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Myrath – Karma – Recensione

26 Luglio 2024 5 Commenti Samuele Mannini

genere: Symphonic Melodic Metal
anno: 2024
etichetta: Ear Music

La mia recensione arriva con un po’ di ritardo, ma come si dice, meglio tardi che mai, soprattutto dopo un anno così intricato che ha rallentato il mio fruire di musica. Sono un critico puntiglioso, e senza ascoltare sul mio fedele impianto audio, scrivere diventa per me un’impresa ardua. Ma ora, con il CD finalmente tra le mani, sono entusiasta all’idea di condividere le mie riflessioni su questo Karma.

Giungendo alla recensione buon ultimo , ho notato che altri hanno storto il naso su questo album, assegnando voti che mi hanno fatto alzare un po’ il sopracciglio. È la solita storia: ogni volta che una band osa cambiare, ecco che si scatena il dibattito tra i nostalgici del ‘una volta era meglio’ e gli entusiasti del ‘adesso è il top’. Io dico: ascoltiamo di più e critichiamo di meno, altrimenti rischiamo di farci sfuggire qualche perla musicale in mezzo a queste battaglie di opinione.

Messo da parte il sermone, vi confesso che questo disco mi ha colpito, e non poco. Il sound si avvicina molto ai Kamelot, inevitabile data la vocalità di Zorgati. Di progressive c’è giusto un pizzico, qualche cambio di ritmo e aperture sparse; per il resto, ci troviamo di fronte a un metal sinfonico genuino, arricchito da una fresca ventata di rock melodico negli arrangiamenti e nei ritornelli. Molti hanno rimpianto l’elemento etnico dei precedenti lavori, ma a mio avviso, anche riascoltando i vecchi brani, l’influenza orientale c’è ed è tangibile, seppur in forma più stilizzata e funzionale, al servizio della canzone piuttosto che protagonista assoluta.

Alla fine dei salmi, quello che conta è che le canzoni funzionano alla grande ed il trittico apripista, To the Stars, Into the Light e Candles Cry, è un mix esemplare di epicità ed esotismo, con ritornelli coinvolgenti e melodie che brillano di luce propria. Con Let It go si esplorano invece territori più vicini al melodic rock con atmosferiche anthemiche che ben conosciamo su queste pagine. Le sorprese e gli esperimenti sonori continuano con Words Are Failing, dove la struttura moderna della canzone, che in certi punti mi ricorda molto i Taboo recensiti lo scorso anno, viene sorretta da un tappeto orientaleggiante ed innesti epici. Dopo un intro che richiama il prog The Wheel of Time si svolge abbastanza anonima, ma il pathos si rialza subito con l’oriental melodic rock di Temple Walls, dove mi pare di udire qualche richiamo ai Symphony x, così tanto per gradire. Child of Prophecy, The Empire, Heroes e  Carry On portano alla conclusione il disco oscillando tra Kamelot, rock melodico con tocchi di modernità ed inserti orientali in continuità con i brani precedenti, pur non raggiungendone le vette creative.

Secondo me i Tunisini Myrath, pur avendo virato su un ambito più ‘mainstream’, sono riusciti a restare ben riconoscibili e soprattutto a sfornare un lotto di canzoni belle e coinvolgenti, allargando il possibile bacino di utenza dei potenziali ascoltatori; sono abbastanza sicuro che i nostri lettori potrebbero gradire e mi sento dunque di consigliane l’ascolto e l’acquisto. Per me già in top ten dell’anno.

