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Intelligent Music Project – VI The Creation – Recensione

03 Marzo 2021 5 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Intelligent Music

Cominciamo subito togliendoci il sassolino dalla scarpa, quando ho visto che era disponibile questo disco per la recensione, ma ho letto che era presente Ronnie Romero, mi sono un po’ caduti i cosiddetti. Oramai la sovraesposizione del seppur valido Ronnie ha raggiunto livelli tali che non mi stupirei di vederlo pure a San Remo. Incuriosito però dagli altri partecipanti tra i quali John Payne, ho deciso di approcciarmi al disco nella maniera più agnostica possibile, anche se intimamente mi aspettavo un supergruppo come tanti altri che sono usciti ultimamente. Devo dire che più di un supergruppo questa è una  impostazione più alla Alan Parsons Project e l’idea mi ha favorevolmente impressionato. Figurarsi il mio stupore quando ho realizzato che si tratta addirittura del sesto disco realizzato con questa formula (nei precedenti sono apparsi altri mostri sacri dell’ hard and heavy), altra sorpresa scoprire che il compositore e produttore e gran parte dei musicisti sono bulgari, non proprio una terra rinomata per l’hard rock. Constatata dunque la mia ignoranza, sono andato a cercare maggiori informazioni sul deus ex machina del progetto ovvero tale Milen Virabeski, che francamente mi aspettavo essere un produttore o cose simili, invece altra sorpresa, in realtà il sig. Virabeski è principalmente un uomo d’affari Bulgaro con la passione per la musica. Impegnato nella ricerca clinica con una azienda con filiali in ben 28 paesi, attivo inoltre nell’ambito della educazione dei bambini e in altre attività filantropiche e di patronato delle arti, atte a favorire musica e musicisti bulgari, ed è per questo scopo che ha fondato la Intelligent Music. E chi se lo aspettava…

Però qui dobbiamo parlare della musica , spogliamoci quindi dalle buone o cattive emotività e mettiamo a fuoco il punto. Il disco nel suo complesso è buono, anzi in alcune parti molto buono, dategli un paio di ascolti e sono sicuro che vi conquisterà, sia nelle sue parti più semplici , sia in quelle dove la varietà e la ecletticità la fanno da padroni. C’è di tutto qui dentro, pezzi di struttura super classica e pezzi molto elaborati, c’è l’hard and heavy anni 80 e la voglia di andare a guardare a partiture di concezione progressiva il tutto miscelato da arrangiamenti orchestrali, quindi mente aperta orecchie focalizzate e cominciamo il viaggio nelle canzoni.

Si parte con Sense Of Progress, che al contrario del titolo ci porta negli anni 80 a casa Scorpions dove Romero  gode un sacco a fare il Klaus Meine della situazione. The Story gioca molto sule diverse interpretazioni vocali di Romero e Payne, muovendosi sul doppio binario dell’ortodossia e l’ orchestralità, semplificando estremamente e prendendo il paragone con tutte le molle possibili alla Savatage di Gutter Ballet. A Shelter è un viaggio più settantiano impreziosito da un ritornello super catchy semplice ed immediato. Listen è un gioiellino acustico chitarra e voce, molto romantico  e con Romero sugli scudi; il pezzo va ad innestarsi senza soluzione di continuità nella seguente Your Thoughts come fossero capitoli della stessa canzone, in piena tradizione prog , ed in effetti il duetto vocale tra Richard Grisham e John Payne tira molto in quella direzione. Siamo a metà del percorso e sinceramente sono ancora molto ingalluzzito da questo disco e Sometimes mi offre 4 minuti di ottimo intrattenimento hard rock, prima di essere trascinato nella splendida atmosfera di Back To The Truth con il suo ritornello folk balcanic style, veramente gradito ed inaspettato. E che dire di Let It Go , sembra di essere ad ascoltare swing a Chicago in un fumoso locale anni 50 , quando irrompono chitarra e batteria a spazzare via i dubbi sul fatto che stiamo ascoltando hard rock. Sicuramente più ordinaria la cadenzata A Sight , dotata di gradevole ritornello. That Something  è l’habitat naturale di Payne e si svolge in territori non troppo lontano da quello proposto recentemente dai Dukes Of The Orient. I Know è il pezzo scelto per il video promozionale hard rock 4/4 e via andare, non brutto, ma sinceramente uno dei pezzi più scontati del disco. Chiude l’opera la progressive Serve ed è veramente un bel modo di chiudere, perché la voglia di premere nuovamente play e ricominciare da capo si fa pressante.

