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01 Maggio 2019 10 Commenti Iacopo Mezzano
genere: AOR / Westcoast
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music
Il mese di aprile 2019 credo verrà ricordato a lungo come uno dei periodi più prolifici e qualitativamente eccelsi della storia recente del genere rock melodico di puro stampo AOR. Dopo i ritorni dei Fortune e di Jim Peterik, ecco uscire infatti su Frontiers Music l’atteso Love & Beyond, l’ultimo album in studio della Michael Thompson Band, progetto di stampo spiccatamente westcoast ad opera del genio chitarristico di Michael Thompson, un musicista e session man il cui bagaglio di collaborazioni farebbe impallidire chiunque nel nostro panorama musicale.
Love & Beyond, che è interamente prodotto dallo stesso Thompson e mixato e masterizzato da Wyn Davis, gode dei suoni nitidi e avvolgenti tipici delle release di questo artista, e si avvale dell’importante contributo realizzativo e di scrittura di Larry Antonino (voce e basso), Mark Spiro (voce), Larry King (voce) e Guy Allison (piano e tastiere). Questi ultimi, assieme agli altri bravi musicisti qui all’opera, forniscono al disco la solida base tecnica dalla quale far emergere la qualità delle differenti strutture melodiche e il sound westcoast vecchia maniera che certamente lascerà a bocca aperta gli appassionati.
Ricco di brevi intermezzi strumentali posti tra una traccia e l’altra in modo da renderne ancora più accattivante lo stile, il platter trova la sua apertura con una canzone meravigliosa come la title track Love & Beyond, e da una analogamente ottima Save Yourself, che sono entrambe cantate da un ottimo Larry Antonino tra cocenti sonorità westcoast di grande atmosfera, ottimo bagaglio tecnico, e grande ariosità nei refrain. La chitarra ad echeggiare su un quieto sottofondo marino (si ode in lontananza il vento e il grido di alcuni gabbiani) apre la più quieta e rilassata canzone Passengers, seguita da una Supersonic che per prima sostituisce il cantante leader con il co-autore Mark Spiro su un motivo dal grande tiro e molto orecchiabile, sul quale ben si abbina la timbrica particolare di questo artista.
Nelle successive Don’t Look Down e Far Away è la chitarra a farla da padrone, caratterizzando fortemente con il suo sound leggero ma prorompente il mood di due brani di facile ascolto e di immutata qualità. Anche in Love Was Never Blind troviamo Thompson decisamente in primo piano, e il suo strumento è leader di un brano un po’ più sostenuto dei precedenti, nel quale il chitarrista sceglie di lanciarsi sovente in assoli di grande emozionalità. Poi è da brividi ritrovare Spiro alla voce in una superba ballad come Flying Without Wings, e lo spirito positivo e motivazionale di questa traccia lo ritroviamo anche in una Just Stardust ricca di groove e coralità, e di stampo decisamente westcoast.
Anche il finale dell’album non manca di regalare emozioni. Ecco infatti il talentuoso Larry King assumere il ruolo di leader vocale in What Will I Be Without You e Starting Over, e le vibrazioni e l’estensione della sua caratteristica voce colorano due brani molto differenti tra loro, con il primo che suona come una ballad soffusa, un po’ nostalgica e splendidamente arrangiata, e il secondo come un pezzo dallo stile più moderno, forse un po’ pop rock, sempre di grande intensità, specie nel suo potente ritornello.
IN CONCLUSIONE
Ci si aspetta sempre molto dai musicisti storici del nostro genere, e con Michael Thompson andiamo sempre sul sicuro se siamo a caccia di un disco westcoast di grande tecnica, ottimo groove e spiccata orecchiabilità.
Love & Beyond, forte anche del supporto di alcuni dei più bravi performer dell’AOR, è l’ennesimo grande capitolo della discografia di questo illustre chitarrista. Un must buy per gli appassionati.
