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22 Marzo 2019 15 Commenti Giulio Burato
genere: Glam / Hard Rock
anno: 2019
etichetta: Steamhammer/Spv
Nel periodo di carnevale, dove addobbi e parrucche la fanno da padrone, quale migliore album da recensire se non “Mama Said Rock is Dead” degli americani John Diva & The Rockets of Love. Ebbene sì, con questa realese si ritorna idealmente agli anni d’oro del glam rock, dove i capelli cotonati e i trucchi spopolavano tra le molteplici bands del genere. Non ci sono però orpelli o finzioni nella carriera da scrittore e manager di John Diva che vanta un curriculum di tutto rispetto, visto le collaborazioni con “mostri sacri” del genere come Aerosmith, Bon Jovi, Kiss e Van Halen. Abbandonata momentaneamente la maschera di songwriter, John si cimenta nelle vesti di cantante per la sua prima uscita discografica che va a pescare, forza di cose, nel genere che ha celebrato molte band di fama mondiale con cui ha collaborato. Il risultato che ne esce è questo “Mama said rock is dead” che si avvale della partecipazione dei chitarristi Snake Rocket e JJ Love, del bassista Remmie Martin e del batterista Lee Stingray jr.
L’album è stato rilasciato da Steamhammer/Spv nel mese di Febbraio ed è stato prodotto da Michael Voss, non uno qualunque.
continua
22 Marzo 2019 23 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2019
etichetta: Universal Music Enterprises
Quando si parla dei Tesla non servono presentazioni e lungaggini: band storica e iconica del panorama statunitense anni ’80, un marchio riconoscibile e garantito del rock contemporaneo.
“You Won’t Take Me Alive” apre le danze, grezza, sincere e movimentata, dalla linea vocale e dal groove inconfondibile. Ottime trame strutturali e richiami al passato del rock dominano “Taste Like”, pezzone godibile che si riversa nella delicata ballade quasi sinfonica “We Can Rule The World”, la cui peculiarità è l’intenso uso della chitarra classica, anche nella parte solista. Arriva quindi il turno della title track “Shock”, dall’introduzione molto moderna e un po’ sconvolgente, non un grande slancio artistico, ma con un buon ritornello martellante e coinvolgente. “Love Is A Fire” è un altro lento sdolcinato e suadente, ma che si può inserire senza troppi picchi di fantasia nella massa delle power ballads. La corta “California Summer” ha qualcosa di poppeggiante, qualcosa di fresco, ma nulla di più e in un soffio ci ritroviamo catapultati in “Forever Loving You”, altro acustico melenso e sentimentale, che nonostante l’immensa qualità realizzativa risulta un tantino eccessivo.
Leggermente più scatenata, “The Mission” ci riporta per un attimo nei roboanti anni ’80, mettendosi in luce per l’ottima resa strumentale. “Tied To The Tracks” è aggressiva e pestata, molto ritmata, che risulta essere uno dei punti di forza del lavoro. Altro pezzo di passaggio risulta essere “Afterlife”, senza infamia e senza gloria, come il successivo “I Want Everything”, più scanzonato e globalmente corale. La conclusiva “Comfort Zone” sembra riassumere il pensiero di questo lavoro, che non si scosta mai veramente dalla “normalità”, non dimostrando grande freschezza ideativa, pur mantenendosi su buoni livelli tecnici e realizzativi, data la produzione da parte di una major.
19 Marzo 2019 0 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Melodic Progressive Rock
anno: 2018
etichetta: The Highlander Company Records
Non fatevi ingannare dalla copertina un po’ anonima e dalla scarsa fama del moniker 41Point9, perchè il secondo disco di questo progetto melodic progressive rock, intitolato Mr. Astute Trousers, può certamente divertire tanto i fans del prog rock melodico moderno, quanto gli amanti dell’AOR. Come è possibile? Ve lo spiego.