insomma un disco originale, concepito , suonato ed arrangiato benissimo, cosa volete di più dalla vita nel 2021?….un Lucano?

 

W.E.T. – Retransmission – recensione

26 Febbraio 2021 19 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music Srl

Il 1987 fu un’annata storica per il genere musicale che amiamo, tanto più che, nel febbraio di quell’anno, gli Europe misero, storicamente, i piedi sul palcoscenico della musica italiana: l’Ariston.
A pochi giorni dalla settantunesima edizione del Festival di Sanremo, mi piace poter sognare.
Se potessi dunque nominare una band che, virtualmente, meriterebbe di salire su quel palcoscenico, proveniente dagli stessi lidi di Joey Tempest e soci e che ne segue le orme, io nominerei i W.E.T., progetto discografico di Frontiers, nato nel 2009 dall’unione di componenti di tre diverse bands (Eclipse, Work of Art e Talisman). Nomination virtuale dovuta, all’indomani dell’uscita della loro quarta fatica discografica, intitolata “Retransmission”.
Una così lunga premessa per poi andare direttamente al nocciolo della questione; questo album merita attenzione, sia virtuale, come nei miei sogni, sia reale per lo standard qualitativo delle canzoni. Basta ascoltare i primi due singoli per fare tabula rasa e spazzar via ogni dubbio. “Big boys don’t cry” e, soprattutto, la fantastica “Got to be about love” sono dei pezzi che fossero usciti nel 1987 avrebbero fatto sportellate nelle classifiche di mezzo mondo; la prima, dal ritmo pulsante con lo scambio vocale tra Jeff e Erik, la seconda è una piccola perla che mixa l’AOR più ricercato alla potenza melodica moderna, senza dimenticare l’assolo viscerale che ha in dote.
Se vogliamo tirare due dadi e vedere che numero esce, troveremo un numero sempre fortunato in quanto la canzone corrispondente non deluderà.
“The call of the wild” ha quel flavour che ricorda I Talisman, mentre le note iniziali di “Coming home” sono di chiara derivazione Eclipsiana, sviluppandosi poi verso orizzonti cari anche ai The Darkness.
La cadenza marciante ci porta in Babilonia con la suggestiva “How far to Babylon” che ha un’impostazione che fa il filo ai Nickelback dei grandi successi di metà anni 2000. A seguire la graffiante cattiveria di “Beautiful game” dove Erik ha lo spazio per accordare le note nelle sue linee preferite.
Immancabile il lento, presente con “What are you waiting for” col suo crescendo melodico che entusiasma e accende i cuori. Ritorniamo su strade più ritmate con la devastante bellezza di “You better believe it”, da cantare a squarciagola.
Concludiamo con “How do I know” e il terzo singolo “One final kiss” che, seppure poste a fine scaletta, hanno la stessa valenza del sesto uomo di una squadra di basket, ossia entrare in campo e fare la differenza.

IN CONCLUSIONE

Sicuramente sarà un sogno vedere una band come i W.E.T. in un festival nazionale (italiano), ma non è un sogno dire che questo “RETRANSMISSION” potrà essere candidato a una delle migliori uscite discografiche del 2021.

Mother Road – II – Recensione

18 Febbraio 2021 15 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Blues
anno: 2021
etichetta: Metalapolis Records/Cargo

Mother Road, ovvero il nomignolo della Route 66 , la leggendaria higway americana che rappresenta nell’ immaginario il viaggio nel cuore degli Usa.

