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Twelve Back Stones – Becoming – Recensione

02 Giugno 2019 11 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Hard Rock
anno: 2019
etichetta: Vrec Music Label

Becoming è il titolo del secondo album in studio della band pesarese dei Twelve Back Stones, realtà hard rock attiva sul territorio dal 2012. Il disco è edito dalla label Vrec Musiclabel.

Influenzati dall’hard rock statunitense della seconda metà degli anni’80, i nostri danno alle stampe un secondo platter che prosegue i fasti del debutto del 2015 e che ripropone la formula perfetta che vede la band dedita a riff di chitarra pesanti e corposi, ma decisamente musicali, che sono abbinati a una bella ritmica arrembante, e alla ottima vocalità melodica del singer Giacomo Magi “Jack Stone”. Mai eccessivamente nostalgico, ricco di motivi radiofonici e di buona qualità tecnico-compositiva, il disco si avvale di una serie di canzoni dotate di buon songwriting e di una discreta varietà sonora, che sono supportate da una gustosa produzione in studio, dinamica e ben tarata nelle parti.

Così, i nostri decidono per Liar come traccia opener dell’album, e la scelta è sicuramente azzeccata viste le belle energie che riesce immediatamente a risvegliare in chi ascolta, che subito ci immergono in un panorama US decisamente polveroso e on the road. Riuscita anche la seguente ed arrembante Black Rose, con On The Road che ha dalla sua un refrain di certo impatto e un riff davvero d’altri tempi, che la rendono una delle top track del disco. Poi, la mid-tempo Whiskey And Flower sarebbe la perfetta colonna sonora di qualsiasi viaggio in auto, mentre la ruggente Drive Crazy la vedo più motociclistica, da vento nei capelli.

Il divertente e frizzante riff di Stars lascia allora spazio a Take Me Higher e al suo ritmo avvincente, con Mother che sfrutta a meraviglia il bel groove del suo basso per suonare retrò e vintage senza per forza di cose scopiazzare i miti del passato. Chiudono infine l’opera Wild Sun, traccia radiofonica e di facile ascolto, e la succulenta ballad/mid-tempo Anytime, brano melodico perfettamente interpretato dal cantante, tra atmosfere crepuscolari e ottimi suoni di sottofondo.

IN CONCLUSIONE

Il rock italiano si traveste da americano nella nuova release discografica dei pesaresi Twelve Back Stones. Il risultato è un platter riuscito, convincente, piacevole nell’ascolto. Pollice su!

Backyard Babies – Sliver & Gold – recensione

24 Maggio 2019 2 Commenti Stefano Gottardi

genere: Scan Rock/Rock 'n' Roll
anno: 2019
etichetta: Century Media

Trent’anni di storia e otto full-length album per i Backyard Babies, fieri portabandiera di un rock’n’roll di stampo scandinavo che ormai pochi artisti sanno ancora fare come si deve. Tornati in pista dopo un periodo di stop con Four By Four (2015), i quattro rocker di Nässjö si ripresentano sempre con la storica line-up e con un lavoro nuovo di zecca intitolato Sliver & Gold. Licenziato dalla major Century Media, il CD è contenuto in un digipack con tasca interna e booklet di dodici pagine, completo di tutti i testi (anche se un po’ di difficile lettura a causa dell’impostazione grafica utilizzata). Dopo la buona prova in studio offerta ormai quattro anni fa, il quartetto era atteso al varco dalla sua schiera di affezionati estimatori a cui è stato dato in pasto il primo singolo “Shovin’ Rocks” già nel Giugno del 2018: il pezzo era uno scanzonato rnr che poco o nulla aggiungeva a quanto fino a quel momento detto dal combo svedese, eppure proprio nella sua semplicità sembrava avere la sua arma vincente. Insomma, un biglietto da visita niente male ed una precisa dichiarazione di intenti in attesa della pubblicazione del disco. Ora che Sliver & Gold è finalmente fuori, si può affermare con una certa sicurezza che i Backyard Babies sono ancora là dove li avevamo lasciati l’ultima volta. La tracklist, composta da dieci pezzi inediti elettrici e cinque storici rivisitati in chiave acustica, si divide fra brani dall’inconfondibile piglio rock and roll (“Good Morning Midnight”, “Simple Being Sold”, “Bad Seeds”, “Sliver & Gold” e “A Day Late In My Dollar Shorts”) ed altri che sembrano risentire dell’influenza più pop e ricercata del Borg solista (“Yes To All No”, “44 Undead” e “Laugh Now Cry Later”), senza comunque mai scadere nel banale. Convincente a livello di sound (prodotto da Chips Kiesbye dei Sator e masterizzato da Joe La Porta agli Sterling Sound di New York) e di contenuti, questo nuovo capitolo della saga dei rocker svedesi è un ulteriore, prezioso, tassello nella loro discografia, di certo non ricca ma mai deludente.