22 Aprile 2019 10 Commenti Iacopo Mezzano
genere: AOR
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music
Ce l’ho fatta, ho trovato un bug nel sistema (da ora im-)perfetto che regola le recensioni qui sul MelodicRock.it. Si può dare più di 100 su 100 di giudizio a un album, arrivando fino a 999. Ottimo. Anche perchè mi sembra questa l’occasione giusta per stravolgere le regole e cambiare le carte in tavola. L’ha fatto anche Jim Peterik d’altronde, che per il suo nuovo album della premiata ditta Jim Peterik and World Stage (intitolato Winds Of Change e in uscita il 26 aprile per Frontiers Music) ha tirato fuori dal cilindro non solo il grande disco che da lui sempre ci si aspetta, ma un nuovo e vero capolavoro da far ascoltare ai giovani per spiegare loro.. come si fa. Anche nei duemila, più di 35 anni dopo gli allora ’80s.
Qui:
E allora largo alle emozioni vere della opener e title track Winds of Change, che vede come ospiti gli ottimi Danny Chauncey e Don Barnes dei 38 Special su un brano frizzante, positivo, arioso, fedele allo stile sempreverde e motivazionale di Peterik. Without A Bullet Being Fired mette Jim in duetto con Mike Reno su un pezzo decisamente ottantiano ed alle ritmiche incalzanti, ma è nel conubio con Dennis De Young degli Styx nel già singolo e video Proof Of Heaven che si squarciano i veli del tempio, e avviene la definitva risurrezione del genere rock melodico. La canzone, che trasuda teatralità, scomoda contemporaneamente Styx, Survivor e Queen, e risuona nei nostri impianti come un puro inno di early AOR, quello di fine anni ’70, con tutti i suoi coretti e le sue trovate pop, pomp e sinfoniche.
Vi ricordate i The Storm? Ecco allora Sometimes You Just Want More e Kevin Chalfant su un pezzo iper melodico, divertente, dinamico, che fa venire davvero voglia di muoversi. E ancora, come se fosse stata strappata via dal miglior platter dei Pride of Lions, Home Fires gode della epicità ed corposità vocale di un bravissimo Toby Hitchcock (speriamo sia un antipasto di un loro nuovo album). Bella!
Parentesi. I REO Speedwagon sono, proprio al pari dei Survivor, i fondamenti assoluti della mia storia di ascoltatore prima, e recensore poi, di AOR. Trovare la voce di Kevin Cronin prestata a una power ballad di Jim Peterik è per me come la realizzazione di un sogno, una di quelle cose che non credi mai possano accadere, ma su cui metti comunque il cuore sopra, e speri, speri speri.. Bene, Just For You è persino più grande di quanto mi aspettassi e, anche se molto essenziale a livello di songwriting (è di fatto una traccia semi-acustica), nella sua intima delicatezza suona come una delle più belle ballad romantiche che abbia mai ascoltato. Fine parentesi. Punto, e a capo.
The Hand I Was Dealt ci presenta uno strepitoso Danny Vaughn ai suoi massimi di espressività su una mid-tempo che ha il sapore lontano dei suoi Tyketto, ma in una veste più ricamata, di pura matrice Peterik. E Where Eagles Dare, con Lars e Robert dei Work Of Art, mi strappa un’altra standing ovation, per una traccia pop rock, atmosferica, originale, echeggiante, dal mood decisamente spirituale, che ci avvolge morbida l’orecchio e ci lava via il nero dei nostri ascolti più metallari (dai lo so che sotto sotto anche voi ascoltate gli Slayer, haha). Ad ogni modo, è una boccata di aria pura sotto forma di note, e melodia.
La rockeggiante I Will What I Want ha Kelly Keagy come ospite, e suona come un bellissimo motivo corale, frizzante come i migliori Night Ranger. Segue una nuova ballad, You’re Always There, interpretata da un super Jason Scheff su un arrangiamento molto classico, ricco di suoni, classico secondo lo stile dei Chicago. Un altro pezzo da antologia del genere, da brividi. Infine, il bell’hard rock stelle e strisce di Avalanche, con Matthew e Gunnar Nelson su una traccia molto stradaiola, lascia spazio al toccante commiato finale di Love You All Over The World, che vede alla voce Jimi Jamison. La chiusura perfetta, e qui le lacrime sono davvero difficili da trattenere…
IN CONCLUSIONE
Al di là dell’ironico giudizio del disco, Winds Of Change è un platter che rasenta la perfezione sotto tutti gli aspetti, e che riporta in auge quel tipico stile compositivo degli anni’80 sfruttando la bravura del miglior Jim Peterik compositore, e di tutti gli ospiti illustri da lui radunati.