Progressive rock non vuole essere sempre sinonimo di lunghe suite ricche di trovate tecniche, continui cambi di tempo e intricate trame melodiche. Talvolta un impeto a variare le battute può trovare ampie affinità con il rock melodico che tanto ci piace, ed è questo il caso dei 41Point9, una formazione che fa dell’attenzione melodica, dei cori, dei refrain di impatto il suo punto forte. Questo, mentre le tastiere di derivazione Yes di Kenny Steel si divetono a duettare con le chitarre sue e di Chad Quist, mentre il cantante Brian Cline apre scenari melodici ariosi con la sua ugola delicata ma decisa, mentre il basso di Bob Madsen sfugge via tra le battute delle pelli del batterista Mike VanDerHule.
In tutto questo, realtà come Arena, IQ, Pendragon, Asia e i già citati Yes possono essere nominati come influenze primarie di un disco che si evolve con grande varietà nei suoi circa 70 minuti di durata, senza annoiare mai e lasciando l’ascoltatore in attesa del prossimo colpo di coda dei suoi bravi interpreti. C’è qualche attimo di fusion, qualche spunto jazzistico, ma il rock (melodico) la fa qui da padrone, come ci dimostra subito l’opener For the King (When Valkyries Cry è una intro), sinfonica, epica, pomp e roboante fino al midollo. The Marine e Confessions at Midnight, entrambi singoli dell’opera, sono tra i più chiari esempi di questa stilistica progressiva vicina all’AOR, con The Black Line che invece nelle sue accelerazioni quasi sfiora il metal, ma ha attimi rilassati che sono ancora figli del prog rock moderno e melodico.
La struementale Tilting at Windmills fugge poi da ogni schema, e unisce virtuosismi tecnici ai più disparati stili musicali, con These Four Lands che impressiona per il suo incipit tutto basso e vocalità, su cui subentrano chitarre e cori con assoluta leggiadria e innata qualità (è tra gli apici del platter). Don’t Cut Down the Rose ha rimandi agli Yes anni novanta e al pop rock elettronico ottantiano, ed è una ballad molto intensa e romantica arricchita da una parte di sax magnifica, con Big Data che piace per come alterna parti acustiche a boati elettrici di grande effetto, e con The Loch che sale in cattedra con le sue stupende orchestrazioni di sottofondo. Chiude infine con il botto una Familiar Strangers che ha ancora tante affinità con l’AOR (quello westcoast) e che sigilla al meglio un’opera discografica di ottima fattura, tutta da scoprire ascolto dopo ascolto.
IN CONCLUSIONE
Dietro al moniker 41Point9 si nasconde una piccola gemma prog rock melodica, di grande caratura tecnica ed esecutiva, e dotata di un songwriting strabiliante, che nei suoi 70 minuti non annoia mai, e mai si ripete nelle forme.
Belle vocalità, ottimi cori, tastiere sempre presenti e una ricerca melodica continua sono gli ingredeinti che rendono il disco consigliatissimo non solo per i prog rocker, ma anche per tutti gli amanti del rock melodico. Ascoltare per credere!
19 Marzo 2019 11 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Andromeda Relix
L’album di debutto omonimo della band hard rock veronese dei Wyatt Earp ha visto la luce sul finire del 2018, promosso e realizzato con il contributo della label Andromeda Relix, da sempre realtà attentissima ai talenti emergenti del panorama rock italiano.
Gli appassionati del rock classico alla Deep Purple e alla Led Zeppelin, e gli amanti del prog rock settantiano stelle e strisce in stile Kansas, possono facilmente ritorvare qui tante note affini ai loro stili musicali preferiti. E’ indubbio infatti come questo gruppo si ispiri a queste realtà storiche del genere, producendo un disco composto da sole sei tracce ma decisamente articolato, lungo ed evoluto, maturo nel sound e nello stile, prodotto con suoni caldi ed avvolgenti come quelli degli anni ’70 da un bravissimo Patrick Engel dei Temple Of Disharmony. La prova tecnica dei componenti è poi delle migliori, con Leonardo Baltieri perfetto interprete vocale delle difficili trame chitarristiche di un Matteo Finato che non disedegna di duettare anche a lungo con le tastiere di un brevo Flavio Martini, mentre il basso di Fabio Pasquali e la batteria di Silvio Bissa seguono incalzanti con il loro ritmo e groove.
