronte, ha modellato la sua timbrica – differente e dal retrogusto un po’ alternative e moderno – così che si amalgamasse al meglio con lo stile dei Last In Line, spazzando via avversari e detrattori a suon di vocalizzi tutti energia, potenza, grinta e – dannatamente buona – estensione.

Tutto questo, per dire che non me ne dovete volere se sto diventando totalmente dipendente dalle graffianti melodie di questo disco. Non ho inciuci con la label, non sono parente di nessuno dei musicisti (e direi anche purtroppo!), non conosco neppure lontanamente una persona che stia guadagnando in qualche modo da questo album. Ho versato i miei canonici trenta euro allo spacciatore di fiducia (o negoziante di dischi, come vogliate chiamarlo) per avere la mia copia in LP di II, che tra l’altro sto riassaporando mentre scrivo. Punto. E se grido al miracolo e piazzo un 94 su 100 è perchè sono diventato arrogante – come arrogante nel senso musicale è questo disco – e perchè tracce trascinanti come Blackout The Sun, Landslide (per me la più bella del platter), Year Of The Gun, Sword From The Stone, Love And War, False Flag e The Light (ho faticato davvero a non scriverle tutte, lo ammetto) non riesco proprio più a togliermele dalla testa.. That’s heavy rock!

IN CONCLUSIONE

Ah, serve pure un in conclusione?!! Cioè, avete davvero bisogno di un riassuntino finale – magari tutto picci-picci con annesse paroline dolci e rassicuranti – per ascoltare sta bomba di disco??!!

Toglietevelo dalla testa.
Se siete cresciuti a pane e hard ‘n’ heavy, beh, buon appetito.

Dan Reed Network – Origins – Recensione

18 Febbraio 2019 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock / Classic Rock
anno: 2019
etichetta: AOR Heaven

Sensazioni positive e un certo grado di eccitazione circondano la nuova fatica dei Dan Reed Network, band di Portland, che prone un rock leggero e dal sapore nostalgico.

Fade To Light” presenta sin dalla prima nota gusto e intensità invidiabili, delicata nella trama, suadente nella traccia vocale che ben si incastona nella struttura strumentale. Si scivola velocemente in “Ritual”, dove il groove la fa da padrone, coinvolgendo ogni muscolo dell’ascoltatore, che si trova immancabilmente intrappolato nel ritmo del brano: ottimo esempio di funky rock. L’andamento dell’album si mantiene stabilmente inalterato: “Right In Front Of Me” è un pezzo all’altezza, pulito e diretto, dalla coralità limpida e lampante. Lo stile della band salta subito all’occhio sin dal primo ascolto, anche quando i ritmi si fanno più movimentati, come per “Forgot To Make Her Mine”, puramente funky e travolgente, che troppo in fretta si esaurisce, accendendo la successiva “Shameless”, dalla durata consistente, ma dalla grande emotività e resa, un brano globalmente riuscito.

Con la rilassante “Let It Go” la band aggiunge una sfumatura all’incredibile dipinto musicale che ci sta mostrando, mettendo in evidenza un lato diverso e sentimentale, ma altrettanto importante e di qualità. “Reach Out”, con i suoi salti di dinamica, torna nelle atmosfere che già ben conosciamo, aggiungendo prestigio al lavoro. Venata di pop, ammiccante e delicata, la conclusiva “Rainbow Child” ci congeda da questo breve ma intenso album, dalle caratteristiche musicali variegate e sfavillanti, di certo un’uscita di altissimo livello e che trasmette realmente “qualcosa” all’ascoltatore.

Magic Dance – New Eyes – recensione

04 Febbraio 2019 5 Commenti Alessio "Sixx" Garzi

genere: AOR
anno: 2018
etichetta: Frontiers Music Srl

Parlare di un album come NEW EYES è un’impresa per chi, come me, ha seguito i MAGIC DANCE dagli inizi. E’ difficile perché, se da una parte ho sempre sperato che musicalmente si avvicinassero al melodic rock, dall’altra ho notato una certa monotonia (tipica del synthwave) nelle composizioni presenti in questo disco. Non parlo di monotonia in senso troppo negativo, ma mi riferisco solo alla struttura delle songs, che nascendo in un contesto synth difficilmente si discostano dalla costante strofa-bridge-chorus-strofa-bridge-chorus, mancando di quella varietà compositiva nel songwriting propria del rock in sé e per sé.