Dodici tracce da antologia del genere AOR. Che altro serve aggiungere?
22 Aprile 2019 21 Commenti Iacopo Mezzano
genere: AOR
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music
Una volta ho fatto un sogno. Sfrecciavo la sera lungo una highway costiera americana a bordo di una Camaro del 1986 rossa fuoco. Ricordo il profumo della brezza marina, e palme altissime lungo una promenade popolata di gente dalle strane capigliature. Le luci al neon dei locali iniziavano a illuminarsi di fronte a un tramonto il cui intenso rossore andava a spegnersi con il passare dei minuti, per lasciare spazio a una notte stellata, degna di un film hollywoodiano. Giunto a un semaforo osservai alcune ragazze bionde e slanciate mentre attraversavano la strada di fronte a me. Ricordo che mi sentivo a mio agio, rilassato, e così accesi la radio, giusto in tempo per sentire la voce dello speaker radiofonico annunciare entusiasta l’uscita di un nuovo interessantissimo singolo rock. Incuriosito, alzai il volume della radio, scoprendo così il titolo del brano e il nome di una band che già conoscevo. Allora, la luce verde del semaforo si accese: inserii la prima marcia, e accellerai prontamente. Intanto, le prime note della canzone uscivano dagli altoparlanti dell’auto, e io battevo le mie dita sul volante a tempo con la musica. Poi, improvvisamente, mi svegliai…
Sono passati anni, ma non ho mai più rivissuto quel bellissimo sogno. Questo fino ad oggi, quando la Frontiers Music mi ha permesso di ascoltare in anteprima l’album II, il sotto certi aspetti inatteso disco di ritorno dei statunitensi Fortune, vere leggende dell’AOR anni’80 grazie al loro unico LP omonimo Fortune del 1985, platter che fu – ed è tutt’ora – un vero must per tutti gli appassionati del genere rock melodico.
II, che uscirà nei negozi questo 29 aprile, vede riuniti non solo i fratelli Richard e Mick Fortune, ma anche il cantante originale Larry Greene, che aveva poi trovato fortuna con gli Harlan Cage dopo lo scioglimento precoce del gruppo. Al fianco dei tre, ecco gli abili Mark Nilan alle tastiere e Ricky Rat al basso, che completano una line-up dall’aspetto e dai modi decisamente vintage. Ce lo dimostrano immediatamente i suoni del disco, che riprendono pari pari quelli dell’esordio, con tali pregi e identici difetti (volendo essere pignoli, in particolare è la batteria a non essere proprio il massimo dell’ascolto. Nella totalità dell’insieme però, può andare anche bene così!), ma anche lo stile compositivo dei Fortune, che non va in alcun modo a rimodernarsi, ma anzi lavora esattamente secondo gli schemi dell’esordio del 1985.
E allora che piacevolissimo deja-vu proviamo ascoltando l’opener Don’t Say You Love Me, fondata sulla voce immutata e riconoscibilissima di Larry Greene, o le tastiere ottantiane fino al midollo e portanti di una Shelter Of The Night a cinque stelle, inimitabile nelle sue atmosfere rubate da una notte perfetta come quella del mio sogno. Un sound retrò che fa da base anche al singolo Freedom Road (davvero ottime qui le chitarre, ben amalgamate ancora con tastiere molto presenti, e il refrain, con quei sha-la-la corali prima dell’assolo che fanno da ciliegina sulla torta..), e che ci fa commuovere nella toccante ballad A Little Drop Of Poison, uno dei lenti più belli ascoltati di recente.
Le journeyane What A Fool I’ve Been e Overload ci riportano poi ancora a metà anni’80, la mid-tempo/ballad Heart Of Stone ci immerge in nuove amtosfere dal gusto squisitamente vintage, e The Night rispolvera mano a mano maggiore ritmo ed energia, fino a New Orleans, canzone che sale sugli scudi come una delle più belle tracce del lotto, grazie al suo bel groove e alla sua grande energia. Cala il sipario l’ottimo commiato All The Right Moves, nuovamente carico di prestanza rock melodica, e di quell’intenso mix tra tastiere-chitarre-vocalità che è di fatto il trademark unico di questa storica e ritrovata realtà del nostro genere.