Il gruppo fondato nel 2013 da Keith Slack (ex Steelhouse Lane) e dal chitarrista Chris Lyne (ex Soul Doctor) dopo il buon esordio Drive datato 2014  (leggi qui la nostra recensione)  ci riprova a sette anni di distanza. con questo II. In questo disco non è presente Alessandro Del Vecchio alle tastiere/hammond e sarà forse anche per questo che il lavoro si sviluppa meno sul lato Uk oriented dei vari Zeppelin/Whitesnake(quelli pre 1987), e va più a ricercare le atmosfere battute nel passato da Badlands e Riverdogs.

Molto blues e meno fronzoli dunque caratterizzano questo secondo lavoro,  brani come Fools gold, Sticks And Stones e Spread It All Around tracciano subito un solco ben definito, chitarra tagliente, atmosfera rovente e polverosa e via andare. Più lente e di atmosfera Riverdogs/Badlands, sono Matter of Time e Without You. Più tirata e richiamante agli Whitesnake è Side To Side, mentre il  puro sound USA torna prepotente grazie ai  richiami black di Cold Heat. Altro blues in puro stile serpente bianco è Ain’t Got The Blues che sembra estratta direttamente da Lovehunter, così come la successiva The One You Keep. Chiude il disco la orecchiabile Southland con velate strizzatine d’occhio al southern rock.

La produzione ed i suoni sono marcatamente e volutamente vintage e dopo trenta secondi scorderete di ascoltare un disco del 2021, ma sarete catapultati istantaneamente nelle magiche atmosfere dei seventies. L’esecuzione dei pezzi è sempre magistrale e di buon gusto e la voce di Keith Slack è sorprendentemente perfetta per il genere proposto.

Attenzione quindi se non siete patiti dell’hard & blues questo disco potrebbe suonarvi un po’ ostico all’ inizio, ma se  adorate camminare nell’ombra del blues, magari sull’assolata higway 66 , allora adorerete ogni singola nota che uscirà dal vostro impianto.

 

 

 

 

 

Joel Hoekstra’s 13 – Running Games – Recensione

11 Febbraio 2021 14 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Seconda fatica per i “13” di Joel Hoekstra che , in pausa dagli Whitesnake, riunisce la squadra del primo disco per proporci undici tracce di sano e robusto hard rock. Rispetto al primo disco le parti vocali sono curate in maniera quasi esclusiva da Russell Allen, relegando così l’iperattivo Jeff Scott Soto alle backing vocals, sempre presente invece la rocciosa sezione ritmica formata da Tony Franklin e Vinnie Appice ( certo un Appice, anche se era Carmine, piu’ Franklin, più un chitarrista degli Whitesnake…..un po’ di Blue Murder in testa lo fa venire), alle tastiere viene promosso in pianta stabile Derek Sherinian.

La Frontiers reclamizza questo disco come hard rock anni ottanta suonato con l’energia del 2020, mi permetto di ampliare la definizione, questo disco in molte parti è molto vicino al class metal di scuola dokkeniana ed in altre non disdegna avvicinarsi al metal, soprattutto perché Allen farebbe suonare metal anche il repertorio di Peppino di Capri con quella sua voce possente. Comunque sia il problema delle definizioni è molto secondario, l’importante sono le canzoni, e qui ne sono presenti alcune di caratura superiore.