 

 

Atlantic – Another World – Recensione

24 Luglio 2024 3 Commenti Giulio Burato

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Escape

Prendo subito spunto dal titolo del nuovo album degli Atlantic, per dire che era sì, di “un altro mondo”, ma soprattutto di un’altra epoca, il primo, immenso album, intitolato “Power”, della band di Simon Harrison, unico componente rimasto in formazione dal 1994.
Cosa aspettarsi da questa band, trent’anni dopo e rivoluzionata nei componenti?
All’apparire della notizia, sicuramente una grande curiosità e il desiderio di capire se la classe che trasudava in “Power” è rimasta nel 2024.
Dopo diversi ascolti posso, a mia personale opinione, dire di sì, quella classe aleggia ancora divinamente nelle note del nuovo album.
Rimango subito spiazzato dalla sapienza e perizia compositiva dei pezzi. Canzoni come “Ready Or Not”, “Without love”, “Nothing More I Can Say e “If This Is Goodbye” sono degli esempi eclatanti di come si possano fare grandi canzoni A.O.R. al giorno di oggi.
Un piccolo gioiello è “Hold on” con quel ritornello sognante che ti porta con sé in viaggio. Altre canzoni da annotare sono “Loving arms”, di una squisita bellezza melodica, seppure velata da un retrogusto nostalgico e “Dream About You” che si assesta sullo stesso filone agrodolce.
Le canzoni maggiormente rock-oriented sono “Whole Lot of Love”, seppur con un intro fuorviante al pianoforte, e la bluesy “This Ain’t Love”.
Unico, piccolo passaggio a vuoto risiede in “Missing you” che ricorda nella cadenza del titolo la celeberrima e clamorosa canzone di John Waite.
Seppur con interpreti diversi, il moniker Atlantic torna a galla dopo ben tre decenni regalandoci “Another world”, un superlativo album di A.O.R.

Spektra – Hypnotized – Recensione

17 Luglio 2024 0 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

A distanza di tre anni dal debutto tornano i brasiliani Spektra, band dedita a un melodic rock ad ampio spettro, rispetto numerosi ed artisticamente ‘rigidi’ colleghi; rimanendo all’interno dei dettami del genere si percepisce la volontà del combo di sfiorare i diversi perimetri delineati nel corso delle ultime 4 decadi.
Dopo l’opener “Freefall”, invero anonima e simile a tante altre opener moderne dell’ultima decade, i nostri danno sfoggio alle influenze Talisman (il quartetto è stato scoperto e coprodotto al debutto da Jeff Scott Soto) con la cadenzata “Taste OF Heaven”. Grintosa e convincente.
“My Voice For You” tende la mano ed orecchio ai Revolution Saints con quel ritmo di batteria che fa tanto Dean Castronovo e con quelle linee vocali alla Journey.
“Against The Wind” possiede un coro sing a long sterile che trova nella ritmica della chitarra la componente migliore. “Our Time is Now” si candida tra i migliori del lotto; toni da semi ballad drammatica e moderna dove ogni strumento gioca un ruolo d’impatto per l’effettiva riuscita del pezzo.
“Tonight” rende il giusto tributo allo stile di Jeff Paris, mentre la granitica “A Time Around Us” coniuga perfettamente la band dell’indimenticato Marcel Jacob con ritmiche alternative.
A chiudere il classico lento introspettivo elettroacustico “Different Me Outside”, privo di particolari riscontri emotivi fino all’ingresso della sei corde.

Questa apparente policromia musicale viene ben aggregata e risulta organica per mezzo di una elevata capacità tecnica della sezione ritmica (molto bravo Cominato dietro le pelli) e di un buon gusto melodico del chitarrista Leo Mancini.
In linea con la maggior parte delle uscite discografiche degli ultimi anni, mancano un paio di pezzi trascinanti, in grado di inalzare il livello medio compositivo e di portare ‘Hypnotized’ al famigerato e bramato Next Level.