IN CONCLUSIONE
Se da un lato già da diverso tempo fatichiamo a trovare una ventata di novità all’interno del panorama rock melodico post anni duemila, ben vengano allora queste reunion e questi comeback discografici che quantomeno riportano in luce il vecchio sound originale AOR degli anni’80.
II dei Fortune è infatti una macchina del tempo: destinazione 1985. Stessi suoni, stesso stile, per 3/5 stessa band di allora. Un prodotto di grande valore, che mi ha fatto – e v i farà – rivivere il sogno…
21 Aprile 2019 4 Commenti Giulio Burato
genere: Sleaze / Hard Rock
anno: 2019
etichetta: Warner Music Finland
Prima di iniziare la presente recensione ho ascoltato il precedente e primo lavoro dei finlandesi Temple Balls a nome “Traded Dreams” del 2017.
Sono passati due anni dall’esordio discografico e i cinque ragazzi del nord Europa hanno mantenuto le stesse coordinate musicali con un’impostazione sleaze rock moderna e ficcante che prende però ispirazione dallo stile americano degli anni ‘80. La voce “urlaiola” di Arde Teronen, un ipotetico Sebastian Bach finnico, ma un po’ acerbo, completa il quadro.
Uscito l’8 Marzo per Warner Music Finland e prodotto da Jona Tee (H.e.a.t.), l’album parte con la giusta carica di “Infinity” dove i chitarristi Niko Vuorela e Jiri Paavonaho la fanno da padrone. Le seguenti due canzoni, “Kill the voice” e il singolo “Distorted Emotions”, assieme alla conclusiva “The End” sono tra i capitoli più radio-friendly della release; impreziositi da un tocco melodico più ricercato che potrebbe sposarsi idealmente con quanto proposto da diversi gruppi scandinavi tra cui Eclipse, Crazy Lixx e altri.
21 Aprile 2019 2 Commenti Luka Shake Me
genere: AoR
anno: 2019
etichetta: AOR Heaven
Progetto dal moniker importante quanto bizzarro per il britannico e pluriaffaccendato Neil Fraser; in passato coinvolto in collaborazioni di un certo spessore quali Ten e Tony Mills (TNT, SHY). Un Hard Rock pomposo il platter che vede la luce sotto l’egida AOR Heaven e che potrà trovare estimatori fra i vecchi leoni nostalgici di certe sonorità oggettivamente datate. Vediamo cosa riserva il debut album “Scared to Breath”.
“I Can See In Your Eyes” presenta il full nel migliore dei modi; intro stellare con tastiere saldamente ancorate al classico aor pomposo molto retrò ma che ancora oggi fa battere sempre i cuori di rockers canuti. La linea vocale è di gran classe come il genere impone. Una minestra riscaldata più volte, ma pur sempre un’ottima minestra.
“Scared To Breathe” nonostante si mantenga sui connotati dell’aor più pomposo, in questo caso riserva un songwriting più ricercato e relativamente originale; gli arrangiamenti mostrano quanta classe il combo abbia in serbo. Classe e perizia tecnica si fondono egregiamente; fiducioso per un gran bel dischetto.
“A Thousand Pieces” necessita di un ascolto più approfondito; spiazzante dall’inizio alla fine vive di più momenti. Un plauso per l’originalità e la ricercatezza. Monolitico e oscuro che sfocia in un crescendo aperto sicuramente agevolato da chitarre più scarne e meno rocciose. A gusto personale, una composizione che pur mantenendo connotati retrò si muove su territori quantomeno non esattamente catchy o scontati.
“Secrets and Lies” ha il piglio blueseggiante con un chorus che esce dal contesto, dimostrando ancora una volta la bontà di un progetto che sa offrire manciate di belle armonie senza annoiare; il tutto è sempre misurato seppur catchy.
“I Never Cried” è la prima ballad che arriva con precisione chirurgica a centro disco; ammetto di non essere stato particolarmente colpito dalla traccia che purtroppo scivola via senza troppi scossoni. La mia valutazione forse inficiata dai termini di paragone di ultime uscite fatte di produzioni assolutamente superiori.
“Homeland” si presenta più roccioso; bel mid tempo magniloquente, trascinante nel chorus e anche relativamente sperimentale; ottimo dunque il lavoro svolto dalle chitarre ben supportate da keyboards incisive e preziose al contesto.
