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Kickin’ Valentina – Star Spangled Fist Fight – Recensione

18 Giugno 2024 0 Commenti Francesco Donato

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Mighty Music

Giungono alla loro quarta prova in studio i Kickin’ Valentina, band nata nel 2013 in quel di Atlanta.
Il quartetto è composto da D.K. Revelle alla voce (noto per i suoi trascorsi nei mitici Jetboy, nei Beautifully Demolished e nei Beggars Ball) da Chris Taylor al basso, Heber Pampillon alla chitarra e Jimmy Berdine alla batteria.
Quello dei Kickin’ Valentina è un onesto, sanguigno e schietto sleaze rock n’roll, attitudine che trova conferma in questo “Star Spangled Fist Fight”, album che scivola piacevolmente via fumoso e irriverente.
Tutte le songs che compongo l’album sono ricche di ottimi riffs e cori, sorretti da una sezione ritmica senza fronzoli che tira dritto badando esclusivamente al sodo.
E proprio la sporca graniticità del sound a rendere appetibile e seducente l’offerta dei Kickin’ Valentina.
Ad aprire le danze è la trascinante “Getting Off” sostenuta da un prezioso lavoro di chitarra e dalla voce a tratti rauca di D.K. Revelle.
Segue “Dirty Rhythm” un altro pezzo da acchiappo facile con la voce alla Lemmy di D.K. Revelle ad inchiodare un fumoso ritornello nella nostra testa.
Si prosegue con la furente e selvaggia “Fireback” vero e proprio manifesto street metal che dal vivo alzerà sicuramente l’asticella dello spettacolo della band.
E’ il turno dell’ottima e orecchiabile “Man on a mission”: Fasterpussycattiana e ruffiana, si rivela una delle mie tracce preferite dell’album.
“Turn Me Loose” con i suoi coretti “woah woah” e la più incisiva “Died Laughting” anticipano il singolo apripista dell’album “Takin A Ride”, pezzo che a tratti ricorda i migliori L.A. Guns di Cocked & Loaded.
Un campanaccio che batte quattro introduce il rabbioso rock n’ roll di Amsterdam.
A chiudere il disco ci pensano il secondo singolo “Ride or Die” e la titletrack, altra prova a cavallo tra primi KISS e L.A. Guns.
In sintesi “Star Spangled Fist Fight” è un album solido messo in piedi da gente che mastica sleaze rock e ha voglia di farvi divertire senza star dietro a chissà quali artifici.
Semplici nella composizione e cazzuti nel sound i Kickin’ Valentina si confermano una delle più interessanti proposte in campo sleaze metal degli ultimi anni.

Black Country Communion – V – Recensione

18 Giugno 2024 1 Commento Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Mascott

Attesissima uscita per i Black Country Communion, supergruppo formato da quattro titani dell’hard rock del calibro di Glenn Hughes, Joe Bonamassa, Derek Sherinian e Jason Bonham, al loro quinto album di studio.

La traccia iniziale “Enlighten” è carica e poderosa, spacca subito il ghiaccio con l’ascoltatore, mettendo subito in mostra un’estrema sintonia e una capacità esecutiva indiscutibile. “Stay Free” è un pezzone gagliardo e divertente, piacevolissimo all’ascolto, dalle trame interessantissime. Raggianti e superbi, i BCC ci regalano “Red Sun”, grande brano, tosto, quadrato, dalla pasta musicale densissima e dai suoni molto coinvolgenti. “Restless” è un tripudio di Bonamassa: dall’inizio alla fine il buon vecchio Joe trasuda blues d’eccezione, senza risparmiarsi, e va a comporre un piccolo grande capolavoro. Si torna a macinare hard rock sulle note di “Letting Go”, non particolarmente originale, ma dal grandissimo impatto emozionale. “Skyway” fa risaltare la perfetta unione delle varie componenti strumentali, sempre ben dosate ed equilibrate, così come la tirata “You’re Not Alone”, micidiale nella cadenza e dalla dinamica possente. “Love And Faith” ci rimanda alla memoria tutta la storia dell’hard rock, con richiami ai Deep Purple ed epigoni. Complessivamente “V” è un disco che dà la carica, fatto ribadito dalla scanzonata e ritmata “Too Far Gone”, fresca e frizzante. Ultimo atto riservato a “The Open Road”, bluesettone senza grandi pretese ma dalla magnifica resa, che mette la parola fine ad un lavoro dall’esecuzione perfetta, ispirato sia in fase musicale che testuale, spontaneo, caldo e arioso: un ottimo ascolto in vista dell’estate!