Vain – Disintegrate Togheter – Recensione

17 Luglio 2024 1 Commento Francesco Donato

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Jackie Rainbow Records

Se dovessi stilare una personale classifica dei più influenti album della scena street sleaze metal mondiale aiutandomi nella conta con le dieci dita delle mie mani, non credo arriverei al primo mignolo senza aver nominato prima “No Respect” dei Vain.
Band culto del genere, i Vain si sono guadagnati l’entrata di diritto tra “le band più sottovalutate” grazie soprattutto ai loro primi tre splendidi album.
Dotati di un particolarissimo ed originale songwriting capace di donare ad ogni pezzo linee melodiche mai banali e intrecci chitarristici azzeccatissimi, i Vain con il secondo “All Those Strangers” andarono per quanto mi riguarda anche meglio dell’esordio, ma la Island Records li abbandonò sul più bello.
I nastri di fatto furono accantonati fino al 2009, quando lo stesso Dany Vain si prodigò a rimettere in giro questo piccolo capolavoro tramite la Jackie Raimbow Records.
Ma veniamo ad oggi.
Disintegrate Together è l’ottavo lavoro in studio della band americana e arriva a sette anni dall’ottimo precedente “Rolling with the Punches” del 2017.
Diciamolo subito, in un mare di uscite quando sono i “grandi” a scendere in pista c’è poco da fare: La differenza come in questo caso è abissale e riconciliante con lo spirito che anima la nostra passione.
Prodotto e mixato dallo stesso Dany Vain, Disintegrate Together si apre con il singolo apripista “Cold Like Snow”.
Scelta azzeccatissima in quanto il pezzo cala in mezzo da subito un Dany Vain ispiratissimo.
Il tipico trademark dei Vain è qui! Un pezzo che non sfigura di certo tra i classici della band.
La vivace forza ispiratrice della band cala altri due assi con “Don’t You Think” e soprattutto con “You Better Keep An Eye On That Girl” uno dei pezzi più trascinanti del disco grazie alla sua melodia e al suo refrain che la proiettano tra i must della band.
L’atmosfera fumosa e quasi bluesy di “The Flowers” vi catapulterà nei clubs lonsangelini di fine anni’80, mentre “Holding On For Love” e “Can’t You See Me Floating” si stamperanno nella vostra testa nello spazio di qualche ascolto.
E’ incredibile come la voce di Dany sia una tale risorsa capace di modellare melodie affascinanti tanto da non far apparire nessun pezzo come puro riempitivo.
E’ il caso delle successive “Back in ‘89” e “KC Swinger” .
Si chiude con “Pictures in You in Red” e con la titletrack, inattesa quando apprezzata e introspettiva ballad.
In sostanza Disintegrate Together rappresenta certamente uno dei migliori della band, un disco che se amate i Vain non faticherete ad amare e ad ascoltare senza sosta.
Sicuramente in ambito Sleaze metal uno dei lavori che si proietta a pieno titolo tra le migliori uscite dell’anno.

 

Kissin’ Dynamite – Back With A Bang – Recensione

12 Luglio 2024 5 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Napalm Records

Tornano dopo un paio d’anni i teutonici “Kissin’ Dynamite” con il nuovo platter “Back with a bang”. E tenere fede ad un titolo simile non è sicuramente un’impresa facile, vista la bontà del precedente “Not the end of the road”, sintesi di capacità compositiva ed esecutiva ed attitudine tamarra. La formazione è sempre quella, solida e rodata da centinaia di date in tour per tutta Europa. Amatissimi in patria e fuori, attivissimi sui social, Hannes e compagni sapranno regalarci un’alta ora di vitale adrenalina metallica?