Si comincia con..Finish Line ed il suo intro alla Kiss O Death, sul quale irrompe potente il cantato di Allen, la potenza iniziale del pezzo viene però stemperata da un ritornello gradevole e catchy che inevitabilmente ti ritrovi a canticchiare dopo appena un ascolto. Arioso e leggero è il refrain di I’m Gonna Lose it, molto vicino ai canoni del rock melodico degli ultimi anni. Hard to Say Goodbye Mostra ancora quel certo equilibrio tra ritornello accattivante e riff di scuola class, gradevole, ma nulla più. How Do You è si un pezzo melodico, ma dalla base ultra solida, non lontano in certi punti da quello che il buon Russel ha proposto con i pezzi meno barocchi dei Symphony X, di grande atmosfera. Heart Attack va a snodarsi in bilico tra gli Whitesnake e le sonorità più cupe che ultimamente sono molto familiari a George Lynch…..io ci sento un eco dei The End Machine, tanto per intendersi. Base di matrice blueseggiante associata a chitarrona roboante e distorta, a volte anche filtrata, caratterizzano anche la successiva Fantasy, piena di cantati in controtempo e suoni di tastiera vicini al sound ‘Nu Metal’, insomma esperimenti sonori tra il vecchio ed il nuovo interessanti e non scontati. Lonely Days alleggerisce un po’ le atmosfere innestando su un riff corposo una melodia abbastanza easy, gradevole ,ma sicuramente non il contesto più adatto per fare brillare le caratteristiche canore di Allen. Struttura canonica rivestita di moderne sonorità è Reach For The Sky , dove è la sezione ritmica a fare la protagonista in tutta la sua classe e forza. Cried Enough For You è il vestito ideale per Allen , si va infatti su territori più vicini al metal, sia per sonorità sia per battute al minuto. Altro riff altra corsa, su Takes What’s Mine continua il viaggio sui bordi del metallo, anche i solos di chitarra e tastiera non sfigurerebbero in album di symphonic metal, e solo gli arrangiamenti del ritornello stemperano un po’ l’atmosfera. Chiude il disco la deliziosa title track, semiacustica e rilassata dove in evidenza sono le parti vocali fornite dai vari interpreti.

In sostanza un disco dove viene raggiunto il delicato equilibrio tra vecchio e nuovo, tra energia e melodia e tra le varie anime dei musicisti che portano in dote la loro sterminata esperienza ed il loro dna musicale. Bravo Hoekstra nel fondere tutto insieme con personalità e buon gusto. Vivamente consigliato.

Arc Of Life – Arc Of Life – Recensione

10 Febbraio 2021 11 Commenti Samuele Mannini

genere: Progressive Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Inizio con un interrogativo, ma ce n’ era bisogno?

Arc Of Life viene definito un supergruppo di Progressive rock , ma in realtà sono gli Yes in versione ridotta, vale a dire che a Billy Sherwood (basso e Voce) si aggiungono l’attuale voce degli Yes Jon Davison ed il chitarrista Jimmy Haun, anche lui presente in passate formazioni degli Yes, la formazione si completa con quello che viene definito the next big thing delle tastiere progressive Dave Kerzner e dal rodato batterista Jay Schellen, che con Sherwood aveva lavorato anche nei World Trade.

Inevitabile ritrovare dunque gli Yes come trademark assoluto di questo disco, in particolare il periodo di 90125 e Big Generator , sono le coordinate principali che guidano il percorso, a dire il vero in maniera sin troppo monolitica. Le canzoni sono spesso giocate sugli intrercci vocali tra i due cantanti che vanno talvolta a fare a gara a chi sia più Andersoniano, come per esempio nel brano  The Magic Of It All, dove complice anche l’uso massiccio dei flltri si crea un po’ uno stucchevole impasto vocale. Non mancano certamente le canzoni di qualità, per esempio Just In Sight , che come sonorità rimanda maggiormente ai World Trade, mi risulta molto gradevole e gratificante. Altre songs gradevoli sono le allegre e spensierate You Make It Real , dove i giochi e gli intrecci vocali sono molto più riusciti, e l’opener Life Has A Way. Varia e progressive in senso più stretto è There For We Are, sicuramente interessante e variegata. Il resto del disco ,almeno secondo il mio parere , galleggia nella mediocrità e annega nel già sentito con punte verso il basso quali Talking With Siri , che francamente trovo quantomeno noiosa.