E, seppur l’originalità dello stile non sia quello che è ricercato nello stile compositivo di questo gruppo, sarà facile perdersi ed immergersi totalmente nelle trame zeppeliniane della traccia opener Dead End Road, seguita da una terzetto di canzoni (Ashes – Live On – With Hindsight) che invece strizzano l’occhio al prog americano e impressionano (e tanto) per il loro altissimo tasso tecnico, e per la assouta padronanza che ne hanno gli interpreti. Back From Afterworld invece è tutta una tributo ai Deep Purple, con la suite finale Gran Torino che è l’epicentro del disco tutto, e che non riesco a commentare in altro modo che con un wow!
IN CONCLUSIONE
I Wyatt Earp sono un’altra bella scoperta della Andomeda Relix.
Un gruppo italiano solido, maturo, di puro revival hard rock anni’70s. Consigliati!
17 Marzo 2019 8 Commenti Alessandro Barbero
genere: Rock italiano
anno: 2018
etichetta: Nero Events
“Viaggio senza vento” dei Timoria, uscito nel 1993, non è soltano il disco della svolta e del definitivo successo per la band bresciana, ma rappresenta anche uno dei dischi di maggiore importanza nell’ambito del rock tricolore (insieme, tra gli altri, a “17 re” dei Litfiba ed “Hai paura del buio?” degli Afterhours). E’, infatti, il disco che, per l’assoluta qualità della musica ivi contenuta e per l’azzardo di proporre un concept album (la storia di Joe, che effettua un lungo viaggio, sia fisico che, soprattutto, spirituale alla ricerca di sé stesso), ha portato il rock italiano su un livello mai raggiunto prima (sia da un punto di vista artistico che meramente commerciale), tanto da poter essere individuato come un ideale spartiacque, con un prima ed un dopo “Viaggio senza vento”.
Pertanto, la stessa band ha deciso di celebrare il venticinquesimo anniversario dell’uscita del disco (cadente nel 2018) con la ristampa del medesimo con un cd bonus contenente rarità (inediti e versioni demo), senza che, purtroppo, il progetto di un reunion tour si concretizzasse (anche se Omar Pedrini ha ufficializzato recentemente un proprio tour solista in cui suonerà integralmente l’album).
In questo clima di meritata celebrazione si inserisce il presente “Progetto Viaggio Senza Vento”, nato da un’idea di Marco Pendola, che, con il patrocinio dello stesso Pedrini, ha coinvolto 19 artisti (18 liguri, più uno ligure d’adozione) che hanno rivisitato i brani del disco originale, nell’esatta track list.
La prima nota di rilievo dell’opera in esame è la grafica, curata da Enrico Della Patrona, in cui sono disegnati, intorno ad un Omar Pedrini intento ad autografare la copertina dell’originale “Viaggio senza vento”, i membri delle band (uno per gruppo) che hanno aderito al progetto.
Ciò che colpisce di questo disco è l’eterogeneità degli artisti coinvolti (cantautori, gruppi thrash – death metal, gruppi indie – alternative, gruppi hard rock, gruppi pop folk, gruppi rock, gruppi jazz, ecc.), a conferma dell’enorme e trasversale influenza che il disco del 1993 ha esercitato nella scena musicale italiana.
Aprono le danze gli El Topo Rock Hotel (da Rapallo / Genova / Savona), tribute band di Timoria e Pedrini, con cui quest’ultimo si è già esibito in passato, che ripropongono una versione abbastanza fedele di “Senza vento”, in cui risalta la somiglianza dell’interpretazione di Barcherini con la voce di Renga ed in cui viene leggermente accentuato il ruolo delle tastiere.
