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Thunder – All The Right Noises – Recensione

16 Marzo 2021 17 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Bmg

Riascoltare un disco dei Thunder è come incontrare dei vecchi amici dopo tanto tempo, dopo trenta secondi la familiarità prende il sopravvento e si comincia a parlare dei bei tempi che furono con una naturalità disarmante. Potrei definire questo disco confortante, perché dà la consapevolezza che certa buona musica esisterà sempre e anche se gli anni passano, i porti sicuri dell’hard rock sono sempre aperti.

Non che non sia cambiato niente nel frattempo , per carità, certe sonorità più cupe sono li a testimoniarcelo, ma lo spirito hard blues made in UK è sempre permeante in tutto il disco, ad ogni modo ascoltare l’inconfondibile voce di Danny Bowes e gli splendidi riff di Luke Morley è a mio personale avviso molto rassicurante. Attenzione però a non cadere nell’idea dei soliti “vecchietti” che ripropongono la stessa minestra da più di trent’anni, oltre ai testi molto impegnati di Last One Out Turn Off The Lights , St George’s Day e The Smoking Gun c’è anche la voglia di andare oltre al canonico  con l’indurimento e l’innovazione esplicitate per esempio nella rocciosa Destruction . Ai momenti più duri e riflessivi si alternano anche le atmosfere dei tempi d’oro, per esempio con la spensierata  Going To Sin City ,You’re Gonna Be My Girl  e She’s A Millionairess che io trovo rilassanti, divertenti e naturalmente piene di classe, tanto da far battere il piedino in automatico. Imponente è anche il lento I’ll Be The One che inevitabilmente va a richiamare uno dei top Thunderiani di sempre, ovvero Love Walked In.  Trovo inoltre molto intriganti gli inserimenti delle voci femminili nei cori che strizzano l’occhio al blues and soul di matrice afroamericana, oltre ai vari esperimenti strumentali presenti un po’ in tutto il disco che contribuiscono a dargli quella varietà e vivacità degne del nuovo millennio.

Insomma qui dentro c’è tutto un mondo, ed è un viaggio che solo artisti di livello assoluto possono compiere, grazie al fatto di avere attraversato musicalmente le  diverse epoche ed aver progressivamente arricchito il loro bagaglio senza snaturarsi, ma nemmeno crogiolandosi nelle proprie consolidate radici, evolvendo e maturando come un buon vino. Probabilmente chi non li ha mai apprezzati fino ad ora non cambierà idea con questo disco, ma chi, per un motivo o per l’altro, li aveva persi di vista colga l’occasione di riannodare il filo con questi magnifici musicisti. God Save The Queen……ma anche i Thunder!

P.s. Notevole anche l’edizione de luxe da prendere sicuramente in considerazione.

 

 