Riepilogando ce n’era bisogno nel 2021 di un disco del genere? Per vedere finalmente una copertina bella forse si, e ci è voluto un disco progressive per farcene finalmente rivedere una, per quanto riguarda l’aspetto sonoro ognuno si dia la propria risposta. Personalmente è un disco che consiglierei solo  agli Yes fanatics.

CREYE – II – recensione

04 Febbraio 2021 14 Commenti Giulio Burato

genere: AOR / Pop Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music Srl

“I Creye acquisiscono una loro identità con l’innesto del cantante Robin Jidhed e danno vita a un debut-album dalle melodie lussureggianti e ricco di potenziali hit radiofoniche”

Una frase posta a fine della recensione del primo album spazzata via come una brezza su una foglia autunnale. Infatti, all’indomani dell’uscita discografica del 2018, il tastierista Joel Ronning e il cantante Robin Jidhed lasceranno la band; considerando che quest’ultimo già sostituiva Alexander Strandell (Art Nation), i Creye non hanno avuto, usando un eufemismo, un inizio di carriera facile.
Della serie “morto un Papa, se ne fa un altro”, la band ripartirà pochi mesi dopo, presenziando all’ultimo Frontiers Festival del 2019, con l’avvento dell’attuale cantante August Rauer e del tastierista Joel Selsfors. Rifatta nuovamente la formazione, i sei ragazzi Svedesi tornano in campo, oggi, anno 2021, con “II”, appunto, secondo album della loro breve carriera discografia.
Anticipato da ben cinque singoli, l’album si presenta con connotati maggiormente rock- pop oriented che si adattano alla bella voce di August. Le canzoni in questione sono, in ordine di uscita, l’ottantiana “Face to Face”, l’ultra melodica “Siberia”, l’energica “Carry on”, la tastierosa “Find a reason” e la recente “Broken Highway” dal taglio pop. Tutte interessanti e di buona fattura.
Nelle restanti sette canzoni, Il lento acustico “Lost without you”, uscito prematuramente nel 2019, non lascia il segno, mentre l’eleganza pop di “Can’t Stop what we started”, la briosa “The Greatest” e la scintillante “War of love” marchiano a fuoco questo album.

Se ad inizio recensione ho parlato di una brezza autunnale con accezione negativa, ora è rinfrescante, una boccata di ossigeno in una calda giornata d’estate perché “II” è un album rigenerante, piacevole e leggero.

Wig Wam – Never Say Die – recensione

04 Febbraio 2021 28 Commenti Giulio Burato

genere: Glam Rock / Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music Srl

Dopo ben nove anni dal precedente “Wall Street”, che non creò grandi scossoni nella “borsa” del tempo, ritornano i norvegesi Wig Wam capitanati da Glam, all’anagrafe Age Sten Nilsen, indiscutibile frontman.
I primi album della band crearono subito grande interesse nel popolo glam-metal; i quattro ragazzi del nord Europa avevano e hanno infatti le tipiche caratteristiche dei metallari degli anni’80: capelli cotonati, trucco, chitarre in evidenza e grandi melodie.
IL 2021 della nostra Frontiers si apre dunque col presente “Never Say Die”.
Dopo una breve intro strumentale, ecco la title-track e primo singolo che avrebbe dovuto presenziare all’Eurovision Song Context nel disgraziato anno appena passato. Peccato non si sia svolto perché, “se il buongiorno si vede dal mattino”, l’alba di questa nuova release è davvero luminosa. La canzone è stata composta dal chitarrista Trond Holter (Teeny), all’origine per un suo progetto parallelo, e dà qui il via ad una cavalcata di canzoni potenti e di forte impatto. Tra queste il terzo singolo “Hypnotized”, devastante come un colpo di Conor McGregor, la rocciosa “Shadow of Eternity” con un ritornello azzeccato, l’energica “Dirty Little Secret” e “Call of The Wild”, selvaggia e che scruta territori simil heavy-metal con protagonista alla voce il bassista Bernt Jansen (Flash).
La strumentale “Northbound” e la sofisticata “Hard Love”, poste a fine scaletta, sono un simbolico spartiacque con altre canzoni che sanno da Ammunition di Age Sten Nilsen. Parliamo del secondo singolo “Kilimanjaro”, il bel lento “My Kaleidescope Ark” e la conclusiva e delicata “Silver Lining”.

