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BLACK ROSE MAZE – BLACK ROSE MAZE – recensione

13 Dicembre 2020 1 Commento Luka Shake Me

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2020
etichetta: Frontiers Music

La produzione di cui mi accingo a parlarvi è l’esempio di come la musica a volte possa essere cinica e allo stesso tempo alla lunga anche meritocratica. Il cinismo di presentare in ritardo al mondo del rock duro un’artista di grande spessore e dunque grazie alla perseveranza e al talento, il riscatto, il concretizzarsi di un qualcosa di assoluto valore. Rosa Laricchiuta dopo una buona gavetta e la presenza al “The Voice” canadese prima e l’arruolamento della Trans – Siberian Orchestra poi, che ne hanno reso vetrina per la grande ugola canadese, viene finalmente notata dalla nostrana Frontiers grazie anche al supporto dell’ ormai onnipresente Soto messosi ottimamente in luce nel platter duettando in una traccia con la talentuosa singer canadese. Fin dal primo ascolto sono rimasto estasiato dalla potenza e calore che esprime Rosa; a mio avviso una delle migliori ugole presenti nel roster Frontiers.

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Reb Beach – A View From The Inside – recensione

13 Dicembre 2020 5 Commenti Alberto Rozza

genere: Strumentale
anno: 2020
etichetta: Frointiers Music

Dopo anni dedicati all’attività live con grandissimi nomi del panorama rock e metal mondiale (del calibro di Dokken e Whitesnake per fare due esempi), torna con un album solista strumentale il virtuoso chitarrista statunitense Reb Beach.
L’iniziale “Black Magic”, che contiene le uniche due parole cantate dell’album, introduce immediatamente l’ascoltatore nel mondo di Beach: tecnica sopraffina e coinvolgente, musicalità potente e persuasiva, gusto assoluto. Atmosfere funky – jazz permeano “Little Robots”, dalla freschezza stupefacente, strutturata in modo divertente, che ci permette di intraprendere uno stupendo viaggio mentale. Suoni letteralmente atomici ci sbalordiscono in “Aurora Borealis”, dove la tecnica ci rimanda a Steve Vai e Satriani, dove il fraseggio riesce allo stesso tempo a essere complesso e naturale, dove note lunghe e intense si alternano alla velocità e alla frenesia del tapping. Oscura, misteriosa, arriva dritta al cuore l’intensa “Infinito”, brano introspettivo e cupo, che comunque mette sempre in mostra la tecnica assoluta del chitarrista statunitense. Un caro amico mi disse che costruire un album solista strumentale è un lavoro mostruoso, addirittura impossibile se non si ha nulla da dire: questa cosa non vale per l’album in esame, fatto dimostrato dalla varietà di espressione e di scelte, come nel caso della sgangherata e ritmata “Attack Of The Massive” e dei suoi continui botta e risposta anche con gli altri strumenti. Giochi di suoni, giochi ritmici, sempre alla ricerca di nuovo orizzonti: ogni brani dell’album presenta molteplici facce e sfumature, in una continua scoperta. “The Way Home” è un brano rilassante, molto anni ’90, che ci immerge a livello emotivo, rasserenando gli spiriti, complessivamente adatto a un pubblico vario. Arriviamo a “Whiplash”, molto tradizionale, melodica, tecnicissima e dalle sensazioni malinconiche, quasi che le note implorassero l’ascolto: molto intensa. Con “Hawkdance” entriamo in un universo inedito, un brano da film o da sigla televisiva, espansivo e sorridente, che arremba e gasa letteralmente, come il successivo “Cutting Loose”, frenetico, accattivante, martellante, dai suoni cristallini e titanici. Concludiamo con la lunga, solare, canonica (per il genere e la tipologia di lavoro) “Sea Of Tranquillity, un lungo e accorato solo di chitarra, che si unisce fantasticamente a tutto l’album, un assolo che vive e si prolunga in tutte le tracce, sentito, creato da un artista unico e di livello superiore, un uomo che riesce a comunicare, a parlare, al suo pubblico e non solo tramite il suono e l’espressività del suo strumento: veramente momenti da apprezzare e ascoltare in tranquillità, per allietare l’anima nelle cupezze di questo periodo.