Ronnie Atkins – One Shot – Recensione

16 Marzo 2021 10 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock/Aor
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Ed eccolo, finalmente, questo disco solista del cantante dei Pretty Maids! Non vi nascondo che l’attesa per ascoltare quest’album ha fatto crescere notevolmente le mie aspettative.
La prima canzone del gruppo madre la sentii nel lontano 1987. Si trattava di “Love games”, singolo sornione e radiofonico tratto dall’album “Future world”. La cosa che mi colpì maggiormente di quel pezzo fu l’uso poliedrico della voce, melodica ed ammiccante nella strofa, aggressiva, molto metal, nel pre chorus, di nuovo piaciona nel refrain. Sembrava addirittura che a cantare le varie sezioni non fosse la stessa persona. Gradii molto il genere, in quanto mi trovavo nella fase transitoria fra il power degli Helloween e la mia nuova scoperta, l’hard rock melodico e l’AOR. Così cominciai ad acquistare tutti i dischi successivi della band. Tutti album di buon valore assoluto con alcuni picchi di eccellenza. Così come ottimi sono i due LP realizzati dal cantante in collaborazione con Erik Martensson degli Eclipse sotto il moniker Nordic Union.
Poi, a fine 2019, la notizia, divulgata dallo stesso Ronnie, della sua malattia: un tumore al polmone con metastasi a distanza. Una diagnosi che avrebbe messo KO chiunque. E invece il nostro non si è dato per vinto. Ha affrontato operazioni e terapie senza perdersi (quasi) mai d’animo e, per di più, con l’aiuto del compagno d’armi Chris Laney, in piena pandemia, ha deciso di mettere giù un lavoro da solista! Non c’è che dire, un vero vichingo dei nostri tempi. Chi vi scrive proprio non riesce a non farsi coinvolgere dalle vicende personali dei propri beniamini, tanto più se riguardano una malattia che conosce molto bene e della quale sa perfettamente quali siano le conseguenze fisiche e, soprattutto, psicologiche. Dunque le aspettative delle quali parlavo all’inizio sono aumentate ancora. Soprattutto ero ansioso di scoprire se “One shot” sarebbe stato un disco intimista, riflessivo e pervaso dalla malinconia oppure se la reazione “musicale” del frontman sarebbe stata pari a quella clinica e quindi ne sarebbe venuto fuori qualcosa di granitico, al limite del power metal.
Ebbene, il genere proposto su quest’album lo definirei come una solida base di hard rock sulla quale viene innestata la vena melodica tipica dell’ AOR nordeuropeo. I pezzi sono tutti belli. Composti in modo pressoché perfetto. I ritornelli sono catchy al punto giusto. I musicisti coinvolti nel progetto dimostrano di conoscere alla perfezione il loro mestiere. La produzione, affidata al fedele Chris Laney, non presta il fianco alla benché minima critica. E poi c’è lui: l’indistruttibile Ronnie. La sua inconfondibile voce non sembra quasi risentire delle molte primavere e, incredibilmente, nemmeno della debilitazione dovuta alla malattia. Quella parte selvaggia e animalesca del suo modo di cantare è sempre lì, più viva che mai. E questo finisce con il dare a tutto il disco quel suono aggressivo e melodico al tempo stesso. Caratteristica che fece la fortuna di gruppi come i Dokken ed i Ratt a che fu al tempo catalogata come class metal. Insomma, immaginate i Nordic Union senza l’invadenza di Martensson e la relativa “eclipsizzazione” ed avrete un’idea di quanto proposto.
In un disco come questo è quasi superfluo fare una disamina ad uno ad uno dei brani… ad ogni modo il disco si apre con “Real”, pezzo dalla scintillante partitura e dal refrain da urlare a squarciagola, tanto per cominciare con il piede giusto! “Scorpio” è invece il brano che richiama maggiormente lo stile dei Pretty maids, con il suo incedere granitico di chiaro stampo mitteleuropeo. Intro di piano, crescendo emozionale e refrain anthemico caratterizzano il primo singolo estratto “One shot”, senz’altro una delle canzoni di maggior pregio dell’intero platter. Nell’americaneggiante “Subjugated” la sezione ritmica la fa da padrona, mentre l’intera linea melodica risente chiaramente dall’acquisita parentela con gli svedesi Eclipse. L’arpeggio acustico e la voce vagamente filtrata della prima strofa di “Frequency of love” potrebbero far pensare a qualcosa di ispirazione modernista, ma ci si ricrede subito quando partono bridge e chorus, classicamente AOR nordeuropeo. Il sound dell’immenso “Back for the attack” dei Dokken emerge prepotente in “Before the rise of an empire”, dove le chitarre contendono il primato alla prestazione vocale di Ronnie. Unica concessione al romanticismo è la semi ballad “Miles away” dalla struttura rigorosamente ottantiana, strofa-bridge-coro-assolo, usata e strausata ma sempre di grande effetto, specie se sapientemente condotta da un personaggio come il nostro. “Picture yourself” è super classica: strofa cantata magistralmente sopra un bell’arpeggio e un bel refrain, lungo ed accattivante, nella miglior tradizione del nostro genere. Ancora parti arpeggiate alternate a granitici riffs costellano “I prophesize”, nella quale la melodia vocale è dotata di una grande enfasi sul refrain dove l’animale Atkins dimostra ancora una volta di non essere domo. Profumo di class metal si può apprezzare anche in “One by one”, costruita su schemi ottantiani ed impreziosita da riffing di gran classe contornato da tastiere mai invadenti. Ed è già ora di chiudere con “Dreams are not enough”, un altro brano legato a doppio maglio alla tradizione Pretty Maids degli anni 90, piacevole in ogni singola nota.