“Don’t let go” purtroppo segna un calo netto qualitativo importante. Il pezzo malgrado possa sembrare anche ricercato, si trascina stancamente. Nulla da dire riguardo il lavoro svolto per gli arrangiamenti egregiamente costruiti; il problema è che sembra voler offuscare un songwriting non all’altezza.
“Suicide Satellite” ritorniamo su standard più che accettabili; il mood del pezzo è trascinante e vagamente bluesy, più asciutto delle composizioni precedenti, privo di orpelli delineati dalle onnipresenti tastiere. In questo contesto c’è solo un caldo ed egregio lavoro di chitarre.
“A Love So Cruel” una delle tracce più incisive del lotto e che potrebbe restare di più nel cuore di chi avrà voglia di avvicinarsi al progetto Treshula. AoR diretto e pregno di belle armonie. Promozione assoluta per la traccia in oggetto.
“Magnetic Memories” si muove in territori vagamente neoclassici e lo fa con apprezzabili risultati. Tastiere e chitarre sembra vogliano ritagliarsi lo spazio che finora era stato relativamente marginale. Una delle tracce più originali ma che al tempo stesso necessita di un ascolto più accurato per essere metabolizzato.
“Jealousy” ultima traccia di un lavoro sicuramente ben prodotto; almeno da questo punto di vista promozione assoluta. Ritroviamo chorus aperti e controcanti sempre misurati e che fortunatamente non sembrano autocelebrativi; la misura e lo stile dunque; ad onor del vero peculiarità presente un po’ su tutto il disco.
IN CONCLUSIONE
Un lavoro che a me non è dispiaciuto; il sottoscritto però ha avuto il “vantaggio” di ascoltarlo più volte per cause di forza maggiore; dunque non di facile presa e a tratti potrà anche scivolare erroneamente in simil noia. “Scared to Breath” non è oggettivamente un grandissimo album anche se promosso e trampolino di lancio per un futuro platter di ben altro spessore.
17 Aprile 2019 21 Commenti Alberto Rozza
genere:
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music
Nuovo progetto ma volti ben conosciuti: formazione incredibile coi tre ex – Dokken Lynch, Pilson, Brown e l’attuale cantante dei Warrant Robert Mason… ed è subito Los Angeles, subito hard rock anni ’80!
L’apertura è riservata a “Leap Of Faith”, brano suadente e sinuoso, un mix interessante di ottima tecnica accompagnata da una ritmica scanzonata. Pericolante e crudele, “Hold Me Down” non stupisce per freschezza, anche se globalmente risulta un buon pezzone gradasso e coinvolgente. “No Game” si incasella perfettamente nell’hard rock più classico, caldo e sensuale, dotato di tutte le caratteristiche del genere. Secca e tagliente, “Bulletproof” salta subito all’orecchio dell’ascoltatore per il suo groove trascinato, godibile a un range di pubblico ampio. La velocità sale sulle note di “Ride It”, sfrenata e aggressiva, in pieno stile anni ’80. Giunge l’ora del lentone, giunge il momento di “Burn The Truth”, delicato e tipicamente americano nelle sensazioni evocate, ma complessivamente “già sentito”.
Si torna su orizzonti più ritmati e grezzi con “Hard Road”, dal riff schizofrenico, mentre la successiva “Alive Today” stupisce per resa vocale e modernità del sound. “Line Of Division” presenta una trama e una sonorità canonica e ben consolidata, con ottimi cori e complessivamente una gradevole resa strumentale. La lenta e cristallina “Sleeping Voice” è un compendio di tecnica e gusto sublimi, la vera perla dell’album, il quale si chiude senza grandi sussulti con “Life Is Love Is Music”, cadenzata e verace, conclusione di un lavoro discreto, senza grandi picchi, ma comunque splendidamente eseguito.
13 Aprile 2019 11 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Grooveyard Records
Sensazionale il nuovo album del power-trio hard rock anni ’70 italiano Bullfrog, gruppo attivo nel veronese dal lontano 1993 e tornato nei negozi nel 2018 con il prezioso disco High Flyer, licenziato dalla Grooveyard Records.