Orianthi – O – recensione

13 Dicembre 2020 4 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2020
etichetta: Frontiers Music

A distanza di 7 anni, torna con un album la talentuosa e instancabile chitarrista australiana Orianthi Panagaris, superstar del mondo musicale e conosciuta, oltre che per la sua bravura, per le sue collaborazioni con artisti celebri del calibro di Ritchie Sambora, Michael Jackson e Alice Cooper.
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Bon Jovi – 2020 – recensione

13 Dicembre 2020 16 Commenti Vittorio Mortara

genere: Rock - Pop Rock
anno: 2020
etichetta:

I Bon Jovi, quelli che hanno fatto il botto con il grande pubblico a cavallo degli anni 80 e dei primi 90, devono il loro enorme successo alla perfetta alchimia tra la voce e la presenza fisica di Jon, il talento e il gusto per la melodia di Richie Sambora (per non parlare dei suoi onnipresenti e fondamentali controcanti) e il songwriting di Desmon Child, capace di confezionare canzoni progettate per scalare senza alcun problema le classifiche di mezzo mondo.
Ebbene, quei Bon Jovi non esistono più da tempo. L’apporto del più grande hit maker di tutti i tempi si è via via ridotto a partire da “These days”. Sambora si è sempre più eclissato da “Crush” in poi, finchè non ha abbandonato la band un paio di album orsono.
E la musica dei Bon Jovi ha subito, anche alla luce di questi fatti, un cambiamento piuttosto graduale ma assolutamente profondo, diventando, negli ultimi dischi, una sorta di pop rock moderno, più simile a Coldplay ed Imagine Dragons che a quanto proposto nella prima metà della loro carriera.
“The circle”, “What about now” e “This house is not for sale” sono lavori pienamente in questo filone, ben realizzati ma privi di anima, come se i nostri fossero a corto non tanto di idee, quanto di una vera ispirazione. I brani in essi contenuti non si possono definire brutti, però non lasciano il segno nell’ascoltatore che, alla fine, non riesce a ricordarne nessuno in particolare, avendo quasi l’impressione che siano tutti uguali…
E poi, quasi inaspettato, esce questo 2020.
continua

Magic Dance – Remnants – recensione

13 Dicembre 2020 7 Commenti Yuri Picasso

genere: AOR - Sinth Wave
anno: 2020
etichetta: Frontiers Music

Arriva al quarto capitolo, secondo per Frontiers, l’avventura del polistrumentista ellenico-americano Jon Siejka e del suo progetto Magic Dance.
Il titolo non poteva essere più azzeccato di questo “Remnants”.
Chi sono questi Residui ? Coloro i quali ascoltano immersi nei propri ricordi passati e con nostalgia il synth-pop degli anni 80; AOR dalla struttura soft di matrice ottantiana, in quest’occasione “rambizzata” da una produzione che guarda al presente e prova a rendere appetibile la proposta anche ai più giovani che mai hanno sentito parlare o ascoltato gruppi quali A-Ha o Talk Talk o ancora gruppi della cosidetta seconda fascia come Bricklin e Refugee.
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Dukes Of The Orient – Freakshow – Recensione Breve

13 Dicembre 2020 11 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog Aor
anno: 2020
etichetta: Frontiers Music

Abbagliato dall’album precedente , ma stordito dai singoli usciti per promuovere questo Freakshow mi sono approcciato al disco da un lato con aspettative di sonorità prog maestose e dall’altro con la paura di venire deluso…. risultato? A me questo disco è parso moscio moscio… paragonato al precedente si vira decisamente su sonorità più pop alla Alan Parson project , il che non sarebbe necessariamente un male se le canzoni facessero presa, ma per me non è così.
Oddio ci sono due tre pezzi molto Asia oriented che sono notevoli quali The Monitors, Man of Machine e When ravens cry, ma sono contornati da pezzi tutto sommato insignificanti quali la scontatissima The Dukes Return , la styx clone Freakshow, e la pallidina The ice Is Thin.

Non saprei , forse Norlander ha spinto più su sonorità meno tipiche della tradizione aoreggiante, oppure è solo voglia di sperimentare un po’… soltanto che a mio giudizio il bersaglio non è stato centrato.