IN CONCLUSIONE

Se posto a confronto dei vecchi album è decisamente più rotondo nei suoni e maturo nella forma, e qualche fan della prima ora potrebbe non apprezzare, ma oggi i Backyard Babies sono questi e Sliver & Gold è un disco di qualità.

Whitesnake – Flesh & Blood – Recensione

17 Maggio 2019 156 Commenti Alessio "Sixx" Garzi

genere: Hard Rock
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music

Estasiato…ecco il termine giusto per definirmi dopo aver ascoltato varie volte il nuovo disco degli Whitesnake di Mr. Coverdale. E non potrebbe essere altrimenti! Non stupitevi di queste parole, perché se anche voi amate da sempre la musica del Serpente Bianco come la amo io, non potete che rimanere davvero senza parole di fronte ad un album del genere. Non esagero, assolutamente. E se ritenete che la voce di David Coverdale non sia più quella di un tempo, soprattutto dal vivo, riconoscerete (per onestà intellettuale) che questo album ha tutte le carte in regola per stare a fianco dei capolavori storici della band, “1987” in primis.

Il più evidente miglioramento rispetto al recente passato è, paradossalmente l’assenza del biondocrinito Doug Aldrich, chitarrista con il quale David Coverdale ha voluto resuscitare la band nei primi anni duemila. Proprio la sua dipartita, per me, ha permesso al grande Reb Beach, finalmente, di esprimere al meglio tutta la sua cristallina classe sia in ambito chitarristico, che anche e forse soprattutto dal punto di vista del songwriting. L’asso nella manica della nuova incarnazione dei Serpenti è poi Joel Hoekstra, virtuoso della sei corde, che ha portato nuova linfa alla band e tonnellate di melodia.

continua

Pendulum of Fortune – Return to Eden – Recensione

14 Maggio 2019 1 Commento Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2019
etichetta: El Puerto Records

Atteso ritorno per l’iconico batterista tedesco Bodo Schopf, già membro della Michael Schenker Band, con un nuovo lavoro di studio.

Le danze si aprono con la coinvolgente “Diamond In The Rough”, ottima nella sua semplicità hard rock, dalla struttura compatta e convincente. Con “We Stand For Rock ‘n Roll” la band si staziona in una zona di confort, proponendo un brano ruffiano e ammiccante, ma decisamente piacevole e cantabile. Dopo un’intensa e ben riuscita cover di “Lucky Man”, brano degli Emerson Lake e Palmer, troviamo “Skin And Bones”, ruvida e gagliarda, ottima nel suo groove scanzonato e graffiante. La title – track “Return To Eden”, introdotta da un fraseggio di basso, presenta una struttura a incastro molto interessante, una trama perfetta e suadente, che in modo spietato attira l’ascoltatore nelle sue spire. “Wishing Well” è un pezzone canonico, senza grandi picchi di novità, ma comunque d’impatto. Le atmosfere si oscurano con “Never Be”, misteriosa e perturbante, ma non particolarmente frizzante, nonostante un ritornello tosto e spiccatamente metal. “Don’t Make A Fool Out Of Me” percorre nuove strade e disegna nuovi orizzonti rispetto a quanto già ascoltato: tenue, emotiva e pacata, dimostra di essere un ottimo brano lento, immancabile in qualsivoglia album hard rock.