Un platter che trasuda passione, in sonorità hard rock a stelle e strisce che non disdegnano tinte blues rock (e un po’ southern) davvero invitanti, e che creano un facile parallelismo tra la band e la musica di Led Zeppelin e Cream, Mountain e Deep Purple, Lynyrd Skynyrd e Uriah Heep, Bad Company e compagnia bella. Il tutto, con il piglio solido e maturo di chi questa musica la vive da anni, la interpreta perchè la sente sua, la produce perchè l’ha sotto la pelle, la suona dritta al cuore.
Tanto che, già ascoltando l’opener Lola Plays The Blues, ci chiediamo un po’ tutti come diavolo abbia fatto il frontman, cantante e bassista Francesco Dalla Riva a cimentarsi con così tanta bravura e natural perizia nella perfetta riproduzione vocale delle timbriche di allora, di quelle voci immortali e cariche di feeling che sono nell’immaginario comune come perfette rappresentazioni dell’essere rock. Con Silvano Zago alla chitarra che sale in cattedra come un Hendrix dei tempi moderni, spiazzandoci con il riffing di puro old-style di una Losing Time che trova nei battiti secchi e in tutto il groove delle pelli della batteria di Michele Dalla Riva la finale espressione del suo essere squisitamente elegante e vecchia maniera.
E allora lasciamoci scivolare, come sulle ali di un sogno, nelle serene nostalgie che ci risveglia il rock un po’ southern e alla Paul Rodgers di Hot Rod, con i Led Zeppelin che ci salutano nel riff di Beggars and Losers, e con il jam stellare di Dangerous Trails che boh, è troppo bello per essere definito a parole. E così via, nelle note del country rock acustico di Johnny Left The Village, nel mood rock festaiolo di Dance Through The Fire, nel ritmo cadenzato di Three Roses, nel riff da antologia della musica rock di Out on The Wide Sea, e avanti ancora fino alle riuscitissime e conclusive Blind Leader e River of Tears, per un album che ha nella varietà del suo songwriting il suo punto forte, e nella bravura dei suoi compositori la sua più evidente ragione per essere ascoltato.
IN CONCLUSIONE
Una delle più belle registrazioni in stile hard rock anni’70 che abbia ascoltato nel recente. E non mi sto riferendo al solo panorama rock vintage italiano, ma a quello mondiale.
Non sto scherzando.
12 Aprile 2019 0 Commenti Stefano Gottardi
genere: Hard 'n' Heavy
anno: 2018
etichetta: Lightning Records
Nel vedere questa recensione qualche lettore distratto potrebbe domandarsi: “mi sono perso qualcosa”? Sgomberiamo subito il campo da equivoci: non vi siete persi nessuna reunion o pubblicazione inedita del gruppo cristiano guidato da Ken Tamplin, questa band è svedese e People Of The Night è il suo debut album. Ok, probabilmente la scelta del nome è un tantino infelice. Nati dalle ceneri dei The Scams, dei quali permane una citazione nel logo, oltre alla presenza di Kriss Biggs (basso) e Danny Diemond (chitarra) il combo scandinavo può vantare quella di Rob Raw, la cui sei corde ha impreziosito i lavori dei Danger (dei quali, se non li conoscete, è d’obbligo un ascolto al disco autointitolato del 2014). L’unico membro a non aver ancora lasciato una traccia tangibile nel music business è il batterista Ol’ Hurricane, che la press release che accompagna il CD ci informa essere un ex contadino trasferitosi dalle campagne alla città, dove ha conosciuto gli altri tre e dato vita alla band. Anticipato dal singolo omonimo (stampato in cardboard sleeve con la cover di “No Voices In The Sky” dei Motörhead come B-Side), People Of The Night si presenta in un jewel case con booklet a 8 pagine completo di tutti i testi. La partenza, affidata a “Scream Shout” e alla title track (di entrambe le canzoni sono stati girati dei video), rivela senza mezzi termini le coordinate stilistiche: heavy metal classico di stampo britannico condito da ritornelli ficcanti e cori anthemici di impronta arena rock. L’album sembra ricominciare da dove si era fermato Bombs Away dei The Scams: sebbene in quel gruppo il cantante principale fosse Diemond e qui Biggs, lo stile in qualche modo ricalca quello del defunto quartetto. Di certo è un po’ meno AC/DC oriented, anche se l’influenza della leggendaria formazione australiana è palpabile, vedasi “Alive”, “Young And Wild” o “Live Free”. Pezzi come “Shoot First”, “We Are Champions”, “Rock Her Bones” e “Racing With The Devil”, invece, mostrano chiaramente come il credo sonoro degli Shout sia devoto alla dottrina di artisti come Judas Priest, Iron Maiden, Motörhead, KISS e Turbonegro, ma con una cura per i refrain tipica dell’hair metal. L’ibrido in questione è una bomba melodica difficile da ignorare, il classico disco da sparare a tutto volume facendo air guitar in mezzo alla stanza, sognando di stare sopra ad un palco con i riflettori puntati addosso e un parterre di fan scalmanati davanti. Spesso, lavori di questo tipo scadono in fretta dopo qualche ascolto, ma People Of The Night sembra avere le carte in regola per superare la prova del tempo. Merito di un songwriing solido e ben strutturato che sostiene saldamente le fondamenta del sound del combo di Växjö. Forse con i suoni non siamo proprio al top, ma il prodotto è comunque competititivo e al passo coi tempi.