IN CONCLUSIONE

Il vessillo dei Wig Wam (bella cover) torna a sventolare nella torre del glam-metal europeo. Un ritorno in pompa magna.

The Dead Daisies – Holy Ground – recensione

04 Febbraio 2021 4 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: The Dead Daisies Pty Limited

Cominciamo l’anno con una grandissima e attesissima uscita: arrivano i The Dead Daisies, super gruppo composto da grandissimi nomi del panorama hard rock mondiale, ovvero Glenn Hughes, Doug Aldrich, Deen Castronovo e David Lowy.
Data la portata della band, possiamo scommettere già in partenza su cosa ci aspetti all’interno dell’album: la prima traccia e title track “Holy Ground (Shake The Memory)” è un concentrato purissimo di energia, perfettamente cesellata, dalla dinamica interessantissima. “Like No Other (Bassline)” dà la carica, presentandosi come un brano ben riuscito, che riesce a mettere in mostra l’ottima resa strumentale del quartetto con numerose parti soliste. Aumentiamo i giri con “Come Alive”, autentica, cadenzata, spensierata, dalla struttura e dalla linea melodica riconoscibile: un classicone. Arriviamo a pezzo veramente interessante, dalla resa maestosa: “Bustle And Flow” spinge nel vero senso della parola e, per i più curiosi, è possibile trovarne una versione interamente suonata da Glenn Hughes sulla pagina Facebook della band. Forte e malinconica, “My Fate” martella dal primo all’ultimo secondo, con la sua atmosfera cupa e decisa, dove spicca l’intensità emotiva e vocale. “Chosen And Justified” è un buon pezzo, aderente al genere, molto canonico nella trama ma sempre piacevole e scorrevole. Cambiamo sicuramente aria con “Saving Grace”, più oscura e sentita, ritmicamente coinvolgente e suadente, che si riversa nella successiva “Unspoken”, un puro hard rock all’americana (nonostante la variegata provenienza dei componenti dei The Dead Daisies), bello, tosto e corale, che rincuora e travolge. Con “30 Days In The Hole” troviamo il lato più scanzonato dei nostri “giovanotti”, con un rock leggero e tradizionale, dolce e di compagnia, che poco si discosta dal background della band, mantenendo comunque un buon livello esecutivo. “Righteous Days” non si allontana dallo stile dell’album, non apportando grandi modifiche o spostando opinioni riguardo al lavoro, che si conclude sulle soavi note della lunga “Far Away”, una ballad in tutto e per tutto, magnifica e complessa, che chiude un ottimo disco, un parto perfetto e ben riuscito per un supergruppo di tutto rispetto e dal quale ci si deve sempre aspettare materiale di grande qualità.