Si torna a pestare con “Broken Universe”, di discreta fattura, che lascia nuovamente il passo alla delicata “Wings Of A Dove”, dal titolo emblematico, un brano molto introspettivo, dalle sonorità incantevoli. Ritmicamente spietata, “Gravy Train” dà l’impressione di essere poco originale, malgrado una carica notevole e globalmente apprezzabile. Lo strumentale “Rockanini” è un virtuosismo tecnico fatto e finito, di chiara ispirazione paganiniana, atto a mettere in mostra le virtù realizzative della band. Passa senza troppi intoppi la variegata e per certi punti sbalorditiva “One Of A Kind”, esotica e folle, che ci indirizza alla conclusiva e agrodolce “Bitter End”, degna fine di questo lungo ma tutto sommato apprezzabile album, eseguito in modo impeccabile da una compagine di tutto rispetto e dalla grande esperienza, un album raffinato e tamarro allo stesso tempo: per tutti i gusti.

Roulette – Now! – Recensione

14 Maggio 2019 40 Commenti Paolo Paganini

genere: AOR
anno: 2019
etichetta: Black Lodge/Sound Pollution Distribution

I Roulette nascono in Svezia nel lontano 1985 e fanno parte di quella (ahimè) nutrita schiera di band che pur potendo contare su alcuni ottimi inediti non riuscì mai a far breccia nel grande pubblico, vuoi perché il periodo d’oro del melodic rock stava ormai volgendo al termine, vuoi perché per loro sventura non arrivò mai l’aggancio giusto. Pur avendo registrato alcuni singoli tra il 1988 e il 1990 che li fecero notare a livello nazionale il gruppo non giunse mai ad incidere un vero e proprio full lenght. Tutto il materiale composto in quegli anni finì su cd soltanto nel 2008 con l’uscita di una sorta di “best of” intitolato Better Late Than Never. Tra il 2013 e il 2018 la band fece di nuovo parlare di se, rilasciando alcuni singoli (poi inseriti nell’attuale Now!) che riaccesero un certo interesse attorno al proprio nome.

Soltanto oggi, grazie all’interessamento dell’illuminata etichetta Black Lodge/Sound Pollution Distribution, il quartetto scandinavo riesce a pubblicare ufficialmente il proprio album di debutto. Un esordio certo un po’ ritardato ma che consegna ai melomani di tutto il mondo un vero e proprio gioiellino. Come definire diversamente questo Now!? Dieci tracce di eccellente fattura racchiuse in un sound che intreccia fraseggi chitarristici in stile Def Leppard a melodie semplici, immediate e maledettamente efficaci. L’ottima performance di Thomas Lundgren dietro al microfono rappresenta poi la ciliegina sulla torta di questo piccolo capolavoro. Never Enough suona la carica trascinandoci dentro quel vortice melodic-rock che ci terrà incollati alle casse fino alla fine. Dello stesso tenore ma forse ancora più coinvolgente risulta la seguente Keep On Dreaming, sulla scia del miglior Bryan Adams di inizio anni ‘90. La granitica Soldiers Of Love dimostra che i Nostri ci sanno fare anche quando il gioco si fa più duro mentre la solare We Can Make It ci catapulta direttamente sulla Route 66, capelli al vento e magari in dolce compagnia. Già così potremmo definire Now! un gran disco… peccato che le cose migliori debbano ancora arrivare! Secret Room è una sognante ballata da ascoltare e riascoltare che grazie ad un coro stellare si stamperà in maniera indelebile nella vostra mente. I precisi e mai invadenti assoli di Magnus Nelin si inseriscono perfettamente nella proposta dei Roulette supportata da una produzione brillante, fresca e moderna. Con lo scorrere dei minuti la qualità non accenna minimamente a diminuire e così diventa estremamente facile viaggiare “con un filo di gas” come nel caso del rock easy listening di Better Day e Turn It Around; due pezzi che dimostrando l’immensa classe di questi quattro (non più) ragazzotti scandinavi. The Only Way e Another Night assestano altri due colpi alle nostre già provate coronarie e se non siete ancora svenuti preparatevi al finale col botto. Right By Your Side rappresenta la quintessenza dell’AOR e a mio avviso il picco più alto dell’intera opera. Un brano in cui i migliori Leppard incontrano The Storm e Foreigner, unendo le proprie forze per produrre un pezzo praticamente PERFETTO!