Beh, a giudicare dal trittico iniziale costituito dalla title track e dai due singoli “My monster” e “Raise your glasses”, il bang c’è, eccome! Canzoni costruite con lo specifico intento di stamparsi in testa, provocando un’alluvione di endorfine lungo  il sistema nervoso del fortunato ascoltatore che si ritrova a reimbracciare l’air guitar e ad urlare a squarciagola anthemici ritornelli fino ad esaurire la voce. Il riff di tastiere di “Queen of the night” non vi fa venire in mente il primo Bon Jovi? E quel coro così Desmond Child? Ah ne volete ancora? Allora beccatevi il mid tempo teutonico di “The devili s a woman” sfociare in un refreain che Vic Pepe e Jack Ponti non avrebbero saputo scrivere meglio per un qualsiasi album dei Baton Rouge. “The best is yet to come” si rifà alla versione più edulcorata dei connazionali Axxis e subito dopo i ragazzi alzano il piede dall’acceleratore per dare vita ad una canzone decisamente pop anni 90 come “I do it my way” assolutamente godibile. Torna la tradizione del german melodic metal su “More is more” mentre “Iconic” si allontana dai consueti lidi ma senza una direzione precisa, risultando meno immediata così come “Learn to fly” non fa impazzire e sa un po’ troppo di già sentito. Il piedino parte da solo per tenere il ritmo della ballonzolante “When the lights go out”, che torna a coinvolgere grandi e piccini. E si termina con la ballad “Not a wise man”, carente a livello di romanticismo ma, giustamente, votata ad essere cantata intorno ad un falò su qualche spiaggia della costa anseatica.

I Kissin’ Dynamite rimangono una certezza. Massicci e quadrati, da bravi panzer tedeschi, compongono canzoni semplici ma senza una nota fuori posto. Ritornelli urlati in faccia agli ascoltatori , impossibili da ignorare. Produzione assolutamente degna. Concerti su concerti a promuovere i propri dischi. Insomma, una band d’altri tempi. Se proprio vogliamo muover loro una critica, possiamo fare riferimento ad una varietà stilistica non proprio spinta e ad un paio di canzoncine sottotono nella seconda parte dell’album… Ma, scusate, le canzoni di Child o di Ponti/Pepe non ricalcavano tutte lo stesso vincente schema? Eppure a noi vecchi melodic rockers piacevano tutte! E allora tanto di cappello ai ragazzi che hanno sicuramente fatto tesoro della lezione dei maestri. Ascoltatevi spensieratamente “Back with a bang” e godetevi uno dei migliori dischi fin qui usciti in questo 2024!

Mr.Big – Ten – Recensione

12 Luglio 2024 11 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

I Mr.Big sono stati IL supergruppo per antonomasia. Hanno saputo coniugare la tecnica sopraffina dei singoli musicisti con il gusto per il formato canzone. Personalmente li ho visti dal vivo ormai qualche anno orsono, ed anche lì mi hanno impressionato per quanto sapessero gestire il palco e riproporre in veste live la loro impressionante qualità esecutiva, facendo letteralmente scomparire compagni di festival quali Judas Priest e Europe. E allora come mai nessuno in redazione si è prodigato per aggiudicarsi questa recensione? Beh, la vena compositiva dei nostri, negli ultimi anni, si è parecchio affievolita e la tegola della malattia di Torpey è stata difficile da superare. Da qui la decisione di dare alle stampe questo “Ten” quale nota d’addio verso i numerosissimi fan in tutto il mondo, presentato come il compendio della loro interpretazione della musica rock senza rifarsi a nulla di quanto composto prima.

E sicuramente il blues sincopato e saltellante di “Good luck trying” non è nulla di convenzionalmente Mr.Big. Tecnica OK ma fruibilità KO. “I am you” raddrizza il tiro con un brano pop rock fruibilissimo, senza spazio per i tecnicismi. Nonostante l’incipit orientaleggiante, “Right outta here” torna al blues in modo più standardizzato, con il basso di Shehan che martella inesorabile il ritmo. Più heavy la seguente “Sunday morning kinda girl” ed anche un po’ più vicina agli ultimi dischi del quartetto. Memore del successo delle vecchie ballads, “Who we are” non smentisce l’abilità in questo campo di Martin & C. Ancora forti influssi pop pervadono “As good a sit gets”, con quel riffino che suona un po’ Boston e Gilbert che finalmente si sfoga un po’ nel solo. Il più classico dei giri di blues e la relativa pentatonica la fanno da padroni su “What are you thinking”, una sorta di rivisitazione di “Deadringer” del compianto Polpettone… Ritmi rilassati contraddistinguono “Courageous” dando una fortissima impressione di già sentito. Il singolo “Up on you” si salva per il bel ritmo e il simpatico videoclip nel quale tutti suonano tutto. Premio per la miglior canzone  per chi vi scrive va al lento “The frame”, semplice ma graziosa e dal testo non banale. Ancora blues nella bonus track europea “Days on the road” dove, finalmente, possiamo gustarci un bell’assolo di Sheehan che, se l’orecchio non mi inganna, si cimenta anche alla voce.