New Horizon – Conquerors – Recensione

17 Giugno 2024 2 Commenti Paolo Paganini

genere: Power metal
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Nuovo capitolo per il side project capitanato da Jona Tee (H.E.A.T.) che vede Eric Gronwall lasciare il posto dietro al microfono a Nils Molin (Dynazty, Amaranthe). Una serie di ospiti e musicisti vanno a impreziosire di volta in volta i dieci brani che compongono questo album basato sulla narrazione di personaggi ed episodi biblici, epici e storici. Il power metal più classico fa ovviamente la parte del padrone come nell’opener Against The Odds dove si fanno strada un’ immancabile doppia cassa incalzante, assoli velocissimi e taglienti come rasoi sulle quali la voce di Nils si trova perfettamente a proprio agio. La biblica King Of Kings procede spedita mentre l’evocativa Daimyo ci porta nel Giappone dell’epoca feudale. L’oscura Shadow Warrior fa da apripista a una delle migliori song dell’album; quell’Apollo che narra della corsa alla conquista dello spazio durante la guerra fredda tra Russi e Americani ed il ritornello in pieno stile AOR ne fa uno dei vertici del disco. L’oscura e tenebrosa Fallout War lascia spazio ad un power metal puro che nulla ha da invidiare ai classici del genere. Messanger Of The Stars è l’ultimo pezzo tirato in attesa nelle splendida ballata Before The Dawn che vede Elize Ryd (Amaranthe, Kamelot) formare al fianco di Nils una coppia perfetta. Edge Of Insanity racchiude in se tutto lo stile dei New Horizon risultando al contempo melodica, epica e dinamica. La cover Alexander The Great degli Iron Maiden tratta dall’album Somewhere In Time del 1986 posta in chiusura rappresenta un tributo a una delle band simbolo di tutti i temi del metal più epico a livello planetario.

IN CONCLUSIONE:

Il lavoro è indubbiamente ben confezionato, per niente monotono e pieno di spunti estremamente interessanti che potrebbero stuzzicare anche l’interesse dei melomani più intransigenti che seguono da sempre il nostro sito e che si potrebbero trovare spiazzati nel vedere questo titolo apparire nelle recensioni degli album in uscita. Consiglio: dategli un ascolto prima di accantonarlo; potrebbe regalarvi molte gradite sorprese.

 

Atlantis Drive – Atlantis Drive – Recensione

14 Giugno 2024 3 Commenti Alberto Rozza

genere: hard rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

In uscita l’album d’esordio degli Atlantis Drive, super gruppo tedesco nato dalla mente di Markus Pfeffer, che vuole riportare alla luce il sound dell’hard rock anni ‘80: insieme lui, grandi protagonisti della scena europea.