I MAGIC DANCE (il cui nome deriva dalla omonima canzone di David Bowie, presente nella colonna sonora del film “Labyrinth”) nascono nel 2012 all’interno del mondo New Retro Wave, un vero e proprio microcosmo composto da amanti di certe sonorità synthpop anni 80, da cui riprendono anche l’immaginario grafico ed artistico. Tra le numerose proposte della scena New Retro Wave, spesso davvero eccellenti pur rimanendo rigorosamente di nicchia, è emersa la personalità di JON SIEJKA, one-man-band e mastermind dei MAGIC DANCE, grazie alle proprie capacità compositive ed al suo progressivo avvicinarsi ai lidi più rockeggianti, pur mantenendo fortissime basi synth e romantic wave.

continua

Snakes in Paradise – Step Into The Light – recensione

04 Febbraio 2019 4 Commenti Alessio "Sixx" Garzi

genere: Melodic Rock
anno: 2018
etichetta: Frontiers Music

Era il lontano 1998 quando conobbi per la prima volta gli SNAKES IN PARADISE e lo feci nel modo classico di allora (almeno per me)… sceglievo le band che non conoscevo in base al nome ed alla copertina ed alle conseguenti sensazioni che mi davano. Vidi la copertina vagamente vintage Whitesnake, il nome che era un mix tra la band di Mr. Coverdale ed un qualcosa che mi rimandava a Ronnie James Dio (banalissima quanto illogica equazione Paradiso – Dio…il cantante però…) ed amore fu. Vabbè sorvoliamo…forse è meglio.

Fortuna volle che, pur partendo da queste ridicole premesse, mi ritrovassi tra le mani una perla di assoluta bellezza e perfezione, intitolata GARDEN OF EDEN, secondo album della band, dal quale rimasi letteralmente folgorato. Influenze prettamente Whitesnake (ascoltatevi Voice Inside o Child Of Yesterday per farvi un’idea) ed una voce incredibile, che sublimava ogni singola nota con echi che rimandavano anche (e non bestemmio) al mitico R. J. Dio oltre che al Maestro Coverdale.

continua

American Tears – Hard Core – Recensione

04 Febbraio 2019 1 Commento Luca Driol

genere: Progressive Rock
anno: 2018
etichetta: Escape Music

Il prolifico Mark Mangold, tastierista, cantante, compositore e artefice di innumerevoli progetti musicali (dai Touch agli Drive, She Said, passando per i meno noti Valhalla, The Sign, Mystic Healer e The Radiant) e collaborazioni importanti (Michael Bolton, Cher e Aldo Nova), riesuma un moniker ormai dimenticato, quello degli American Tears. La band, inizialmente un trio, pubblicò tre album tra il 1974 e il 1977: il primo, “Branded Bad”, caratterizzato da un sound gutarless pregno di rock, rhythm & blues e progressive, sostenuto principalmente dalle tastiere di Mangold, mentre nei due lavori successivi, la band, che ad eccezione del leader continuerà a cambiare organico, adotterà uno stile leggermente più hard, soprattutto nel terzo “Powerhouse”, album che vedrà la formazione allargarsi a quartetto con l’ingresso di un chitarrista.

continua

Velvet Insane – Velvet Insane – Recensione

01 Febbraio 2019 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock/Classic Rock
anno: 2019
etichetta: Metalapolis Records

Torna a rombare il rock classico dei Velvet Insane, proposta intrigante e fresca dal nord della Svezia, terra storicamente esportatrice di grandi band hard rock.