Diciamoci la verità, questo canto del cigno del quartetto americano è un disco mediocre. Neppure per un momento Sheehan e Gilbert provano a rincorrersi su scale improponibili. Baby Face non è più Baby Voice. La produzione delle major è uno sbiadito ricordo. E poi, cosa importante, tutti sembrano essere piuttosto svogliati. Come se questo disco rappresentasse più un obbligo contrattuale che un sentito congedo nei confronti di chi, me compreso, li segue e stima da sempre. I loro primi album sono e resteranno sempre delle pietre miliari nella storia dell’(hard) rock. “Ten” è mera routine. Addio ragazzi.

Dark Mile – Dark Mile – Recensione

11 Luglio 2024 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

In uscita per Pride And Joy il primo lavoro della super band “Dark Mile”, combo composta da grandi esponenti del mondo hard rock/heavy metal, tra i quali spicca Tracy G, ex chitarrista di Ronnie James Dio.

La tipologia di riff e l’intenzione dei brani si capisce sin dai primi secondi di “The Boy”, singolo estratto dall’album, ovvero ritmiche frenetiche e trascinanti accompagnate da una voce aggressiva. La successiva “No Deal” si mantiene sugli stessi livelli, tosta e martellante al punto giusto, dai fraseggi interessanti, come la successiva “I Can’t Help You”, sempre convincente e dal gusto vintage. Dopo la veloce intro strumentale “Like Never Before” ci aspetta “Is Anybody Listening”,ariosa, ampia, dalle atmosfere titaniche, piacevole ma a tratti leggermente scontata. Arrivando al giro di boa ci imbattiamo in “Games”, uno pseudo lento molto suadente, dai richiami ben definiti, che non stufa ma allo stesso tempo non strabilia, forse anche per un mixaggio non eccellente. “He Said She Said” è apprezzabile per la grinta e per il portamento, mentre “Maybe On A Sunday” si mantiene sul livello generale del disco, con una pasta sonora piena e corposa. “Know Me” è un buonissimo brano, per intensità e convinzione, quasi sorprendente a questo punto dell’ascolto. Pregevole e ben strutturato, troviamo “Where’s The Love”, dalle molteplici influenze, molto anni ‘80 e per questo motivo potrebbe essere gradito da un’ampia platea di ascoltatori. “United We Stand” è un bel pezzone heavy, tosto e duro, che ci riversa nella conclusiva “Lies”, martellante e virtuosa al punto giusto. Cosa dire di “Dark Mile”: ben eseguito e dai suoni abbastanza convincenti, riprova del valore dei singoli componenti della band, ma complessivamente poco originale, aspetto che spesso si rivela croce e delizia di questo genere di prodotto.

Sunbomb – Light Up The Sky – Recensione

26 Giugno 2024 0 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Trova un secondo capitolo il progetto Sunbomb, scritto dal sempre più prolifico (nell’ultima decade) Tracii Guns e diretto dalla voce di Michael Sweet. La miscela proposta da questi due illustri veterani della scena conferma l’idea artistica del debutto e prevede un metal vagamente sporcato bluesy con il naso e l’orecchio rivolti verso la NWOBHM.

Poco spazio alla melodia, limitrofo musicalmente alle ultime uscite targate Stryper, distaccato da ogni qualsivoglia “distrazione” da classifica.