Partiamo con “Way Back When”, corale e potente, un ottimo rompighiaccio che permette all’ascoltatore di immergersi immediatamente nel mondo Atlantis Drive. La successiva “Medusa Smile” trascina con un mood molto interessante, dalla cadenza gradevole e tutto sommato pregevole. “Living For The Moment” risulta essere molto ben incasellato nell’hard rock anni ‘80, con ampi tratti che richiamano i grandi interpreti del genere. Arriviamo al lento tradizionale e canonico: “Brand New Star” addolcisce l’atmosfera e va a sommarsi alla miriade di esempi di ballata hard rock. “United” pesta e corre, con una ritmica e una dinamica ben strutturate, piacevolissima in tutte le sue sfaccettature, così come la successiva “Curtains Falls”, intensa e titanica, dai fraseggi strumentali intensi e ben cesellati. “Faith” dà la carica, creando una buonissima e positivissima atmosfera, dovuto alla trama musicale molto aperta e solare. La successiva “Time” non presenta grandi spunti innovativi, risultando un po’ piatta, al contrario di “Farewell To A Friend”, decisa, calda e dal grande impatto emotivo. Chiudiamo la recensione con “Heroes”, pezzone lungo e complesso, intenso e dal grandissimo trasporto, degna conclusione per una buonissima opera prima, a tratti non propriamente originale, ma dal grandissimo valore musicale e vocale, che può essere apprezzato da una vasta gamma di ascoltatori.

Human Zoo – Echoes Beyond – Recensione

13 Giugno 2024 0 Commenti Yuri Picasso

genere: hard rock
anno: 2024
etichetta: Fastball Music

Tra Noi superstiti (Die Hard Fans) esisteranno sempre due fazioni: chi approva le variazioni stilistiche che sconfinano nell’utilizzo di strumenti meno attinenti alla materia (almeno in campo Hard’nHeavy), e chi le ripudia, o mal digerisce, rimanendo fedele a un approccio tradizionale al rock; nello specifico parliamo del Sassofono, strumento tanto amato da taluni quanto odiato dai restanti. Nel bene o nel male non lascerà mai l’ascoltatore con un senso di apatia.
Se sono qui a parlarvi del rientro sulle scene dei teutonici Human Zoo, da Balingen, superfluo aggiungere che appartengo alla prima schiera, affascinato, privo o quasi di confini stilistici di sorta; dal 2016, anno d’uscita di ‘My Own God’ non pervenivano notizie del sestetto, almeno in studio, qui oggi presente nella medesima line-up con un solo cambio, dietro le pelli. Matthias Amann al posto di Kevin Klimesch.
Il singolo apripista “Gun 4 a While” richiama il discorso laddove interrotto, con il classico sound teutonico, granitico, circolare, ben composto e riuscito.
“In My Dreams” è un mid tempo che alterna linee vocali easy listening a riff rocciosi. Lavoro di chitarra Hard similare nella successiva “To The Ground”, dalla linea vocale maggiormente ricercata e sing-a-long sul chorus.
“Daddy You’re a Star”, gode di un riuscito incrocio solista tra sax e chitarra ai fini di incrementare il pathos emotivo del brano.
Abbiamo una flessione verso il basso con la doppietta “Hello! Hello!” ed “Echo”, fillers, nulla più.
Meglio “Heartache” caratterizzata da un ritornello ripetuto a profusione con i soliti inserti dello strumento aerofono dall’ottima fattura.
“Forget About The Past”, sognante e positiva è una semi-ballad dall’arrangiamento profondamente delicato.
Lungo l’airplay possiamo apprezzare l’abilità della sezione ritmica la quale per mano di variazioni di dinamica offre assist agli inserti solisti di sax e chitarra, finalizzati tramite una buona ispirazione melodica, creando talvolta l’effetto di canzone nella canzone.

Otto anni di attesa non sono pochi e la sensazione che permane dopo più ascolti è quella di un songwriting che gode di cartucce che raggiungono l’apice nei ricami dello strumento a fiato e della sei corde. In termini di canzone, non andiamo oltre un più che sufficiente; mancano un paio di killer songs, astanti in dischi quali ‘Over The Horizon’ (2007) e ‘Eyes Of The Stranger’ (2011) che consiglio a tutti voi di rispolverare.