A seguire “Joe”, interpretata dal cantautore Gioacchino Costa (da Favale di Malvaro), che arricchisce la canzone con una lunga (rispetto alla durata complessiva del brano) intro di chitarra; per il resto, il brano viene riproposto in versione voce e chitarra, senza ulteriori fronzoli, scarna e rallentata, ma di grande fascino.
La rock band Fumonero (da Genova) esegue “Sangue impazzito” in una personale versione semi-acustica, che ricorda – sebbene si distanzi anche da quest’ultima – più la versione acustica che i Timoria proponevano in sede live che quella presente su disco, con tanto di aggiunta di una parte del testo di “La città di Eva”: una versione che accentua gli aspetti malinconici già presenti nell’originale, temperandone le esuberanze.
Stupirà sicuramente la selvaggia versione di “Lasciami in down” dei thrashers savonesi Last Rites: per chi conosce e ricorda bene la canzone originale, questa versione decisamente adrenalinica, con il tagliente cantato di Dave, risulterà stupefacente, così come lo sarà per chi conosce e segue da anni la band, mai così melodica.
Gli alternative rockers genovesi Sunziki trasformano “Il guardiano di cani” in un marziale e claustofobico brano, declamato con veemenza che, come il testo, non lascia scampo alcuno (a Joe ed all’ascoltatore).
Gli Stazione Zero, gruppo rock da Genova, ripropongono una riuscita versione di “La cura giusta”, in cui risaltano la voce di Davide Martinelli (con chiari echi del miglior Renga) e la chitarra molto “anni ’70” dell’ottimo Mauro Caprile.
Segue la versione di “La fuga”, proposta dalla Società Per L’Industria Del Freddo, alternative rock band di La Spezia, che alterna toni sognanti e parlati nelle strofe con l’esplosione di energia del ritornello.
“Verso oriente” viene riproposta egregiamente dalla band pop rock savonese Dagma Sogna, in una traccia che non perde nulla della magia dell’originale, mantenendo inalterato l’impianto a due voci, con azzeccati assoli di chitarra e tastiere che si inseguono nel finale, richiamando melodie dal sapore orientale.
Gli spezzini Malenky Slovos (indie / alternative rock) eseguono “Lombardia”, con un intro elettronica, in una versione imbevuta di funky, con un cantato quasi sussurrato ed un’azzeccata sezione di fiati.
I Trio, jazz / fusion / clubbing band da Chiavari (unica band presente con più di un brano – ben tre), ripropone il breve intermezzo jazz “Campo dei Fiori Jazz Band”.
“Freedom” è riproposta da Mauro Andreoni, cantautore di Sestri Levante, uno dei promotori dell’iniziativa “Progetto Viaggio Senza Vento”, in una splendida versione acustica, con ospiti lo stesso Omar Pedrini alla chitarra, Marco Pendola alla batteria ed il coro degli altri partecipanti al progetto. La canzone è stata scelta anche quale video promozionale del disco.
A seguire, i rockers rapallesi Lat Night Hotel ripropongono “Il mercante dei sogni” con voce femminile e tastiere in evidenza.
Gli Afterglow, gruppo rock / drum’n’bass di Sestri Levante, stravolgono “La città del sole” con un ritmo incalzante rispetto all’originale e con profusione di tastiere elettroniche: davvero una delle rivisitazioni più azzardate ed, allo stesso tempo, più riuscite del disco.
Tornano, poi, i Trio con la strumentale “La città della guerra”, più malinconica nella prima parte, fino al finale maggiormente apocalittico.
I genovesi White Mosquito propongono un’energica versione di “Piove”, classicamente rock, con una voce maggiormente graffiante ed un ottimo e travolgente assolo di chitarra nel mezzo della traccia.
Sciaka, alias Francesco Mancuso, palermitano ma genovese d’adozione, esegue una struggente versione voce e piano de “Il sogno”.