Ne possiamo apprezzare gli intenti? Ni.

La doppietta iniziale “Unbreakable”/“Steel Hearts” marca il territorio; due pezzi che Mark Wahlberg definirebbe “Cazzuti”: mi ha riportato alla mente il classico Rock Star e le interpretazioni che l’attore (o meglio dire  Michael Matijevic) ha donato per i pezzi degli Steel Dragon…

Il ritmo di “In Grace We’ll Find Our name” è lento, cupo, tendente al doom. Mentre La title track riporta alla mente i Black Sabbat dei primi anni 80.

Procedendo con la scaletta, la furia di “Scream Out Loud” lascia spazio a un briciolo di melodia, per lo meno nelle vocals, in “Winds of Fate” (Immaginate gli Stryper che ai tempi del lancio delle bibbie lo sostituiscono con cannonate sparate da un Railgun). Melodia che ritroviamo nel lento un po’ anonimo “Where We Belong”.

Nel catalogo della Frontiers, aperta a tutte le declinazioni da noi adorate, un disco di puro Heavy Metal come il qui recensito LUTS è legittimo. Rimane un progetto che difficilmente e raramente vedrà la luce sul palco e che sarà in grado di regalare scariche adrenaliniche ai completisti del genere.

Certo è che dopo un paio di ascolti permane l’eccesso di uniformità, l’alto rischio di non ricordare un ritornello ne una strofa è presente e paga dazio; e nel 2024 rimane un deterrente rilevante in fase di recensione.

Da artisti di codesto calibro ti aspetti il colpo di genio, la linea melodica, il guizzo vincente in grado di elevare il proprio operato.

Ciò latita a favore di chitarre aggressive si ma prevedibili e di uno stile di Sweet estremamente omogeneo.

Sufficiente a lasciare un paio di lividi dai quali ad ogni modo ci riprenderemo.

Bon Jovi – Forever – Recensione

26 Giugno 2024 7 Commenti Giulio Burato

genere: POP ROCK / ROCK
anno: 2024
etichetta: Island

Parlare dei Bon Jovi per me è come parlare della squadra di calcio per cui tifo. Difficile parlarne obbiettivamente, difficile, forse, parlarne obbiettivamente in negativo.

Ho iniziato ad innamorami del melodic-rock ascoltando nel 1987 “You give love a bad name” e “Livin’ on a prayer”, canzoni che sono pietre miliari per chi ascolta questo genere, canzoni di una ridondanza a 360° per chi ama la musica.

Tutta questa premessa per dire che non ci saranno termini di paragone, sarebbero moralmente illegali, tra ciò che esplose sul pianeta musicale con quel fantasmagorico “Slippery when wet” a quello che ci troviamo di fronte in questo 2024, ossia al loro sedicesimo album in studio, intitolato “Forever”.

La recente carriera discografica dei Bon Jovi ha intrapreso strade molto soft, per vari motivi, sul filone di gruppi rock moderni dal grande appeal; la dipartita, poi, del grande Ritchie Sambora è stata indubbiamente un boomerang che è tornato al mittente. “Forever” non si discosta molto dal precedente album “2020”, ricco di tante canzoni “morbide”, per non dire “molli”, e con la presenza della chitarra come mera apparizione (fa specie sentire la canzone intitolata “My first guitar”), come un miraggio nel deserto.

Evito il track by track ma, a campione, vado ad analizzare, mestamente, delle canzoni, tra cui i singoli che, alla lunga, si fanno apprezzare, rispetto al piattume generale.

Se “Legendary”, dal titolo, a deduzione, auto-celebrativo, non avendone bisogno, vista la quantità industriale di copie vendute in 40 anni di carriera, cerca di dare una sorta di stimolo corale, il secondo singolo “Living proof” fa il verso, e non la rima, con una “it’s my life” riportata a galla ventiquattro anni dopo. A chi la ascolta in maniera staccata, senza la antecedente discografia, piace e può piacere, ma ai vecchi “volponi” che ricordano la chioma cotonata di Jon negli anni ’80 lascia qualche perplessità in più. Nel complesso la parte della chitarra è la più accattivante dell’album.