Nestor – Teenage Rebel – Recensione

12 Giugno 2024 20 Commenti Denis Abello

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Napalm Records

Signori, tre cose mettono subito in chiaro i Nestor con questo album:

1) i Nestor son qui per restare e sanno perfettamente cosa stanno facendo (e lo fanno dannatamente bene)
2) hanno un chitarrista con i controca@@i (che per anni devono aver tenuto chiuso in naftalina… se no non si spiega la cosa)
3) se non vi son piaciuti con il primo disco… non vi piaceranno neanche con questo (ma non è un problema mio, perché a me i Nestor piacciono… eccome se piacciono)

Chiariti questi tre punti fondamentali diventerebbe quasi superfluo continuare con una perfetta disanima di questo Teenage Rebel a firma Nestor perché, come avrete ben capito dall’intro di questa recensione, i Nestor han fatto per il sottoscritto nuovamente centro.
Non cambiano di una virgola la proposta musicale e come in un perfetto continuo con il precedente Kids in a Ghost Town (qui la nostra recensione) la band Svedese sforna un album con pezzi ultra ruffianacci che pescano con stile e gusto dal miglior passato del nostro amato AOR / Melodic Rock, inoltre chiariscono il valore eccelso dei musicisti coinvolti (e lo ripeto… con un plauso particolare al chitarrista Jonny Wemmenstedt) e continueranno a far innamorare chi già li ha amati nel primo lavoro.

Una produzione curatissima e la voce dell’attrice svedese Freya Miller nell’intro The Law Of Jante ci lanciano verso la vera linea di start che si trova sulle note sostenute e incredibilmente AOR primi anni ’80 di We Come Alive. Teenage Rebel è più complessa di quanto potrebbe sembrare ad un primo ascolto con fantastiche chitarre che richiamano alcune cose del Brian Adams del passato.
Last To Know è una semiballad che regala un amplesso di puro godimento tra Def Leppard e Journey, una delle mie preferite!
Victorius pesca dal pozzo senza fondo dei Survivor, mentre Caroline mette in cattedra una lezione su come si confeziona un perfetto ritornello AOR. Di maniera, forse in qualche modo conservatori, ma sicuramente due brani riusciti, non a caso sono stati scelti come singoli. La prima ballata, The One That Got Away, richiama ancora una volta a lenti di matrice Survivor mischiandolo al lato rock/pop tipico delle sonorità di casa Michael Bolton. Uno splendido ed intenso brano. Addicted to your love con quel giro chitarra, tastiera non può non riportare alla mente i Bon Jovi “golden era” mentre 21 detta il tempo con frenesia e velocità ma scorre senza infamia e senza lode. Unchain My Heart gioca su voce, chitarra e tastiere nel più classico stile AOR portando a segno il colpo vincente sul prechorus, affascinante! Si chiude così con la semplicità del piano e la delicatezza di un brano molto personale come Daughter con un testo che “da padre di una bimba” non può lasciare indifferenti.

Altro giro, altro centro e altra medaglia portata a casa. Tutto funziona in questa band, dalla voce di Tobias Gustavsson passando per il livello della parte strumentale, per l produzione cristallina e per i brani in grado praticamente sempre di arrivare a segno per chi ama queste sonorità!

Issa – Another World – Recensione

06 Giugno 2024 5 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

A distanza di un solo anno dal precedente Light Of Japan esce il nuovo disco della bella cantante norvegese ormai diventata una vero e proprio punto di riferimento per quanto riguarda l’AOR al femminile degli ultimo 15 anni. Anche per questo lavoro la Øversveen si avvale della collaborazione del marito James Martin e del cognato Tom Martin (Vega, Nitrate). Non vi sarà difficile infatti trovare numerosi riferimenti a queste band nei suoni e nelle composizioni di questo nuovo Another World. L’opener Armed And Dangerous detta subito le coordinate su cui si snoderà l’intero cd: suoni tipicamente anni 80, melodie facilmente assimilabili e memorizzabili e una voce precisa e potente. Nella seguente solare e spensierata All The Wild Nights emergono evidenti riferimenti ai Nitrate di All The Right Moves mentre Only In The Dark è una ballata intima come non avevamo mai sentito nei precedenti album. Never Sleep Alone non è certo tra gli episodi più azzeccati; meglio skippare e passare alla più facile The Road To Victory che rientra perfettamente nei canoni di Issa. Le quotazioni tornano a calare pericolosamente con la poco convincente title track mentre una ventata di aria fresca ci arriva grazie all’armoniosa Kick Of Fire, alla ritmata Got A Hold On Me e all’eterea power ballad A Second Life. I due brani posti in chiusura scivolano via senza grandi scossoni concludendo un lavoro tutto sommato piacevole che non tradisce le aspettative nonostante qualche calo qua e la che però non inficia particolarmente sul giudizio finale.