Emilya Ndme (rock pop da Genova) ripropongono “Come serpenti in amore” in una chiave rock’n’roll, con tastiere in evidenza e coda con influenze reggae.
Segue l’ultima comparsa per i Trio con l’eccellente “Frankenstein”, personalizzata in una versione groovy, con gli unici inserti vocali parlati.
Roberto Frugone e la sua band (Casarza Ligure, rock – pop – folk) ripropongono “La città di Eva” in una versione molto “rilassata” e “rilassante”, in chiave decisamente più pop, impregnata dal suono guida delle tastiere e con interventi cesellati della chitarra elettrica.
“Freiheit” è presentata dai genovesi Safari come un brano rock deve essere: ruvido, essenziale e diretto.
La chiusura della viaggio di Joe (“Il guerriero”) è affidata ai chiavaresi Caligo, in chiave malinconica e decisamente pop.
IN CONCLUSIONE
“Progetto Viaggio Senza Vento” propone un giusto tributo ad un disco fondamentale per il rock italiano, con le diverse band che eseguono i brani originali – a seconda dei casi – con una personale ma ossequiosa versione ovvero stravolgendoli completamente.
Adatto a tutti i fan dei Timoria e del disco originale, ma anche a chi, più in generale, ama il rock italiano, nelle sue varie sfumature.
14 Marzo 2019 17 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock / Heavy Metal
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music
Uscita sensazionale per questo 2019: torna il “Rambo della Chitarra” Kane Roberts, ex – chitarrista di Alice Cooper e icona rock anni ’80.
La proposta di Roberts è decisamente interessante e moderna, come per la traccia iniziale “King Of The World”, dalla trama musicale suadente ed efficace. “Wonderful” nella sua schizofrenia strumentale risulta incredibile, fresca e titanica, un brano sorprendente e di rara bellezza. Ritmiche toste e ben congeniate si susseguono nell’oscura e meravigliosa “Beginning Of The End”, dove possiamo apprezzare le voci di Alice Cooper e della vocalist degli Arch Enemy Alissa White – Gulz. Con l’intenso lento “Who We Are” si esplorano nuovi orizzonti, sempre gradevoli e ben pensati: pregevole l’intervento di Katt Franich nella parte vocale. Un intro particolare e ipnotico ci catapulta in “Forever Out Of Place”, pezzo rilassato e allo stesso tempo arrembante, quasi in stile Nickelback, molto contemporaneo e piccante. C’è sempre qualcosa di labirintico e misterioso nei brani di Roberts, come nel caso della tonante “Leave This World Behind”, veloce, pestata e graffiante; all’opposto “The Lions Share”, dalle atmosfere sconfinate e fumose, ridondante e ricca di effettistica. Sempre su questa linea conduttrice troviamo “Leave Me In The Dark”, cibernetica, elettronica in alcune parti strutturali, ritmicamente crudele e globalmente piacevole. “Above & Beyond” è scanzonato e senza troppe pretese, cuscinetto che ci permette di arrivare senza troppi affanni alla conclusiva “Wrong”, una chicca oscura e granitica, ricca di spunti strumentali e di ambiente.
Si conclude così “The New Normal”, album gradevole nella sua totalità, senza grosse pretese, ma di grande impatto strumentale e soprattutto emotivo, grazie a trame musicali sempre efficaci e soprattutto ben eseguite.