IN CONCLUSIONE

I Roulette hanno dovuto aspettare più di trent’anni per realizzare quello che è destinato a diventare un nuovo classico dell’AOR e forse il titolo del loro unico disco pubblicato in precedenza non poteva essere più premonitore; Meglio Tardi Che Mai!

Michael Jessen – Bulletproof – Recensione

14 Maggio 2019 1 Commento Paolo Paganini

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2019
etichetta: MelodicRock Records

Dopo il debutto risalente al 2014 con l’album Memories torna in pista il chitarrista danese Michael Jessen, accompagnato nuovamente da Goran Edman dietro al microfono.

Le dieci tracce che compongono il cd si rifanno ad un classico Hard Rock melodico di matrice nordeuropea in cui nessuno spazio è concesso ad originalità o improvvisazione. Si parte con Stand My Ground robusto hard rock che di certo non colpisce per audacia, immediatamente doppiato dalla seguente Coming Home Tonight anch’essa piuttosto scontata e poco coinvolgente. Quando il ritmo cala a livello di ballata le cose sembrano andare un po’meglio ed infatti Too Young To Die, pur non facendoci strappare i capelli, risulta piuttosto interessante. Beautiful Lie dalle tinte epiche mette in mostra un Edman in buono stato di forma mentre Church Of Rock torna a calcare i clichè del genere. Like A Game vorrebbe fare la voce grossa ma ci riesce solo in parte. This Generation e Lost Inside A Dream ripropongono sempre la stessa ricetta senza mai riuscire veramente a decollare. Saltando a piè pari Your Photograph passiamo alla conclusiva September 8, unico momento in cui si ha l’impressione di ascoltare qualcosa di veramente ispirato.

IN CONCLUSIONE

Un disco troppo piatto, privo di quell’acuto che potrebbero salvare almeno in parte un lavoro che di per sè fatica ad arrivare ad una stiracchiata sufficienza. In definitiva o siete veramente appassionati del genere per cui qualsiasi cosa esca sul mercato deve essere vostra o questo disco risulterà assolutamente inutile nella vostra collezione.

Johan Kihlberg’s Impera – Age of Discovery – Recensione

14 Maggio 2019 0 Commenti Max Giorgi

genere: Hard Rock
anno: 2019
etichetta: AOR Heaven

Gentili lettori e lettrici di www.melodicrock.it , quando si parla del batterista svedese Johan Kihlberg, non si può non pensare al suo progetto IMPERA. Dopo tre dischi di buon successo, Johan ha deciso che è giunta l’ora di provare a lavorare ad un progetto solista. Per fare ciò decide di avvalersi del contributo del chitarrista dei Lion’s Share, LARS CHRISS che, oltre ad essere un ottimo musicista, è anche un rinomato produttore e tecnico del suono. Ma non basta, le ambizioni sono alte. Quindi non formano una vera e propria band, ma invitano al progetto tantissimi loro vecchi amici amici (soprattutto cantanti) che quindi danno a questo disco la tipica caratteristica dello Studio Project. Ora potremmo iniziare mille discorsi sugli Studio Project con decine di ospiti: da un certo punto di vista c’è sicuramente un arricchimento dal punto di vista artistico e stilistico. Dall’altra parte però si corre il rischio di perdere il filone narrativo e di pathos che un singer unico può dare. Ma questo lo analizzeremo alla fine. Più che altro mi pongo un importante quesito: visto da come viene presentato questo lavoro (titolo/cover), non è che questo sarà ne più, ne meno che il quarto disco degli Impera senza la line up degli Impera??????? Non ci resta che passare all’ascolto:

un breve preludio sinfonico ci introduce alle note del primo brano “That´s The Way That Life Goes” cantato da Nils Patrik Johansson (Lion’s Share, Astral Doors) che con una prestazione direi notevole, ma forse un po’ sopra le righe, ci fa entrare nel mondo dell’hard rock di matrice prettamente epica. Malgrado non sia lo stile di voce che prediligo l’inizio è piacevole e di gran classe. A seguire troviamo il brano “FEAR” che vede alla voce sempre Johanson, ma questa volta accompagnato da Mick Devine (Seven). L’epicità continua a farla da padrona anche se il cantato di Devine e gli arrangiamenti un po’ più morbidi mi fanno preferire questo brano al primo. Nota dolente: un intermezzo sinfonico di quasi due minuti al centro del brano che trovo troppo prolisso e che fa perder mordente al brano.
Con “Falling” ennesimo cambio alla voce (Michael J. Scott ), riduzione dei beat al minuto e, almeno nella prima parte I suoni si ammorbidiscono, per poi fare spazio all’ennesimo inciso hard ed epico.
Bene, ora possiamo dire che ci troviamo di fronte ad un disco di Epic Hard Rock?
Ehm, se continuiamo con l’ascolto……..direi di no!!!!
Con “The end of the Road” si cambia registro!! Torna Devine alla voce (questa volta da solo) e cambia tutto. La parte epica lascia il posto ad un ottimo brano di melodic hard rock in cui ci sono tutti gli ingredienti (melodia, corì, inciso accattivante) per renderlo uno dei brani più riusciti del disco.
Siamo ormai alla sesta traccia e si cambia ancora!!! “ Just A Conversation”, cantata da Göran Edman (Yngwie Malmsteen, John Norum) è un brano molto AOR (american Style) con struttura del testo ed arrangiamenti che strizzano l’occhio agli inarrivabili Boulevard.
Nigel Bailey è l’interprete di “the right Stuff” in cui si torna all’hard rock in un brano abbastanza anonimo che di positivo ha solo la grande prestazione di Nigel!!
Tocca ora a Michael Sadler (Saga) a deliziarci con “Why Does She Care” brano dal gusto decisamente retrò in cui I vecchi amori musicali di Johan (Abba, Simple Minds, Humane League) si materializzano donandoci sicuramente il miglior brano di questo disco.
“I Am I” (alla voce Mick Devine) si presenta con un intro “a cappella” per poi svilupparsi nel brano più AOR del disco.
“It’s a Revolution” è l’ultimo brano che, con il suo intro stile “The Who”, non ci azzecca molto con il resto degli altri brani. Hard Rock anonimo che la grandissima voce di Baley a stento riesce a rendere poco più che sufficiente.

IN CONCLUSIONE

al termine dell’ascolto posso subito rispondere alla domanda che mi ponevo all’inizio della recensione: questo NON E’ in quarto lavoro degli Impera. Certo, in alcune sonorità ed in alcuni brani li possono ricordare ma niente di più. “Age of Discovery” è un lavoro dalle molte (forse troppe) sfaccettature. Decisamente più debole nelle parti epiche, aumenta in qualità (sicuramente non eccelsa) quando I suoni si ammorbidiscono. Capitolo cantanti: a mio parere troppi e troppo differenti. Tutto questo ha fatto in modo di creare una specie di “fritto misto” senza capo ne coda con un songwriting sicuramente non eccelso. Quindi “Age of Dicovery è un brutto lavoro? Forse no! Nel senso che comunque ci sono quattro o cinque brani che valgono la pena di essere ascoltati e la presenza di Devine e Bailey danno quel tocco in più al disco. Ottima la produzione. Ed allora…….diamogli un ascolto!
Let’s Rock

L.A. Guns – The Devil You Know – recensione

11 Maggio 2019 9 Commenti Stefano Gottardi

genere: Sleaze Rock/Rock'n'Roll
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music