IN CONCLUSIONE
Un debutto convincente, ben scritto e realizzato, senza momenti di stanca. Energetico e dannatamente catchy, questo album ha la parola headbanging stampigliata nel suo DNA. Attenzione alla cervicale!
26 Marzo 2019 1 Commento Stefano Gottardi
genere: Glam Rock/Rock 'n' Roll
anno: 2019
etichetta: Rise Above Records
Nati a Roma nel 2007 dalle ceneri dei Taxi, i Giuda sono una rock ‘n’ roll band con uno stile fortemente ispirato dal glam rock degli anni Settanta e dal primo punk inglese. In breve tempo il combo capitolino ha raccolto consensi da un po’ tutte le parti del globo: il loro fan club Giuda Horde è nato in Francia e vanta iscritti fin negli Stati Uniti, dove il gruppo prende parte a importanti festival e tiene regolarmente tour di successo. Notevole è anche la considerazione fra i musicisti: su di loro hanno speso belle parole, fra gli altri, artisti come Phil King (Lush, Felt, Jesus And Mary Chain), Robin Wills (Barracudas), Karl Alvarez (Descendents, All) Captain Sensible (Damned), Joe Elliot (Def Leppard) e Morrissey. Le registrazioni in analogico e l’utilizzo di una strumentazione anni 60/70 hanno contribuito fin dagli esordi a conferire al loro sound un marchio di fabbrica che li identifica e rende perfettamente riconoscibili. Il taglio sonoro che amalgama alla grande il glam rock scintillante di Slade, The Sweet e Gary Glitter al rock and roll ruvido e graffiante degli AC/DC ha caratterizzato Racey Roller (Dead Beat Records, 2011), Let’s Do It Again (Damaged Goods/Tko, 2013) e Speaks Evil (Burning Heart Records, 2015). Tre album che hanno mantenuto una coerenza stilistica costante e si sono rivelati un’assoluta certezza per i fan della prima ora. Giunti al traguardo del quarto full-length, i Giuda hanno deciso di rimescolare un po’ le carte a partire dalla formazione, ridotta a quattro elementi e che vede cambiata in toto la sezione ritmica. L’acronimo E.V.A. sta per “Extra Vehicular Activity” (Attività Extra Veicolare), in riferimento agli astronauti e allo spazio, elemento ulteriormente impreziosito dal lavoro grafico del francese Tony Crazeekid, firma di tutte le loro copertine e garanzia assoluta di affidabilità e senso artistico. Come sarebbe lecito aspettarsi dalle premesse, la tematica “spaziale” è il filo conduttore dell’intero disco, anche se il concetto di viaggio in altre dimensioni è utilizzato spesso nei testi come fine metafora per esprimere un pensiero più profondo, legato all’incontro e all’accoglienza fra popoli appartenenti a culture diverse. Ad anticipare l’uscita dell’album sono i due singoli “Overdrive” e “Space Walk”, di cui sul web gira pure il video. I brani hanno anche l’onore di dare il via alle danze del nuovo platter. Il primo fa da ponte con il passato per quanto riguarda gli incastri melodici e l’immediatezza del ritornello e dei cori, ma mostra tutti gli elementi del cambiamento che sono plateali nel secondo, addirittura quasi per niente cantato, eccezion fatta per il refrain “Walk! Space walk – yeah”, ripetuto più e più volte ed un paio di “Stomping on the moon” nel finale. La band, che per la prima volta nella sua storia conferisce ai sintetizzatori un ruolo centrale nel proprio sound, definisce questo suo nuovo indirizzo sonoro proto disco con una vena punk, un termine che ci sentiamo di dire calzi davvero a pennello. La tracklist, come di consuetudine, snocciola una dopo l’altra una serie di canzoni brevi (nessuna raggiunge i quattro minuti) ma dannatamente intense e ruffiane, nell’accezione più positiva possibile del termine, sia quando possono contare su un refrain o una strofa ficcante (“Interplanetary Craft”, “No Place To Hide”, “You’ve Got The Power”, “Cosmic Love”, “Junk”), sia quando sono fondamentalmente strumentali (“Space Go”, “Ravers Rock”). Ad emergere è la verve artistica del chitarrista Lorenzo Moretti, che firma ogni pezzo, fa un paio di lead vocals e si rende protagonista di una prestazione superba, andando ancora una volta a formare con la voce del cantante Tenda un binomio caratterizzante ed estremamente efficace, anche nella dimensione live, dove il gruppo dà sempre il meglio di sé. Sperimentando, ma senza mai perdere la tramontana e senza lasciare spazio a colpi sparati a salve, questo nuovo parto del combo romano si può tranquillamente definire “all killer, no filler”!