A Perfect Day – With Eyes Wide Open – Recensione

13 Dicembre 2020 4 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Modern Rock
anno: 2020
etichetta: ROCK OF ANGELS

Gli A Perfect Day nascono nel 2012 dalla collaborazione tra alcuni membri di Labyrinth e Vision Divine con l’intento di proporre nuovi brani piuttosto distanti da quanto fatto con le band originali. Sul primo disco compariva dietro il microfono il grande Roberto Tiranti sostituito a partire dal secondo (The Deafening Silence del 2016)
dall’altrettanto valido Marco Baruffetti. In quell’occasione si iniziò a notare un cambio di stile nelle composizioni, votate a sonorità più moderne anche se ancora legate al classic metal del recente passato. Oggi con l’uscita del nuovo Whit Eyes Wide Open appare chiaro il percorso che i quattro membri intendono intraprendere. Ci troviamo infatti di fronte ad un disco dalle chiare influenze post-grunge ma dalla spiccata connotazione melodica. Le dieci tracce vanno a comporre un album di grandissima qualità sia a livello di brani che per quanto riguarda la produzione, estremamente brillante ed al passo coi tempi. Impossibile non paragonare Gli APD a band quali Alter Bridge, Black Stone Cherry, e Shinedown. La cosa appare chiara fin dalle prime note di All Of My Life e Give It Away (i primi due singoli estratti) dove tracce di Foo Fighters e Alter Bridge di mescolano alla melodia ed alla brillantezza della voce di Marco per dare vita ad uno stile unico e perfettamente riconoscibile. L’influenza della band di Brent Smith emerge prepotentemente sulle note di In My Room mentre Mama Said “puzza” del miglior southern rock in stile BSC e permette a Barruffetti di mostrare tutta la propria versatilità. Si continua a spingere con la tiratissima Pull Me Out altro ottimo esempio di come si possa coniugare un pesante lavoro di chitarre senza perdere un gramo dal punto di vista melodico. A proposito di chitarre non possiamo non fare un plauso alla maiuscola prestazione di Andrea Cantarelli sempre sugli scudi e all’imponente sezione ritmica formata dal duo Andreone-Bissa. Starlight ci riporta su territori cari alla band di Myles Kennedy mentre The Hideaway mi ricorda il sond dei migliori Evanescence. Il vero capolavoro però deve ancora arrivare. Gli amanti delle ballate non potranno non riconoscere a The Love We’ve Waited una potenziale hit a livello internazionale, nella quale la voce di Barufetti si sposa magnificamente ad una melodia che vi entrerà in testa fin dal primo ascolto. La veloce The Roots è forse il brano meno convincente (ma parliamo di gusti personali) mentre la conclusiva e pacata Whatever You Want Me (To Do) molto vicina allo stile dei Cinder Road rappresenta il perfetto commiato della band.

IN CONCLUSIONE

Alla fine dell’ultima traccia ti viene voglia di rimettere il disco da capo e questo penso sia il miglior complimento e considerazione che possa fare a questa fantastica formazione che speriamo di poter ammirare quanto prima in sede live.

Unruly Child – Our Glass House – Recensione

09 Dicembre 2020 16 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2020
etichetta: Frontiers

Cominciamo dall’ enorme rispetto che provo verso gli artisti che compongono questo gruppo ; Marcie Free ha dato vita a dischi che sono veri e propri classici sia con i Signal sia con i King Kobra e naturalmente al primo masterpiece di questa band , per quanto riguarda il duo Bruce Gowdy e Guy Allison li apprezzavo già ai tempi dei World Trade quando diedero vita ad un gioiellino di melodic prog, e come non citare Tony Franklin che già solo per il disco dei Blue Murder si merita il nome stampato nei libri di storia, quindi si potranno capire le mie enormi aspettative per una nuova uscita degli Unruly Child. D’altra parte dopo il primo mostruoso disco , il solista di Marcie Tormented (che praticamente è il secondo disco degli Unruly uscito sotto altro nome) e Waiting for the sun che ho adorato…. me li sono un po’ persi per ritrovarli anni dopo con Can’t go home del quale non sono riuscito ad andare oltre i due ascolti…. quindi timoroso mi sono tenuto a distanza da Big Blue World temendo un’altro shock emotivo , quest’anno però ho deciso di raccogliere la sfida ed esaminare a fondo e spero senza pregiudizi questo nuovo lavoro, veniamo quindi al conquibus.

Sì parte col singolo Poison Ivy e la canzone funziona ed è subito familiare…. semplice è il riff un po’ modificato di On the Rise a orecchio rallentato di qualche battuta e con qualche orpello cucito intorno, chiamiamola autocitazione…. Say What You Want è un martellante hard rock moderno ma appena è finita la canzone come per magia te lo dimentichi, mentre Our Glass House parte come un mid tempo cadenzato con degli ottimi contrappunti tastieristici per confluire in un ritornello vagamente onirico. Everyone Loves You When You’re Dead è una song dal ritornello molto catchy ma abbastanza scontata, Talked You Out Of Loving Me invece rimanda la mente  alle atmosfere hard rock tipicamente Usa , non male. Underwater ci riporta alle atmosfere di Tormented mischiate a qualche accenno progressivo nella struttura compositiva e con un ritornello veramente funzionale, promossa. Catch Up To Yesterday è una semiballad che pur non originalissima si fa ascoltare per il sapiente lavoro strumentale, bella e inaspettata l’introduzione spagnoleggiante di Freedom Is A Fight che sfocia in una vera e propria Unruly song con le sue atmosfere soffuse rotte da ottimi cambi di ritmo e controcori e stacchetti di matrice World Trade….eh si, io è così che le vorrei tutte. The Wooden Monster è un altro pezzo che si lascia ascoltare ma un po’ come un sottofondo a cui si presta poca attenzione.  Si chiude con We Are Here To Stay che personalmente  ha  soddisfatto soprattutto per il bass working che va a mescolarsi con atmosfere tastieristiche quasi Purple, molto interessante. In realtà non si chiude perché ci sono due versioni ri arrangiate di due classici presenti nel primo disco, no sinceramente non c’era bisogno, le versioni originali anche a trent’anni di distanza restano inarrivabili e manipolare la perfezione….. è quantomeno rischioso.