“One shot” è uno dei dischi meglio composti, adeguatamente suonati ed elegantemente prodotti che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi 2 o 3 anni. Mi riesce praticamente impossibile muovergli una critica. Piacerà senz’altro a tutti: noi vecchietti che abbiamo vissuto l’epoca d’oro e i (pochi) giovincelli che si sono avvicinati al genere solo negli ultimi lustri, grazie all’ attività encomiabile di qualche etichetta specializzata. Però io un piccolo appunto mi sento di muoverlo: questo è un album fin troppo impeccabile. Nonostante le dichiarazioni di Ronnie, non vedo così evidenti nel songwriting le tracce dello sconvolgimento interiore che una malattia come la sua inesorabilmente lascia nell’animo umano. Insomma, mi pare che il nostro sia stato fin troppo professionale da questo punto di vista, riuscendo a lasciarsi condizionare solo marginalmente dai propri sentimenti e cercando di confezionare l’album perfetto per i suoi fans più che per se stesso. Per capire cosa intendo, se volete, provate a sentire “Garden of remembrance” del gigante scozzese Fish. Lì si che traspare in tutta la sua potenza la sofferenza di chi l’ha composta per le cose brutte che la vita gli ha messo davanti.
A parte questa considerazione personale e, di conseguenza, marginale, invito tutti all’ascolto di questo disco, perché sono convinto che difficilmente sarà eguagliato o superato da nessun’altra uscita quest’anno. Grande Ronnie! 100 di questi album!

Thundermother – Heat Wave – Recensione Breve

16 Marzo 2021 2 Commenti Giulio Burato

genere: Hard Rock
anno: 2020
etichetta: Afm

In occasione della prossima uscita di “Heat Wave” nella versione deluxe, contenente tre inediti, tre canzoni live registrate al Wacken World Wide e ospiti come Dregen (Backyard Babies) e Jesper Binzer (D-A-D), vado a rispolverare la versione classica, uscita il 31/07/2020.
Mi trovo, finalmente, dinanzi ad una band tutta al femminile. Premessa, dovuta.
L’anno scorso Filippa Nassil, chitarrista e leader indiscussa della band, assieme a Guernica Mancini (voce), Emlee Johansson (batteria) e Majsan Lindberg (basso) ci hanno consegnato un validissimo album rock and roll di chiara matrice “seventies”, reso fresco e contemporaneo grazie all’ottima produzione di Soren Andersen.

Non mi dilungo a fare l’inventario di tutte le canzoni, ma vado direttamente a menzionare quelle che più mi hanno colpito.
“Dog from hell”, un impasto lievitato di ZZ Top e di Twisted Sister che si gusta con grande piacere.
“Back in ‘76” un cadeau che omaggia direttamente “High Voltage” degli AC/DC
“Heat Wave”, ossia un’ondata di calore ma di fresco (e immediato) rock and roll: un controsenso di parole ma che funziona dannatamente bene.
“Sleep”, lento che ricorda gli Evanescene di “My Immortal”: bello ed intenso.
“Free Ourselves” dove mi piace immaginare il buon Angus passar dal palco, vista la chiara “matrice australiana” della chitarra.
La polverosa e blues “Mexico” con una piccola strofa ispanica da assaporare davanti ad una buona tequila.
“Driving in Style” e “Bad Habits” primo singolo e ultima canzone della tracklist; gli opposti ovviamente si attraggono nei dintorni di Sydney e dei suoi “mostri sacri”.
Inventario concluso con un bilancio decisamente in positivo.

Dopo la rivoluzione all’interno della band avvenuta nel 2017, con l’innesto di tre nuove componenti e l’immediata uscita di un omonimo album, le Thundermother rilasciano un lavoro tutto grinta, idee e groove.
L’amalgama della band si è dunque affinata e “Heat Wave” ne è la riprova. Nel suo genere, una delle migliori uscite del 2020.
Largo alle donne (rock)!