 

Black Diamonds – Destination Paradise – Recensione

06 Giugno 2024 2 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Metalpolis

Dopo il successo di No-Tell Hotel, che nella loro patria (Svizzera) ha raggiunto la terza posizione in classifica, tornano i Black Diamonds! Nuovo album ufficiale per la band che arriva quindi portando con ser il fardello del compito di bissare il successo e il valore del precedente lavoro.
Compito non facile ma che la band elvetica porta a casa con discreta semplicità e marcando così ulteriormente l’effettivo valore di questo quartetto dedito al più classico degli hard rock melodici di matrice USA.

Bella band che conosce la materia con l’ottima voce di Mich Kehl a fronteggiare la prima linea del palco con a coprirgli le spalle la buona chitarra di Chris Blade Johnson e una sezione ritmica d’impatto, come il genere richiede, formata da Andi Barrels al basso e Manu Peng alla batteria!

L’album è un continuo scorrere preciso di pezzi che prendono il via dalla tuoneggiante Through Hell And Back che da fuoco alle polveri con fare preciso, diretto e calibrato. Sul piatto un bell’hard rock melodico e preciso che farà la gioia degli amanti del genere. After The Rain, anche scelto come uno dei singoli di lancio di questo lavoro, è nettamente infettiva e piacevole per i nostri padiglioni auricolari.
Da notare nello scorrere dell’ascolto la riuscita Bottoms Up in cui le redini vocali sono cedute al chitarrista Andi Barrels per una hair metal song d’annata! Immancabile e delicata la ballad di turno che prende il titolo di Only For a While. Riuscita nel ritornello (perfetto da cantare nei live) e con un giro di chitarra preciso e chirurgico ci si porta a casa il risultato anche sulle note di Valley Of The Broken Hearted.
Un po’ troppo scontata e facilona Rock N’ Roll is my Religion che si salva sulle note pestate di batteria! Si va meglio con la successiva Nothing’s Gonna Keep Me From You e si torna a volare alla giusta quota con From The Ashes. Note catchy pop/rock per Leave A Light On, cover del brano di Belinda Carslile, con la partecipazione di David Balfour (Maverick) alla voce.
In chiusura la riuscitissima, e una delle mie preferite del lotto proposto, Paradise e si arriva sul finale con la spettacolare “rock” cover del brano (poco conosciuto in realtà) Run With Us inciso inizialmente da Lisa Lougheed come colonna sonora di una serie tv.

Un album questo Destination Paradise che non fa che confermare quanto di buono i Black Diamonds avevano già fatto vedere con il precedente lavoro. Per chi ama le sonorità hard rock dal tratto più rotondo e melodico qui si va a nozze!

Anims – Good ‘N’ Evil – Recensione

05 Giugno 2024 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard & Heavy
anno: 2024
etichetta: Sneakout Records

 

Capitolo secondo per gli Anims, band non certo di pivelli, ma un altro progetto davvero valido per Francesco Di Nicola, ex chitarrista di Danger Zone e Crying Steel, coadiuvato dal fido Paolo Caridi alla batteria, con lui già nei Krell di Luca Bonzagni (“qui  la recensione di “Deserts“) e negli Ellefson/Soto e dalla brava Elle Noir, che già aveva cantato sul debutto del 2022; indubbiamente qui il buon Francesco è più coinvolto, sia a livello di songwriting, che a livello di produzione, affidata a lui stesso e a Chiara Mencarelli, la quale si occupa principalmente della stesura dei testi, inoltre, la registrazione di “Good’n’evil” è stata effettuata ai Pri Studios da Roberto Priori, amico di lunga data di Francesco, nonché chitarrista fondatore dei Danger Zone e suo compagno d’asce nell’ep di debutto “Victim of time” del 1984.