Fra eccessi di ogni tipo, infiniti cambi di musicisti, estemporanei scioglimenti e sdoppiamenti di formazione vari, il 2019 segna l’anno in cui vede la luce il dodicesimo studio album della gloriosa band americana fondata dal chitarrista Tracii Guns nel lontano 1983. Dopo essersi esibiti separatamente per diverso tempo in due distinti gruppi che rispondevano allo stesso nome, Tracii e il cantante Phil Lewis si sono infine rappacificati, dando alle stampe il disco della reunion The Missing Peace nel 2017. Accolto forse con un po’ di scetticismo dalla critica e dai fan più accaniti, il lavoro del combo di Los Angeles ha sorpreso tutti, mantenendo per certi versi intatta l’atmosfera sudata e polverosa degli anni d’oro, pur uscendo sul mercato in un momento storico totalmente differente. Allo stesso tempo la band ha saputo convincere anche dal vivo, dopo qualche anno in cui le due diverse line-up riconducibili al “leggendario monicker” avevano arrancato in più di un’occasione. È ovvio che con queste premesse l’attesa da parte dei fan per il nuovo platter fosse spasmodica e le aspettative elevate. La copertina del CD, su cui campeggia una versione aggiornata del logo, ricalca quella del suo predecessore (a cui, forse per un errore, mancava il titolo stampato). Il booklet, di dodici pagine, contiene i testi ed un collage con le facce dei musicisti, fra i quali rispetto al precedente lavoro manca solamente il chitarrista Michael Grant, licenziato qualche tempo fa. Inserito il supporto fisico nel lettore, alzato il volume a palla e premuto il tasto play, dalle casse dello stereo esce la musica che ci si aspetterebbe di sentire. Chiamatelo sleaze rock, o se preferite dirlo “all’italiana” street rock, di certo gli L.A. Guns sono da considerarsi uno dei padri fondatori di questo stile caratterizzato, fra le altre cose, da un sound sporco e selvaggio, di derivazione punk. È quindi lecito da un gruppo che professa tale credo attendersi un disco dai suoni grezzi e in-your-face, ma questo non può mai giustificare carenze di produzione. The Devil You Know all’ascolto appare molto più come un demo che come un full-length album e questa, per quanto possa essere una scelta, è la caratteristica che ne abbassa irrimediabilmente il gradimento. Ed è un vero peccato, perché canzoni come la veloce e robusta “Rage”, la più quadrata e old-style “Stay Away” e la rock’n’roll oriented “Loaded Bomb” – che compongono il terzetto d’apertura – dimostrano che la premiata ditta anglo-americana Lewis/Guns sa mantenersi fedele alla linea e ha ancora delle cartucce da sparare. Certo qualche calo di intensità alla lunga si registra (e non mancano dei filler), ma questo può anche essere considerato un fattore fisiologico giunti al capitolo dodici della carriera. Quello su cui non si può chiudere un occhio, purtroppo, è la qualità della produzione che inficia pesantemente la resa e di conseguenza il giudizio finale.

IN CONCLUSIONE

Mettendo sul piatto della bilancia pregi e difetti, è impossibile andare oltre ad un sei politico: dopo la buona prova offerta da The Missing Peace, questo The Devil You Know è una mezza delusione…

Alan Parsons – The Secret – Recensione

04 Maggio 2019 9 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Prog Rock / Pop Rock
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music

Alzi la mano chi avrebbe mai pensato che l’italianissima Frontiers Music avrebbe un giorno pubblicato un album in studio di un numero uno della musica internazionale come Alan Parsons (non limitandosi “soltanto” a questo, ma avendolo poi persino come headliner dell’ultima edizione del proprio festival, il Frontiers Rock Festival)!!
Incredibile.
Quindi scusatemi, ma in apertura i miei più sentiti complimenti alla label napoletana sono assolutamente dovuti. Bravissimi!!

Arrivando a parlare della musica, The Secret è il titolo di questo nuovo disco di Parsons, che arriva nei negozi a fine aprile 2019 quasi quindici anni dopo l’ultimo lavoro solista del gigante britannico. E’ un album che, come consuetudine del Maestro, è differente nel sound rispetto ai lavori del Project (mi riferisco ovviamente agli Alan Parsons Project) e più pop oriented, più commerciale e più soft rispetto alla dimensione progressiva e sperimentale del progetto maggiore. E’ un platter che non manca di presentare tantissimi ospiti illustri (li vedremo volta per volta nell’analisi dei brani), una serie di musicisti incredibili, un tasso tecnico irraggiungibile ai più, e che può godere dei migliori suoni di produzione che il mercato possa offrire (di fatto, ci saremmo stupiti del contrario). E’ un album completo sotto tutti gli aspetti, che ha al suo interno tracce più elaborate e ricche di influenze di vario genere, e altre più semplici e lineari, nelle quali sono più che altro gli arrangiamenti e splendide voci ad emergere e brillare come stelle nella notte. E’ un disco, infine, magico, perchè di magia e di illusioni si vuole permeare, come ci dimostra subito la pittoresca, ma elegante, copertina che ne simboleggia e racchiude gli intenti. Ed è da ascoltare, più e più volte, per assaporare al meglio nelle sue più varie sfacettature.