Gary Hughes – Waterside – Recensione

12 Marzo 2021 24 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Il buon Gary ha sempre alternato opere soliste agli album dei Ten e ad altri progetti come Once And Future King, ed ha sempre lasciato l’esplorazione del lato più intimo e melodico proprio ai suoi solo album, come se la sua enorme capacità compositiva lavorasse a compartimenti stagni, scrivendo pezzi a seconda di quello che la situazione richiede. Così è anche per questo disco che segue idealmente il filo del suo omonimo del 1992 e di Precious One, molto più che dell’ultimo Veritas del 2007. Il marchio di fabbrica è dunque subito riconoscibile ed anche se non si raggiungono le vette degli anni 90, si nota da subito un deciso miglioramento rispetto al precedente Veritas , sia per quanto riguarda la struttura compositiva, sia per la produzione vera e propria, che qui si attesta su livelli decisamente migliori. Ovviamente non è certo questo il disco da cui aspettarsi sperimentazioni o stravaganze, e in fondo è un bene che sia così , perché quello che a me è sempre piaciuto di Mr. Hughes è che pur con una estensione vocale limitata, ha sempre saputo infondere feeling e passione nelle sue composizioni ed interpretazioni.  Il suo pezzo forte sono sempre stati infatti  i lenti ad alto contenuto emozionale e con mia somma gioia qui ci sono un paio di pezzi che rimandano alle atmosfere ed ai fasti passati , nello specifico l’opener All At Once It Feels Like I Believe, ma sopratutto When Love Is Done, riprendono e riannodano la trama melodica dei suoi primi solisti.

Tirando le somme il disco risulta piuttosto gradevole, ed oltre i pezzi sopra citati risultano di pregio anche la rockeggiante Seduce Me, la romantica Screaming In The Halflight ed il mid tempo Ten oriented Lay Down.

Niente di trascendentale per carità , ma tre quarti d’ora di buon intrattenimento di puro melodic rock made in england. Ben tornato Gary.

Chez Kane – Chez Kane – recensione

10 Marzo 2021 31 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music Srl

Scritturata da Frontiers grazie al lavoro di intermediazione e all’interesse di Danny Rexon, vocalist dei Crazy Lixx qui in veste di co-autore e produttore del disco, arriva all’esordio discografico la cantante inglese Chez Kane.
Domanda spontanea: Immagine e attitudine da candida principessa stile Issa per rimanere in famiglia? No, dalla copertina la cantante appare una vera Rocker, immagine un pò sporca , attitudine aggressiva rispetto alla comunque brava cantante norvegese; un bel binomio complementare d’immagine sulla quale la label partenopea sembra puntare parecchio visto la medesima data di uscita dei rispettivi dischi solisti.

E la musica? Vocalmente immaginate una Fiona Flanagan più aggressiva nel timbro ma con la medesima estensione vocale e dotata di una modulazione non banale che carica i brani di sfumature emotive in grado di aggiungere e non tagliare a un songwriting di livello, che a tratti sa di già sentito, ma non per questo prevedibile o banale, tutt’altro.
Molti brani presenti in scaletta evidenziano la ricerca di suoni e arrangiamenti inconsueti rispetto le ultime uscite discografiche, a testimonianza i numerosi inserti di sax, strumento che amo, rendendo l’ascolto al nostro padiglione seducente e caricandoci di curiosità per le strade stilistiche che andremo a sentire.
Merito a Danny Rexon che sta dimostrando, in primis con i Crazy Lixx, di saperci fare in fase di produzione.

Si parte con “Better Than Love”, un mix perfetto tra Fiona e Vixen, dotata di un ritornello urlato al cielo d’impatto immediato, melodico ed intrigante, condito dal primo assolo di sax che ci riporta a un certo modo di creare musica dèmodè, tanto anacronistico quanto affascinante.
Partenza col botto seguita da “All of It”, rock song immediata, il deja vu doveroso per un esordio discografico collocato a queste latitudini musicali.
“Rocket on The Radio” è stato il singolo di lancio e ben riassume la proposta musicale, up tempo melodico chiuso da un ritornello scritto per rimanere in testa.
Ancora ricordi delle prime Vixen in “Too Late for Love”, ancora ricerca di armonizzazioni vincenti.
Cala leggermente il ritmo con la semi ballad “Defender of the Heart”, uno dei brani meglio riusciti del lotto che non avrebbe affatto sfigurato nel capolavoro “Bad Animals” delle sorelle Wilson.
L’intreccio melodico di linee armoniche tra Sax-tastiera-chitarra nella seconda parte del pezzo è clamoroso.
Alcuni brani come “Ball N’ Chain” partono dalle prime battute con il coro cantato a cappella forti di un ritornello vincente per poi sfociare in finali intrinsechi di ispirazione musicale