L’introduttiva “Break Out Of Eden” è un ottimo aperitivo, dalla tessitura regolare e quadrata, dalla resa godibile. Successivamente ci imbattiamo nella ruvida “High On Love”, complessivamente scanzonata e impressiva, che rimanda vagamente ad alcune sonorità tipiche di molte band nordiche, come la band glam rock The Ark. “Help Me” si riporta su orizzonti più canonici, mantenendosi comunque su buoni livelli compositivi, aprendo l’ascoltatore alla ben più tranquilla “Coffee, Jazz And Arts”, una chicca acustica dai grandissimi risvolti emozionali e musicali, un brano diverso ma gradevole. Si torna al rock con “My Way Of Life Is You”, decisa, tosta e corposa, vera in ogni sua sfumatura strumentale. “Nottingman” si orienta su atmosfere più cupe, strizzando l’occhio a sonorità più contemporanee, risultando globalmente un pezzone tosto e crudele, ottimo per anticipare la ballata “americana” “Lincoln Road”, che in un attimo ci catapulta negli Stati Uniti che tutti immaginiamo.

Leggermente pop, “Infinity”, come suggerisce il titolo, è ariosa e sconfinata, tamburellante, riempie di gioia orecchie e cuore, e troppo in fretta si conclude cedendo il passo a “King Of The Foolish”, dalla buona resa, ma che non aggiunge molto a quanto già espresso dalla band in questo lavoro. Spente le note soavi e sognanti di “Six Steps Away” (una grandissima conclusione) i Velvet Insane ci salutano e ci consegnano un album di grande spessore, sufficientemente maturo, dall’ascolto piacevolissimo e tutto sommato adatto a molti palati.

Tony Mitchell – Beggars Gold – Recensione

26 Gennaio 2019 1 Commento Luka Shake Me

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Melodic Rock Records

Molti artisti nel corso della loro carriera, sono riusciti a ritagliarsi un loro spazio offrendo i propri servigi a nomi più altisonanti; songwriter, produttori, session, ruoli più disparati, nel frattempo coltivano l’impacabile voglia di scrivere per se stessi finalmente; riuscire a convogliare in musica tutta l’esperienza accumulata. Tony Mitchell potrebbe essere uno dei personaggi sopracitati, da annoverare la sua collaborazione ad esempio con il grande Tony Adley prima e dell’istrionico Alice Cooper poi; Alas Parson o il grande Rick Wakeman per citare qualche altro nome altisonante. Una grande capacità compositiva che il frontman degli inglesi Kiss Of The Gipsy riversa anche attualmente in colonne sonore per film o videoclip di svariata natura. Un poliedrico artista che riesce ad esporsi in prima persona con il full “Beggars  Gold” di cui è autore, oltre che produttore, ed è sempre lui ad occuparsi della quasi totalità degli arrangiamenti con l’ausilio di guest sotto l’egida Melodic Rock Records.

 “Playing With Fire”   apre nel migliore dei modi un platter che si preannuncia potente, le chitarre rocciose sono sostenute da tastiere di stampo prog moderno altrettanto importanti. Il songwriting è diretto e anche i chorus seppur di buona fattura sono relativamente scarni.

“Never say Die” ha un piglio più catchy pur mantenendo un sound hard rock. Notevole il break centrale; sprazzi di epicità che non ti aspetti, conferma dunque dell’importanza del lavoro delle tastiere nel progetto.

“Blind” apre con un intro stupendo per poi cadere nell’anonimato, non riesce a coinvolgermi assolutamente, anche il chorus non risolleva le sorti di una traccia a mio avviso poco riuscita nonostante l’ottimo lavoro per ciò che concerne l’arrangiamento in se; purtroppo non basta.

“What You Make It” fortunatamente si ritorna su un livello qualitativo più che sufficiente. L’ugola calda e graffiante di Mitchell si intreccia a meraviglia con quella cristallina di Sue Willets dei Dante Fox. Il tutto ovviamente con una solida impronta dal taglio epico.