Angelica – All I Am – recensione

04 Febbraio 2021 2 Commenti Alberto Rozza

genere: AOR
anno: 2020
etichetta: Frontiers Music Srl

Grande ritorno all’attività solista, che mancava da sette anni, per Angelica, la front woman dei The Murder Of My Dreams, con un lavoro dai toni decisamente AOR.
“Calling” apre il disco, con la sua melodia suadente e l’ottimo ritornello orecchiabile, un brano canonico e di grande impatto. Troviamo poi “Beat Them All”, corale, dalla trama lineare ed espressiva, piacevole nel suo dinamismo sensuale. “Addicted To You” mette nuovamente in mostra le doti canore di Angelica Rylin, questa volta creando atmosfere misteriose e gradevoli. Arriviamo al lento “I’m Sorry”, sentito, accorato, emotivo, veramente intenso in tutti le sue parti, compreso un buonissimo assolo di chitarra di Michael Palace. Si rimane su ritmi blandi anche con “Time And Space”, che ricalca perfettamente le sensazioni del brano precedente, pur risultando leggermente più vivace e cadenzato. “Don’t Say Goodbye” presenta una variante alla voce: troviamo in questo caso la partecipazione di Daniel Flores, compagno anche nella vita dell’artista svedese, che crea intrecci vocali di grandissimo interesse con la propria partner. Si alzano leggermente i toni con “Still Bleeding”, solenne e armoniosa, ma senza il giusto piglio, come la successiva “Living On High Hopes”, che si distingue a fatica dai brani precedenti, risultando monotona e poco fresca. “A Pounding Heart” fa sentire la propria emotività, un inno dolce e deciso, aderente in modo perfetto al genere AOR. Si arriva quindi a “Angel”, un acustico sostenuto, delicato, perfetto a questo punto dell’album, giusto quel momento di dolcezza prima del gran finale, riservato all’oscura e cupa “Time To Go Home”, che ci congeda da un lavoro prodotto ed eseguito in grande stile, mettendo in risalto le doti dei principali attori, Angelica in primis, ma che in molti momenti pecca di originalità e freschezza.

Art Of Illusion – X Marks The Spot – Recensione

28 Gennaio 2021 13 Commenti Samuele Mannini

genere: AOR/ Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Work Of Art + Grand Illusion = Art Of Illusion? Se così fosse la recensione potrebbe finire qui, invece sembra proprio che non sia come in matematica e che il risultato sia diverso dalla semplice somma delle parti.

Se infatti vogliamo trovare un difetto a questo disco, è  che salta un po’ di palo in frasca nei diversi generi e i diversi stili  che lo compongono, ma intendiamoci subito , il disco è valido, anzi molto valido. Troviamo  brani di chiara influenza melodica scandinava simili per intenderci alle sonorità Work Of Art/Lionville, altri più permeate da atmosfere che richiamano i Queen, mentre in altri ancora ci sono cavalcate in stile rock/opera molto vicine per epicità a quanto proposto in passato dai Royal Hunt. Se poi questo sia da considerare un peccatuccio veniale o una vera e propria caratteristica , lascio giudicare a chi ascolterà, perché comunque la si veda , le canzoni sono tutte di livello elevato, sia quelle che puntano alla melodia easy alla Toto, sia quelle più articolate e concettualmente più complesse. Il songwriting è di livello assoluto e certe scorrerie tastieristiche di Rydholm sono semplicemente goduriose per chi apprezza il genere. Della voce di Säfsund potremmo parlare per ore già per quanto ci ha fatto apprezzare con i Work Of Art sia con il bellissimo ultimo lavoro dei Lionville, in questo disco però va oltre il suo registro vocale canonico , riuscendo a stupire ancora una volta, sicuramente uno dei cantanti che segnerà l’epoca moderna del rock melodico.

Dodici canzoni eccellenti da gustare seppur nella loro diversità, citiamo ad esempio: l’opener Wild And Free, mid tempo ben orchestrato dalla melodia catchy, la stupefacente My Lovless Lullaby, epica orchestrale ed appassionata come raramente mi è capitato di ascoltare negli ultimi anni. Notevoli anche le escursioni  Queen style di Walz For The Movies e del funny moment A Culinary Detour, dove veramente si tocca con mano l’ ecletticità vocale di Lars.  Più canonica è sicuramente Go, semplice, immediata e di gran classe , mentre la conclusiva Race Against Time è una delicata ed evocativa ballad pianistica, deliziosa ed introspettiva.

Un disco vario , ma di spessore assoluto, che piace sempre di più ad ogni ascolto e vorrei anche fare un plauso alla produzione che mi sembra spiccare di qualche gradino sulla media degli ultimi anni… Se alla fine dell’anno questo disco non sarà nella top ten 2021, vorrà dire che sarà stato un anno veramente straordinario per questo genere, io per conto mio però gli ho già riservato un posticino…