A pelle “Waves” mi piace, è la canzone che preferisco, ma, dico io, perché non spingere un po’ di più con quella sessione ritmica? “Seeds” è una buona canzone pop-rock, ben arrangiata, con quegli archi che completano il ritornello, ma distante dalle meraviglie bonjoviane.

I lenti “Kiss the bride” e “I wrote you a song” sono tendenzialmente dal facile sbadiglio; la voce “roca” di Jon si adagia perfettamente alla struttura delle canzoni, che ahime’ non graffiano. La batteria del ritornello di “Living in paradise” sembra ridare un giusto spazio al buon Tico Torres, anche se quello spazio ha delle rullate che sanno un pò del già sentito. “Walls of Jericho” è una versione 2.0 di “Bad medicine”?  Scusate, ritiro la domanda; non dovevo e volevo fare dei paragoni. Si chiude col lento acustico “Hollow man”, musicalmente devoto al “boss” americano per eccellenza.

Non mi aspettavo molto da questo “Forever”, ma sono sincero nel dire che ciò che ho sentito non mi fa salire la pelle d’oca. Mi piange il cuore dare questo difficilissimo voto in recensione, e probabilmente qualcuno potrebbe far stampare una locandina con scritto “Wanted dead or alive” (cit.), ma la squadra per cui tifo stenta a farmi emozionare come nei fasti che furono.

Per sempre leggende, per sempre miei idoli, per sempre Bon Jovi.

Perdonatemi.

Alicate – Heaven Tonight – Recensione

18 Giugno 2024 2 Commenti Paolo Paganini

genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

Ridendo e scherzando questi quattro “ragazzi” sono in giro a fare musica dalla fine dei gloriosi anni ottanta quando probabilmente la loro grande occasione fuggì via e di loro si persero le tracce fino al 2006 allorché i membri della band decisero di darsi una seconda possibilità producendo nuovo materiale che fini nell’album World Of Anger. Da quel momento in poi però gli svedesi non si sono più fermati dando alle stampe nell’ordine Free Falling (2013), Unforgiven To Be Forgiven (2018), Butterfly (2022) fino a giungere ai gironi nostri con il presente Heaven Tonight. Ascoltando la loro nuova proposta le band di riferimento che vengono immediatamente in mente sono Whitesnake e Van Halen. Se a queste nobili influenze unite un’innata capacità di proporre melodie estremamente accattivanti ed una tecnica compositiva di prim’ordine capirete che ci troviamo davanti ad un disco di tutto rispetto. La traccia che apre il cd mescola sapientemente chitarre e ritmiche della band di David Lee Roth con i Mr. Big degli esordi. Si procede con le Whitesnakiane Under The Gun e Heaven Tonight che pur rimanendo palesemente legate al sound di Coverdale & Co. riescono nell’intento di non farci mai pensare ad una mera operazione di copia/incolla anzi il tocco personale dei quattro musicisti e la professionalità del prodotto fanno si che il tutto risulti estremamente godibile. Sia chiaro, dal sound degli anni ’80 non si scappa e l’immancabile ballata Ride The Storm ne è la prova ma il livello di brani si mantiene sorprendentemente sempre piuttosto alto senza praticamente mai avere la sensazione che una traccia sia stata inserita tanto per fare numero.

IN CONCLUSIONE: Potremmo ovviamente e facilmente concludere dicendo che gli Alicate sono arrivati fuori tempo massimo che la loro proposta è fuori moda che certi generi non tirano più ma poi in fondo… chi se ne frega! A noi piace questa musica e dovremmo tutti toglierci il cappello ed applaudire formazioni così coraggiose, professionali ed appassionate. Grandi Alicate!