La traccia strumentale d’apertura The Sorcerer’s Apprentice è una rielaborazione in chiave rock della nota sinfonia di Paul Dukas del 1897 (ricordate il film Disney Fantasia?), e vede in veste di ospiti due giganti come Steve Hackett alla chitarra e Vinnie Colaiuta alla batteria. E’ una opener particolare, inattesa, che contrasta in qualche modo con le atmosfere rilassate del pezzo Miracle, cantato da un bravissimo Jason Mraz, che ha tutte le forme di un pezzo AOR anni’80 in chiave westcoast (c’è pure il sax!), colorato da qualche spunto alla Parsons nella arci-nota Eye of the Sky. E’ poi proprio il leader del progetto a interpretare le parti vocali di As Lights Fall, un pezzo leggero e melodico che mi ricorda qualcosa degli Asia, con One Note Symphony che è cantata dalla particolare timbrica retrò di Todd Cooper, per un pezzo molto anni’70, questo sì progressive sinfonico vecchia maniera. Gioiranno poi i fans dell’AOR nel leggere il nome di Lou Gramm dei Foreigner come singer della canzone Sometimes. La sua prova è buona, in un pezzo sicuramente non difficile da interpretare, ma nel quale il cantante riesce a mostrare personalità, sfruttando la sua bella timbrica.

Ad aprire la side B del disco (sì, sto recensendo dal vinile) è Soirée Fantastique, nella quale Todd Cooper e Alan Parsons ci portano con le voci e i suoni in una serata parigina elegante e raffinata, in un gran galà musicale che ha il suo apice nel magnifico assolo del gigantesco Jeff Kollman. Fly To Me lascia spazio alla voce vellutata di Mark Mikel, in un altro pezzo arioso e anni’70, tranquillo, che porta a Requiem, mid-tempo anni’50, maliziosa, ricca di parti di chitarra e di sax bollenti. PJ Olsson, la storica voce degli Alan Parson Project, fa la sua comparsa in Beyond The Years Of Glory e ci colpisce al petto con le energie di un brano romantico, tra i più riusciti del lotto, pinkfloydiano e sognante, molto orchestrato nelle strofe, con un assolo di sax e di chitarra a cinque stelle.

Ci avviciniamo al finale ed ecco Jordan Huffman in The Limelight Fades Away, una canzone a un passo dalla westcoast, dotata di un bellissimo refrain e resa eccellente dalle sue chitarre, con I Can’t Get There From Here (alla voce il bravissimo Jared Mahone) tratta dalla colonna sonora del film 5-25-77 che cala il sipario con i suoni delicatissimi di una bellissima power ballad. Rimane subito impressa nella mente, ed è un’altra grande hit di questo bel ritorno discografico!

IN CONCLUSIONE

Senza fare ingiusti paragoni con il passato (che è stato certamente qualitativamente più ricercato e complesso, ma anche le leggende hanno il sacrosanto diritto di invecchiare, no?!), questo The Secret è un gran bel prodotto discografico, che sfodera undici canzoni d’elite e di altissima qualità, che sono più soffici, delicate, apparentemente semplici di quelle che il Maestro ha composto nei suoi episodi più illustri.

Il disco necessita di più ascolti per essere non solo apprezzato, ma capito. Non limitatevi a una riproduzione di sottofondo, alzate un pizzico il volume e assaporatene le voci e le parti strumentali. E’ un consiglio!

Hardline – Life – Recensione

01 Maggio 2019 34 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Melodic Rock
anno: 2019
etichetta: Frontiers Music

Con l’ingresso in pianta stabile nel gruppo del nostro connazionale Mario Percudani, gli Hardline dell’iconico cantante Johnny Gioeli riescono a inserire l’ultimo tassello mancante al loro rinnovato puzzle musicale, che necessariamente voleva un chitarrista a 360°, in grado di fornire alla band sia riff corposi e hard rock, che ottimi fraseggi melodici, oltre che delziosi assoli tecnici e musicali. Non c’è Josh Ramos che tenga, e voi malati di esterofilia dovete farvene una ragione: gli Hardline hanno ora il top che il mercato potesse loro riservare.