Arrivando fino all’ultima traccia, “Dead End Street”, la quale profuma come un crocevia tra Pat Benatar e la Lee Aaron più melodica , si concretizza il piccolo rammarico nella eccessiva uniformità di alcuni brani proposti, visto le indubbie capacità della vocalist e un songwriting ispirato.
Un vero lento avrebbe giovato all’intero disco, ne avrebbe alzato il voto, e a noi avrebbe permesso di entrare nel mondo di Chez Kane a 360 gradi.
Rimane un ottimo esordio e nel nostro Universo musicale sempre più esigente e ahimè esiguo, ci auguriamo le venga riconosciuta la giusta lode.

Kreek – Kreek – recensione

10 Marzo 2021 3 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music srl

Grande ritorno nell’universo hard rock britannico: torna a far parlare di sé Antony Ellis, ex cantante dei Bigfoot, con il suo nuovo progetto Kreek, dalle sonorità pure e dai risvolti interessanti.
Apertura riservata a “At The Bottom Of Hell”, ovattata, dai suoni vintage, calda e intensa, offre subito un panorama chiaro del genere e dell’intenzione della band.

“Missiles” rispetta pienamente il proprio nome: batteria tambureggiante, melodia travolgente, complessivamente un buon pezzo, coinvolgente e intenso. Atmosfere più heavy con “Meet Your Maker”, più crudele, di breve durata, dritta al cuore, come un proiettile spietato: promossa. Arriva la cadenzata e suadente “Million Dollar Man”, della quale è possibile visionare un clip su Youtube, che incuriosisce l’ascoltatore con la sua dinamica variegata e un ottimo sound complessivo, sia nella parte ritmica che nella parte solista. “One Voice” mette in mostra una linea vocale ipnotica e misteriosa, spinta al limite, passionale e autentica, un canto delle sirene che ci traghetta nella seconda parte del lavoro, dove troviamo “Man On My Shoulder”, tirata, tosta, titanica, una cavalcata trionfale dal primo all’ultimo minuto. “Stand Together” è un brano tamarro al punto giusto, ennesima sfaccettatura strumentale e stilistica di una band in “palla”. Sempre sull’onda lunga dei suoni cupi e pestati, incontriamo “Down’N Dirty”, canonica nella struttura e nella cadenza, piacevole ma senza grosse pretese. Questa seconda parte risulta più tosta ed heavy, fatto riconfermato dall’oscura “Get Up”, dove la perizia musicale e strumentale anch’essa si riafferma in modo preponderante. “You’re On Your Own” è una ballata lenta, dolce, una delizia conclusiva che che ci congeda da questo album di debutto complessivamente interessante, ascoltabilissimo, dalla resa ottimale e convincente, che sicuramente lancia i Kreek nel panorama europeo e lascia ben sperare per il futuro (soprattutto live).

Rockstar Frame – Stand Up… Jump ’n’ Fly – recensione

10 Marzo 2021 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Volcano Records

In uscita il terzo album degli hard rockers italiani Rockstar Frame, che attizzano e strizzano l’occhio a tutti gli amanti del periodo californiano anni ’80, con sonorità azzeccatissime e tematiche quantomeno appropriate!