Insomma com’è questo disco?…. allora intanto è hard rock con inserti moderni, arrangiamenti di matrice AoR e qualche inserto vagamente progressivo, di sicuro non è AoR in senso stretto, beh rispetto al primo ciclo è solo un parente comunque siamo nel 2020 ed è un disco ben eseguito con qualche idea interessante che spero possa essere approfondita in futuro ,  secondo me non lascerà un solco profondo nella storia, ma stima e rispetto sicuramente.

 

 

American Tears – Free Angel Express – Recensione

05 Dicembre 2020 1 Commento Vittorio Mortara

genere: Keyboard oriented pomp/prog
anno: 2020
etichetta: Deko Entertainment

Se vi accingete all’ascolto di questo “Free angel express” degli American Tears perché avete letto che nel gruppo milita il mitico Mark Mangold, membro fondatore dei Touch, dei Drive, She Said e dei fantastici Mystic Healer, nonché collaboratore sul mastodontico “Everybody’s crazy” di Michael Bolton, allora fate una cosa: non premete il tasto play e rivolgete le vostre attenzioni altrove…
Questo album non è un disco di Hard Rock e neppure di AOR. Non c’è traccia di chitarre, né pulite né distorte. Le melodie non sono quasi mai di facile presa. Si tratta piuttosto di un pomp/prog molto keyboard oriented, dai suoni estremamente futuristici. Qualcosa fra ELP, Jean Michelle Jarre e… perché no, Goblin!
Oltre a Mark, che suona tutti i generi di tastiera e canta, abbiamo Mark Landenburg degli Stratovarious alla batteria su tutti i pezzi, Barry Sparks (UFO, Dokken) e Doug Howard (Touch, Utopia, Edgar Winter Band) al basso, più un altro tastierista, Charlie Calv (Angel, Shotgun Symphony), a dare manforte. Tutta gente dal curriculum e dalla bravura indiscutibili.
Ora, la mia esperienza ai tasti d’avorio si limita a “Fra Martino campanaro” suonato con un solo dito all’organetto Bontempi quando ero piccolo, quindi il mio giudizio sulla tecnica di Mangold non è sicuramente fra più autorevoli. Però il ragazzo mi pare veramente bravo. Il suo stile è più su un Keith Emerson che su un Jonathan Cain, più progressive che fusion.
Questo, unito alla scelta di suoni spaziali ed a una produzione piuttosto fredda e asettica, dona all’album una osticità di ascolto piuttosto marcata. Difficile ascoltarlo tutto d’un fiato.
Ripeto, qui siamo mooolto lontani dal genere con il quale siamo soliti deliziare i nostri padiglioni auricolari.
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Cats In Space – Atlantis -Recensione

29 Novembre 2020 11 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2020
etichetta: Cargo Records

La prima volta che ho sentito nominare questi Cats In Space è stato in occasione della classifica annuale di Rock of Ages dove diversi fan di questa band entrarono nel gruppo Facebook di RoA per votare il disco precedente……e francamente non me ne curai minimamente , perché dal nome mi parevano una band di ragazzotti un po’ sfigatelli , quindi quando ho visto che era disponibile il promo di questo Atlantis col sorrisetto supponente sulle labbra ho pensato di andare ad ascoltarlo aspettandomi una discreta cavolata di disco….. e invece…. e invece devo fare mea culpa, mi sbagliavo e di grosso… mai giudicare un libro dalla copertina né un gruppo dal nome.

Il disco è valido, certo non è un hard rock che oggigiorno si definirebbe mainstream , anzi mi son voluto confrontare proprio con il conduttore di RoA (Rock of Ages n.d.r.) Stefano Grazio per verificare se fossimo d’accordo sulla collocazione della proposta musicale del gruppo, perché queste sonorità non sono proprio il mio pane quotidiano, e siamo rimasti concordi che le coordinate sonore siano fondamentalmente da ricercare tra gli Styx i Boston con qualche spruzzatina di Queen e un po’ di Prog sparso qua e là, siamo quindi in piena zona seventies.
continua