C’è da dire che il disco non rappresenta niente di nuovo, ma è fatto maledettamente bene e per me, che cerco sempre qualcosa di “innovativo”, anche se è una chimera oramai, va bene così ed è il primo, grande punto a favore per gli Anims, con i quali ho avuto il mio primo approccio proprio per questa recensione, non avendo, mea culpa, mai ascoltato il disco di debutto, per cui mi addentro nel loro mondo con la mente sgombra da aspettative, lasciandomi trasportare in mood hard’n’heavy, un po’ scanzonato e un po’ serio, così com’è “Good’n’evil”, che già dal titolo fa capire che l’argomento trattato è abbastanza importante, ossia, e qui riporto pedissequamente quello scritto nella release info: ‘il denominatore comune è il contrasto tra il bene e il male e l’elevazione alla vittoria del primo sul secondo. I riferimenti biblici sono frequenti e si ripresenta la riflessione su un luogo di incontro tra uomo e uomo e tra uomo e Dio’.

Detto questo, le canzoni che compongono il secondo capitolo a nome Anims scorrono davvero bene, tra riff interessanti come quello intrigante della ritmata apertura ‘The cherubims’ e tempi trascinanti, come quello del susseguente, coinvolgente hard rock di ‘Fear of the night’, ma la prima sorpresa arriva con ‘Where were you’, con quel suo sentore di anni novanta, chiarisco prima che i talebani rimasti agli anni ottanta mi aggrediscano a male parole, è un sensazione che mi arriva ascoltando la melodia trainante, non c’è nessun riferimento alternative, piuttosto una rivisitazione personale dei Crimson Glory del sottovalutato “Strange and beautiful” e si ritorna a bomba su territori hard’n’heavy con l’up tempo di ‘Satellite’, un turbine ritmato dove Elle la fa da padrona, non che prima l’ottima frontwoman non lo abbia fatto, ma qui si esprime su livelli davvero eccelsi, ‘Leviathan’ sfiora l’epic metal, anche se a mio parere un brano di tale portata avrebbe potuto durare almeno un paio di minuti in più ed invece si interrompe improvvisamente , quasi come se fosse stato tagliato, il coro polifonico di ‘Dry bones’ apre in modo soffuso un brano che poi si districa su territori hard coinvolgenti, quindi lo spirito del Dio solista si impossessa degli Anims, cosicchè ‘Liar’ sembra un’outtake da “Sacred heart”, con il suo metal tout court di stampo melodico ed epico al tempo stesso, mentre ‘Lena’ ritorna in quei territori obliqui dei primi anni novanta, dove la melodia, sia vocale che chitarristica, si arrampicava in territori simil zeppeliniani, tutt’e due queste canzoni hanno però lo stesso “problema” di ‘Leviathan’, ossia si interrompono sul più bello, lasciando una sensazione di incompiuto che credo proprio non sia voluta dalla band, quindi mi chiedo, perché? La già citata title track dell’ep d’esordio dei Danger Zone si abbatte poi su di noi a colpi di speed metal, con una carica rinnovata e assolutamente non sminuita dalla riregistrazione , chiudono ‘Nebuchadnezzar’ con il suo riffone hard trainante e la title track, che a dispetto della sua apertura con tanto di arpeggione oscuro, si evolve in un metal orecchiabile e anche in questo caso il brano  avrebbe potuto essere un filino più allungato.