14 Marzo 2019 1 Commento Stefano Gottardi
genere: Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Vampsworldwide Vision
Americani di Hollywood, California, i London hanno vissuto due fasi della propria carriera piuttosto diverse fra loro a livello di fortuna. La prima, quella della fondazione, dura dal 1978 al 1981 senza grandi sussulti, sebbene il combo potesse vantare fra le proprie fila la presenza di gente come Lizzie Grey, Blackie Lawless e Nikki Sixx, che successivamente diventeranno dei nomi familiari agli appassionati di hard & heavy per merito di gruppi come Spiders & Snakes, W.A.S.P. e Mötley Crüe. La seconda, ricca di svariati cambi di line-up e più prolifica in termine di popolarità, porta qualche risultato con ben tre full-length album ed un posto nella storia dell’hair metal, seppur i London possano essere tranquillamente considerati una band minore. In questo frangente, fra i tanti musicisti coinvolti nel progetto, spicca il nome di un Fred Coury pre-Cinderella. A quasi trent’anni dall’ultimo vagito discografico Playa Del Rock (1990), due superstiti di quella formazione, il vocalist Nadir D’Priest e il batterista Alan Krigger (Giuffria), coadiuvati da Ronee Peña alla chitarra, Billy The Fist al basso ed Eric Ragno alle tastiere (Joe Lynn Turner, The Babys), danno alle stampe un nuovo lavoro. L’artwork di Call That Girl vede la band immortalata in una scena dal vivo, con in primo piano il cantante-mastermind D’Priest (il gruppo per un certo periodo ha portato il suo nome, ed esiste anche una versione del terzo platter in cui in copertina campeggia questo monicker al posto di quello storico). Il digipack, a due ante e privo di booklet e testi, è un po’ scarno e i credits si leggono male, ma nella lista degli ospiti sembra di scorgere artisti del calibro di Mike Varney, Chuck Wright (Giuffria, Quiet Riot, Impellitteri, Doro, House of Lords) e Teddy “Zig Zag” Andreadis (Guns ‘N Roses, Alice Cooper). Nonostante la confezione, la voglia di infilare il lettore nello stereo e ascoltare cos’hanno combinato i London dopo tutto questo tempo è comunque tanta. Non appena parte l’opener “Far Away”, uptempo rockeggiante condito da un bel solo, il passato torna subito in testa, per le atmosfere che rimandano al 1990 e anche grazie alla voce altamente caratterizzante di Nadir D’Priest (e al contributo in cabina di regia di Dennis Ward, autore di mix e master). È poi il momento della title track, un pezzo che ha le radici saldamente piantate nell’hard 80iano e che non sposta di una virgola le coordinate sonore del suo predecessore, che già dai primi brani il nuovo disco fa capire di seguire. Non c’è traccia di modernità alcuna nemmeno nella seguente “I Fell Love With A Rebel”, né nelle canzoni che vengono dopo. Fra alti e bassi, perché bisogna riconoscere che a volte il songwriting mostra qualche lieve segnale di cedimento, l’album scorre via piuttosto piacevolmente, piazzando anche qualche improvviso colpo di coda come quelli dati dal tempo medio “You Are Still The One For Me”, dall’atmosferica “Next To Me” e dalla roboante “Please Give Me A Kiss”. Smodatamente fuori tempo massimo, questo tipo di hard rock ha ancora il suo fascino anche ai giorni nostri, e lo stesso si può dire per certi nomi come quello dei London che fa sempre piacere leggere in copertina.
IN CONCLUSIONE
Anche se non raggiunge mai i fasti di Playa Del Rock, probabilmente il loro apice compositivo, Call That Girl in fin dei conti è un ritorno discografico coerente e inatteso, una bella sorpresa da mettere in collezione.