Life è il nuovo album di una band sempre più statunitense-italiana, visto che ai già presenti Alessandro Del Vecchio (in veste di tastierista, compositore e produttore) e Anna Portalupi (basso) si aggiunge ora anche il dinamitardo Marco Di Salvia alla batteria, per un prodotto che prosegue quanto di ottimo messo in mostra dal suo predecessore, concentrandosi questa volta su temi meno umanitari, ma più intimi e umani come quelli della vita di tutti noi. Le liriche sono motivazionali, il mood generale dell’opera sempre riflessivo, ma positivo. Gioeli interpreta i brani con la solita forza esecutiva e comunicativa, venendo aiutato da musicisti sempre in grado di riservargli basi musicali potenti, melodiche ma decise, da qualche disco un po’ più vicine all’hard rock che agli standard tipici del rock melodico. Ma non per questo, meno raffinate o godibili all’orecchio..

Place To Call Home, opener del disco, si mette proprio in mostra per la sua capacità di riprendere alcune sonorità che avevano reso celebre l’album di debutto del gruppo (Double Eclipse, 1992) in chiave più hard rock, con succulente parti soliste di Percudani a supportare l’infinita gittata vocale del singer americano. Successivamente, la coralità di Take A Chance e la sua grande musicalità rendono questo pezzo uno dei più invitanti del lotto, con Helio’s Sun che non cala di una virgola le energie, fuggendo via rapida e compatta, carica di groove e avanzante nelle ritmiche come una monoposto lanciata a tutta velocità lungo un circuito cittadino.

Si cambia poi atmosfera con la ballad Page Of Your Life, che affianca Gioeli a Del Vecchio in un piano-voce iniziale di grande intensità, capace di esplodere poi di energia in un refrain tra i più belli e motivazionali della carriera post anni duemila del gruppo. Segue una nuova accellerata hard rock melodica con Out Of Time, mentre Hold On To Right ha analoga forza fino alla seconda ripetizione del suo ottimo ritornello: da li segue un bellissimo rallentamento che trova la voce di Gioeli accompagnata dalla chitarra delicata di Percudani, con Del Vecchio a dare sfondo con le sue tastiere. Da brividi!

La bella Handful Of Sun apre una side B del disco che è subito impreziosita da un’altra bella ballad a titolo This Love, che ha in Gioeli alla voce e Percudani alla chitarra i veri protagonisti. Tocca invece nuovamente al chitarrista e a Del Vecchio salire sugli scudi nella rockeggiante e più classica Story Of My Life, altra traccia di certo spessore che anticipa l’unica cover presente sul disco, ovvero Who Wants To Live Forever dei Queen. Johnny tributa qui la leggenda Freddie Mercury: senza nulla togliere all’americano, il paragone resta indubbiamente a favore del britannico, ma il risultato finale porta comunque a una cover di altissima qualità, che mette bene in mostra tutte le doti vocali di Gioeli. Non imprescindibile, ma interessante.

Infine, Chamaleon è un altro bel motivo rock e carico del groove della chitarra di un Percudani ancora sugfli scudi, e del basso della Portalupi affiancato al martellante ritmo di Di Salvia. Cala il sipario l’ultimo lento My Friend, traccia intima, inno dell’amicizia vera e indissolubile, che non manca di colpire in musica con le sue belle emozioni.

IN CONCLUSIONE

Dominato dalla eccellente voce di Gioeli e dalla chitarra camaleontica e sempre presente di Percudani, Life è un nuovo tassello importante della discografica degli Hardline.

L’ottima produzione di Del Vecchio, e il suo contributo compositivo unito alla sua capacità di assumere in qualche modo il ruolo di direttore d’orchestra del gruppo assieme al cantante americano, hanno portato alla stesura di un disco maiuscolo sotto tutti gli aspetti. Da gustare ascolto dopo ascolto.