“Someone Like You” è la prima ballad, pregna di emotività e classe. Ricercata per quanto possa essere ancora una ballad tipicamente eighties, il lavoro delle tastiere risulta naturale seppur misurato; un ottimo sax impreziosisce il tutto con un bel fraseggio in coda.

“Our Song” è scanzonato e più diretto rispetto alle tracce precedenti, il classico pezzo pronto ad essere metabolizzato al primo ascolto, non memorabile o che possa lasciare il segno ma assolutamente godibile.

“Stone By Stone” altra ballad questa volta dal sapore elettroacustico. Non credo si possa definire riuscitissimo. Il problema non è negli arrangiamenti, né nell’esecuzione o interpretazione vocali comunque di spessore, a mio avviso è la scrittura del pezzo in se poco indovinata, il risultato è un senso di noia a cui non ci si può sottrarre.

“In Everyone Of Us” una delle tracce più riuscite al momento, originale, sperimentale quanto basta e trascinante con un chorus davvero trascinante complice arpeggiatori che come sempre riescono a far camminare anche un pezzo non eccelso; non è questo il caso, la traccia è riuscita pienamente e non presenta punti deboli.

“Wildside” è Hard Rock seventies, c’è voglia però di sperimentare nel cuore del pezzo che ha bisogno di un successivo ascolto per essere metabolizzato. Troppa carne a fuoco a mio avviso, senza una direzione ben definita; una di quelle tracce che potrà suscitare l’ilarità di alcuni piuttosto che le lodi di altri.

“Fire Me Up” blueseggiante e anch’essa ancorata a un songwriting anni settanta si presenta potente e trascinante, ben si sposa con il cantato abrasivo di Mitchell, malgrado un chorus non particolarmente fluido che mi risulta troppo forzato.

“Beggars Gold” ultima ballad del lotto e non credo si lasci ricordare nonostante possa risultare evocativa nelle strofe, anche in questo caso il cuore del pezzo non riesce a catturare fino in fondo ed è un vero peccato viste le ottime premesse.

“Take A Look At Me Now” maturo e retrò al tempo stesso, a tratti progressivo e vicino al mood dei seventies necessita di un ascolta più approfondito per essere capito, superato lo scoglio di una relativa immediatezza, potrà essere apprezzato per una discreta ricercatezza; se visto in questa ottica una delle tracce più riuscite.

“Welcome To The Revolution” in chiusura è monolitico, roccioso pur riuscendo a girare attorno a una linea vocale ruffiana. Non male, riesce a scivolare via piacevolmente suggellando un lavoro sicuramente sopra la sufficienza.

IN CONCLUSIONE

Mi sono ritrovato ad ascoltare un lavoro dalle sfaccettature più diversificate; cali di tensione presenti ce ne sono aimè, come ad onor del vero anche tracce che fortunatamente enfatizzano le qualità di tutti i musicisti coinvolti nel full. “Beggars Gold” paradossalmente forse avrà sofferto di un’eccessiva prolificità artistica del buon Mitchell; in origine furono scritti 22 pezzi!! Nda) che a tratti sembra voglia “vomitare” tutto questo processo di scrittura, che ripeto, a tratti porta ad un lavoro un po’ scollato fra una traccia e un’altra, ma comunque di sicuro spessore.

 

Jim Shepard – Jaded – Recensione

26 Gennaio 2019 0 Commenti Luka Shake Me

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Melodic Rock Records

Un esercito di fedeli rockers dal cuore tenero sarà sempre pronto a far fronte compatto per amore del rock adulto; la scheda di presentazione che accompagna l’artista di cui mi accingo a parlarvi, mette in luce proprio questo aspetto; il desiderio di lasciarsi andare a sonorità lontane da trend del momento, perché anche in chiave melodica esistono dei clichè ormai prestabiliti. Lo statunitense Jim Shepard con l’ausilio di svariati guest tra cui ben tre ugole diverse, scrive e produce un lavoro dai connotati aor per toccare punte più rocciose e ancora, accarezzare tutta la passione e il suo passato per il country rock. Sarà il caso di parlare del nuovo “Jaded”, ancora una volta sotto l’ala protettrice Melodic Rock Records.