14 Marzo 2019 26 Commenti Stefano Gottardi
genere: Glam Rock/Rock 'n' Roll
anno: 2018
etichetta: Polydor
Nati nel 2012 a Derby, Inghilterra, i The Struts hanno alle spalle soltanto un EP quando, davanti ad 80mila persone, aprono ai Rolling Stones a Parigi nel 2015. Dopo un tour americano che registra quasi sempre il tutto esaurito, salgono alla ribalta delle cronache l’anno successivo col debut album Everybody Wants. Il quartetto si trasferisce quindi a Los Angeles e va in tour con gente come The Who, Guns N’ Roses e Foo Fighters. Con un’immagine curata nei minimi dettagli, anche grazie alla collaborazione fra il cantante e la stilista Zandra Rhodes, che ha legato il suo nome a quello dei Queen, il gruppo cattura subito l’occhio. A campeggiare sulla copertina del nuovo disco Young & Dangerous è il profilo del tenebroso singer Luke Spiller, frontman e uomo immagine della band, curioso ibrido estetico fra il giovane Freddie Mercury e Joe Leste dei Bang Tango. Il lavoro si presenta in formato jewel case, con un anacronistico tray nero ed un booklet di 16 pagine ricco di foto e tutti i testi. Stilisticamente il combo britannico pesca a piene mani dalla vecchia scena glam rock: artisti come The Sweet, Mott The Hoople, T. Rex, David Bowie e primi Queen vengono spesso alla mente, ma nella loro musica c’è pure una certa componente rock and roll à la The Rolling Stones e persino del brit pop, il tutto adeguatamente rinfrescato e reso più appetibile anche per il grande pubblico. I primi due pezzi, “Body Talks” e “Primadonna Like Me”, sono due proiettili e da soli valgono l’acquisto del CD. Non a caso sono stati scelti come singoli e di entrambi esistono dei videoclip. Di “Body Talks” addirittura due: quello della versione originale e quello del duetto con Kesha, brano posto in chiusura di tracklist. Altri picchi qualitativi sono raggiunti da “People”, “Fire (Part 1)”, “Freak Like You” e “Ashes (Part 2)”, tracce che hanno una marcia in più e convincono sia a livello di songwriting che di arrangiamento e resa finale. A volte i richiami ad altre band sono davvero espliciti, come nel caso di “In Love With A Camera” (The Darkness) o “Tatler Magazine” (Queen), ma al gruppo va riconosciuto il merito di aver saputo mettere del suo dentro ad una proposta di fondo decisamente derivativa. Un pizzico di brio a livello compositivo non manca mai e contribuisce a tenere alta l’attenzione per tutti i 45 minuti di durata del disco.
IN CONCLUSIONE
Forti di una scrittura concreta e frizzante, i The Struts ripescano un sound retrò e lo modernizzano quel tanto che basta per essere notati ed apprezzati anche dai più giovani. La bontà del debut album si rispecchia nel suo successore, rimarcando ulteriormente la classe del complesso inglese che proseguendo di questo passo potrebbe diventare un nome davvero importante negli anni a venire.
09 Marzo 2019 2 Commenti Lorenzo Pietra
genere: Melodic Rock
anno: 2018 Japan - 2019 Europe
etichetta: Avalon Japan
Poteva mai mancare l’annuale disco dei Last Autumn’s Dream? Quest’anno ci siamo andati molto vicini, la concomitanza del nuovo lavoro di Mikael Erlandsson, di Jamie Borger sempre più impegnato con i Treat, del bassista Nalle Pahlsson con il nuovo progetto Gathering Of Kings ha lasciato i LAD in disparte. Da qui la decisione di far uscire una serie di tracce rare e il rifacimento di due classici pezzi da Winter In Paradise. Non a caso il titolo del cd è Secret Treasures e viene pubblicato come Mikael Erlandsson And Last Autumn’s Dream. Data la scarsa vena creativa degli ultimi lavori, dopo aver letto che il lavoro era una serie di “Rare Tracks” e Bside mai pubblicate, ammetto che mi sono venuti i brividi … invece mi sono dovuto ricredere!!!! Un album che riporta in vita i LAD.