Se non consideriamo quei piccoli intoppi riguardanti la brevità di alcune canzoni, il secondo album degli Anims è consigliatissimo per tutti quelli che amano l’hard’n’heavy non pedissequamente omaggiante, o perlomeno non solo, gli anni ottanta, anzi azzardo dicendo che “Good’n’evil” è un album piacevolmente trasversale che potrebbe mettere d’accordo due mondi apparentemente diversi, anche se non troppo lontani, suddivisi nelle due ultime decadi del secolo scorso, la matrice classica è preponderante, ma il tentativo, ben riuscito a mio parere, di arricchire il sound con parti non scopiazzate dai grandi ottantiani, è indubbiamente da tenere in considerazione, infine, mi sembra giusto tributare il grande lavoro di Francesco, che ha messo tutto in questo disco e lo si sente in ogni riff, alcuni sono davvero spettacolari, e in ogni assolo, d’altronde la carriera è lì a dimostrare il suo valore assoluto, inoltre anche la prestazione di Elle, non la solita trita e ritrita belloccia cantante sinfonica, davvero una gran voce che si adatta benissimo allo spirito dei pezzi e non è una cosa da tutte!

Barock Project – Time Voyager – Recensione

04 Giugno 2024 4 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog. Rock/metal
anno: 2024
etichetta: Autoproduzione

Amanti del progressive a tutto tondo godete, perché questo è il miglior disco del genere che ascolterete quest’anno ( e non solo)!

Se chiudessi la recensione qui avrei già detto abbastanza e chi mi legge dovrebbe sapere che non sparo frasi ad effetto a casaccio. Per contestualizzare però la mia affermazione e il mega voto mi dilungherò volentieri in spiegazioni e divagazioni.

Prima di tutto un po’ di storia. Cito direttamente dalla loro bio: “I Barock Project nascono sul finire del 2003 con l’intento di racchiudere la musica classica e sinfonica con il rock ed il jazz.” Già da questa piccola introduzione si capisce l’ambizione ed il respiro del progetto ed il mastermind del gruppo, Luca Zabbini, ha di certo la visione e le capacità per realizzare tutto ciò (d’altronde se lo chiamano il Keith Emerson italiano, ci sarà un perché). Circondato da giovani musicisti di talento, nel 2016 si unisce alla band in qualità di vocalist il talentuoso Alex Mari (di cui abbiamo parlato nella recensione dei Night Pleasure Hotel), che a mio parere esprime un cantato veramente splendido completando così l’assoluta qualità del gruppo.

Veniamo al disco. Lo svolgimento del concept mi porta alla mente  le atmosfere di Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory, mentre i vari brani attingono a tutto ciò che il progressive ha sfornato in queste decadi, il tutto personalizzato e miscelato alla perfezione. Convivono infatti tocchi di Jethro Tull, parti più dure vicine al metal mischiate ad atmosfere folk, mentre pennellate dei Queen più “Rapsodiane” colorano l’opera in più punti. Queste sono solo le influenze più evidenti, ma nelle canzoni c’è molto di più e non è difficile riscontrare richiami anche alla scena prog. made in italy, ma lascerò volentieri agli ascoltatori scoprire tutte le mutevoli nuances musicali presenti, tutto ciò che ho scritto finora deve solo servire per dare una cornice generale. Inutile dirvi che il disco è suonato in maniera divina in tutte le sue parti e come detto, Alex Mari sforna un cantato che mi sembra un mix tra il James LaBrie più in forma e Steve Murray (The Quest) donando così una delicatezza ed una espressività unica.

In sintesi, si nota che il genio musicale di Luca Zabbini riesce a spaziare in tutti gli ambiti: dalla composizione agli arrangiamenti fino ad arrivare alla produzione, segno di una mente sopraffina e musicalmente superiore e dispiace solo che un opera del genere, se provenisse da altri paesi, avrebbe sicuramente un eco ed una stampa infinitamente superiore e magari degna di musicisti di questo calibro.

Ascoltatevi dunque le canzoni che ho allegato alla recensione, anzi ancora meglio, comprate direttamente il cd ed ascoltatelo nella sua interezza per gustarvi appieno questo viaggio sonoro, perché, come ho detto all’inizio, difficilmente ascolterete di meglio.