“Save The World” intro di hammond e poi si corre verso un hard rock melodico di facile presa, robusto quanto basta, scevro da chorus pomposi come spesso il genere impone, la componente seventies direi che è un marchio di fabbrica molto presente. Come inizio niente male.

“Destiny” cambia registro verso sonorità più radiofoniche. Bello il Chorus che ad onor del vero forse avrebbe meritato una maggiore cura nell’utilizzo di controcanti e armonizzazioni; piccoli dettagli che non inficiano l’ottima qualità di un altro pezzo ben scritto e arrangiato, notevole anche il solo di chitarra, melodico e di gusto.

“My Heart Is Mine” è la prima ballad, fa capolino anche un sax che paradossalmente evidenzia tutti i limiti di una traccia non proprio riuscitissima. Le ballad dovrebbero essere il piatto forte del genere, purtroppo in questo caso si rasenta solo una stentata sufficienza.

“We Are Not Alone” veleggia di nuovo verso un aor dall’airplay radiofonico a tinte malinconiche. Gradevole anche se non si può parlare di un vero capolavoro. Manca quel quid che dia lo sprint per una traccia davvero sopra le righe.

“What I See” una ballad ben scritta, seppur con qualche sbavatura complice un cantato non impeccabile; nonostante tutto direi che la traccia in sè risulta coinvolgente ma anche in questo caso non siamo di fronte alla traccia “strappaorecchi”.

“Livin’ For Me” gira su sonorità west coast, noiosetta e non molto ispirata; sarà che il genere non offre molti sbocchi, ma gli arrangiamenti, la produzione e il cantato potrebbero fare la differenza; aimè non in questo caso. (La produzione purtroppo latita un po’ in tutte le tracce!! La “punta” della cassa è quasi fastidiosa!! nda)

“I Will Find My Way” vira inaspettatamente verso sonorità decisamente heavy Rock (forse troppo!! Nda) la traccia più dura del platter dalla linea vocale ricercata. Direi un plauso per essere uscito quantomeno da registri troppo sicuri o scontati.

“M.G.L.G.2” segue pedissequamente l’episodio precedente, malgrado sia di buona fattura trovo sia eccessivamente distante dalle linee guida delle composizioni precedenti. Qui siamo ai limiti del metal melodico. Nonostante questa riflessione dovuta, non posso non notare che quando c’è da andar giù pesante il lavoro decolla, i musicisti coinvolti sembra siano riusciti ad esprimersi al meglio.

“Love Is The Faith” ritorna a un canonico rock adulto, un po’ scialbo e ancora una volta senza troppi sussulti. Anche vocalmente emergono punti deboli su un pezzo che meriterebbe maggiore intensità e interpretazione. Direi che siamo sotto la sufficienza anche in questo caso.

“I Still Think About You” è di facile presa e malgrado evidenzi quelle lacune già rimarcate in precedenza per tracce di questo tipo, si lascia canticchiare e riesce a salvare capra e cavoli.

“Always For You” è la classica ballad dai toni acustici spesso relegata in chiusura. Anche in questo caso emergono alti e bassi. La linea vocale potrebbe essere anche carina, a patto che il cantato riuscisse a renderla vincente. Per ciò che concerne gli arrangiamenti, riescono a dare quel tocco di magniloquenza, questa è una caratteristica che invece ho apprezzato molto.

IN CONCLUSIONE

Un lavoro che avrebbe necessitato di una figura esterna per poter essere indirizzato verso una maggiore omogeneità; tralasciando gli aspetti di ogni singola traccia già ampiamente discussi, la cosa che evince di più è proprio un certo scollamento fra alcune tracce più morbide e dalle intenzioni più east coast e altre più rocciose ai limiti del metal melodico di vecchio stampo eighties. Si spera dunque in un processo di maturazione per un successivo lavoro sulla lunga distanza, sapere dove andare è già un importante e significativo passo avanti.