Si parte fortissimo con Eye Of The Hurricane ha il classico sound rock dei LAD con un bell’intro di chitarra e un ritornello che prende fin dal primo ascolto, si continua con Evil, con la voce rabbiosa di Erlandsson che apre le danze al riff molto ispirato. Interessante la ritmica e il ritornello con il sound più hard rock. Pain ritorna su binari più melodici per poi esplodere rabbiosa, potremmo definirla un mid tempo alla Erlandsson, aggressiva e potente ma sempre melodica, ma che ha bisogno di più ascolti per essere apprezzata totalmente. Solito buon riff. Si arriva alla ballad Have To Let You Go, che forse era la mancanza più grave degli ultimi lavori dei LAD. Pianoforte/voce per sfociare in un bel duetto chitarre tastiere seguite da un assolo dolcissimo e delicato, decisamente niente di epico, ma molto gradevole. Si continua con Why, che sprizza energia da tutti gli strumenti, stavolta il riff è tutto delle tastiere, con le chitarre a fare da tappeto, un’esplosione diretta del ritornello, ottimo lavoro. Break Another Heart si apre ancora con due chitarre che sprigionano melodia, un ritornello molto eightes con i cori e le tastiere, tipico di Erlandsson, un marchio di fabbrica ormai. La settima traccia Ok varia la formula con l’introduzione di trombe, tastiere e cori in primo piano nel ritornello, con un buon assolo e le parti di pianoforte da “stacco”; non manca mai la parte melodica ed il brano risulta convincente. Alice In The Wonderland è molto Beatles oriented, con il giro di basso e gli inserti di flauti e pianoforte, i cambi di tempo, il ritornello veramente bellissimo, accattivante, trascinante. Promossa! Le tracce “remix” dall’album Winter In Paradise sono Love Is The Answer e When She’s Gone che suonano la prima molto più hard rock con chitarre rocciose e il cantato più rauco, la seconda più moderna senza perdere il suo fascino, a questo punto sembrano fin di troppo data la qualità del resto dell’album. Nella versione Japan troviamo quattro bonus track , che sono nuove versioni di Brand New Life, Running, Up in Paradise e (Always Be) You And I, tutte tratte dal secondo lavoro “LAD II”.
IN CONCLUSIONE:
Se queste sono Bside o Rare Tracks, ben vengano! Le otto nuove tracce sono meglio degli ultimi stanchi lavori dei LAD e danno una ventata di freschezza al progetto. Bellissimo album, vario, prodotto e suonato a livelli che abbiamo trovato solo i primi lavori dei LAD. Un consiglio, dategli un ascolto prima di dare giudizi affrettati.
04 Marzo 2019 3 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Escape Music
Grande ritorno per una band storica del panorama californiano anni ’80: per gli amanti dell’hard rock classico ecco il nuovo lavoro dei Salty Dog.
Ritmica energetica, voce graffiante e assoli rock blues sono le caratteristiche principali dello stile della band, come nella iniziale “Damned If I Do”, canonica nella sua struttura, che si riversa senza troppi sbalzi nella successiva “I Need More”, dalle stesse peculiarità. I brani presentano il caratteristico timbro vocale di Darrel Beach, che si esalta in “Walk Softly”, mostrando tutta la sua versatilità. Un gradevole intro strumentale ci apre le porte di “Open Sezme”, variegato e frizzante, dalla trama crudele e intrigante. La lenta “Mission On A Hill” mette in mostra l’essenza statunitense della band, fatta di venature che vanno dal blues al country. Si torna su orizzonti decisamente più taglienti e violenti con “All That Glitters”, pezzone tosto e spregiudicato, ammiccante al punto giusto. Atmosfere psichedeliche accompagnano per tutta la sua durata “Woman Scorned”, dal sound cadenzato e ballonzolante.
Traccia puramente southern, country vero e proprio, “Honeysuckle Wind”, ci fa sprofondare nella tradizione musicale del Sud degli Stati Uniti. La granitica “Didju” mette nuovamente in mostra le doti musicali della band, senza distaccarsi molto dal resto del lavoro, come “Old Fashioned Love”, disorientante in alcuni passaggi, ma fondamentalmente canonica. Sulle dolci note di “When Fools Rush In”, una chicca, i Salty Dog si congedano, lasciandoci un album discreto, maturo, coerente e con alcune sfaccettature interessanti e degne di nota.