IN CONCLUSIONE
Dopo tre centri discografici consecutivi, la prova della maturità per i Giuda arriva col quarto lavoro. La band solca nuovi territori sonori mostrando grande classe e eclettismo, facendo un ulteriore tuffo nel passato ma riuscendo a restare coi piedi ben saldi nel 2019 e a convincere su tutta la linea. Registrato in presa diretta dall’immancabile co-produttore Danilo Silvestri, e finalizzato a Londra da Noel Summerville, che ha preso parte ad album del calibro di Combat Rock dei Clash, E.V.A. uscirà il 5 Aprile, per Burger Records negli Stati Uniti, per Trooper Entertainment in Giappone e per la Rise Above Records di Lee Dorian (Napalm Death, Cathedral) in Europa. Nell’attesa di scendere in pista, per non farvi cogliere impreparati una rispolverata alle vostre scarpe da ballo vi converrebbe darla…
23 Marzo 2019 0 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Hard Rock
anno: 2019
etichetta: Andromeda Relix / Defox Records
Ci raccontano della nostra società, dei suoi falsi miti e delle sue deviazioni, i veronesi EX, che tornano sul mercato con il successore di Cemento Armato (2016): dopo più di trent’anni vissuti sulle scene, ecco il nuovo album I Nostri Fantasmi.
Un hard rock scarno e diretto, interamente cantato in italiano, è l’unico ingrediente che accumuna gli undici brani di questo disco, e che compone una raccolta di canzoni che vogliono essere l’inno dell’indipendenza musicale e della zero scesa a compromessi, per musicisti lontani da ogni etichetta, o etichettatura. Apre le danze l’intro rock/speed di Vieni a vedere, manifesto (nelle liriche e negli intenti) di questo sprito ribelle del disco, e segue la divertente La mia donna odia il rocchenroll, traccia che si prende beffe di quei musicisti che mollano la band per.. la loro ragazza che odia il rock! No Panic, con il suo hard rock compatto, ci guida tra groove ed energie a L’ambiguità, che ci parla della gente di oggi e dei suoi usi e costumi con l’occhio di chi si sente fuori da questi anni.
Ora ci motiva invece a seguire i nostri sogni sfruttando un bel riff di chitarra e un ritmo ben cadenzato, con La sconfitta del 2000 che parla lucidemente della carenza di ispirazione nella musica dal duemila in poi. L’hard rock classico di (Ogni giorno è) un nuovo giorno lascia spazio a Idee uniche e al suo messaggio di libertà di pensiero, con il sogno mai raggiunto e utopistico di California che ci porta al singolo e video di Santi e delinquenti. Chiude il platter la ballad rock Cicatrice, sottoforma di un commiato riuscito che ricuce i dolori del petto anche attraverso le note decise del rock.
IN CONCLUSIONE
I Nostri Fantasmi è un disco rock italiano non particolarmente tirato ma ben composto e piacevole, intelligente nei suoi messaggi, che non delude le aspettative rispetto al suo predecessore.
Dategli un ascolto!