Partenza col botto riservata alla coinvolgente e scanzonata “Is Not The End”, che presenta un salto dinamico veramente pregevole sul ritornello. Sonorità riconoscibili e il giusto piglio accompagnano “Get On My Knees”, particolarmente cadenzata e spregiudicata, che si esaurisce troppo in fretta e si getta nella similmente tonante “Hey Man!”, dalla struttura tipicamente eighties. Non ci allontaniamo molto dallo stile nostalgicamente gradevole della band con “Ready To Go”, molto godibile, orecchiabile, che dà all’ascoltatore la giusta carica di hard rock. “Hypnotized Fools” è calorosa e ipnotica, senza chiedere troppo risulta piacevole in ogni sua parte. Arriviamo all’immancabile brano lento: “Beyond The Fear” risalta per sentimento e intensità, sorretto da una base strumentale convincente e dalla presenza di una linea vocale veramente accorata. Torniamo su binari più festosi e scatenati con la movimentata e canonica “Golden Dreams”, dal sapore autentico, dall’ottima variante ritmica nella parte finale, che aggiunge una nota di freschezza necessaria. “Break Me Down” ci rimanda in California, classica canzone da party sfrenato, assolutamente promossa sotto tutti i punti di vista! Arriviamo a “One In A Million”, brano dalle atmosfere tipiche dell’hard rock anni ’80, dai cambi di dinamica azzeccati e dalla struttura particolarmente pregevole. La coppia “Halloween Night” – “ Like A Monster” aggiunge al lavoro due grandi brani tosti e puri, dalle ritmiche martellanti, coinvolgenti, che in un attimo ti riportano a un glorioso passato che, testimone ne è questo album, non è ancora tramontato. Le soavi note di “Sunshine In The Dark”, molto southern nella sua trama dolce e gradevole, ci congedano con un raggio di luce che attraversa l’oscurità che attualmente circonda il mondo della musica; ci congedano da una band con un’identità certa e sicura anche se a tratti non proprio originale; ci congedano da un prodotto che sicuramente darà soddisfazioni ai Rockstar Frame.

Autum’s Child – Angel’s Gate – recensione

10 Marzo 2021 12 Commenti Vittorio Mortara

genere: AOR
anno: 2020
etichetta: AOR Heaven

Se dovessi cominciare questa recensione con una disamina dettagliata dell’intera produzione discografica di Mikael Erlandsson, leader di questi Autumn’s Child, ne avrei probabilmente per un paio di pagine. Quindi mi limito a due nomi su tutti: Last Autumn’s Dream e Lover Under cover. Due gruppi non molto diversi nello stile proposto, cioè un AOR dalle forti tinte nordeuropee, con melodie vocali sempre pregevoli ed una “penna” ispirata nella composizione dei pezzi, vantanti spesso la collaborazione di ospiti illustri come Marcel Jacob dei Talisman e Jamie Borger dei Treat.
All’inizio dei 2000 si cominciava ad uscire da quello che il collega Leonardo Mezzetti ha recentemente definito “Il medioevo dell’AOR”. E il primo disco dei Last Autumn’s Dream fu il classico fulmine a ciel sereno! Un album pressoché perfetto che riconciliava noi, amanti del genere, con il mondo. Belle canzoni, una voce dolce ma con un fondo sabbioso, musicisti di prim’ordine, produzione degna… insomma, tutto quello che il decennio precedente non aveva saputo offrirci. Poi, con cadenza quasi annuale, anche se con formazioni rimaneggiate, i LAD hanno sfornato altri 13 albums. Nessuno di questi ha mai raggiunto le vette stabilite dal capostipite. Tuttavia le loro uscite sono sempre state, per il sottoscritto, una garanzia: un’ora da passare con belle canzoni, una bella voce e musicisti all’altezza. Quello che si può rimproverare alla band è forse un certo immobilismo stilistico. Una mancanza di elementi innovativi che possano far ricordare un album piuttosto che un altro. Anche con i Lover Under Cover, band fondata con Mikael Carlsson e Martin Kronlund dei Dogface, la musica non cambia moltissimo, salvo un leggero spostamento verso il versante più hard del genere. Il valore intrinseco resta comunque alto. Così come nei due lavori a nome Autumn’s Child: il precedente omonimo platter del 2019 e questo “Angel’s Gate”.
Ad accompagnare Mikael troviamo musicisti scandinavi di ottimo livello, tra i quali spicca il chitarrista dei Moon Safari, Pontus Akesson, in tutti i brani. Più le “comparsate” di Jona Tee degli H.E.A.T. e del vecchio tastierista dei LAD, Claes Andreasson.

Andiamo con i brani. L’apertura è ottima: “Where angels cry” mi ha ricordato non poco i Glory dell’omonimo debutto, con le sue scale neoclassiche di chitarra e gli intermezzi pianistici. Molto efficace il ritornello. Prosegue sulla stessa falsariga “Aquarius sky”, con quel tocco epico che porta alla mente i teutonici Axxis. Territori più commerciali vengono invece percorsi da “Don’t say that it’s love”, bellissima con i quei licks di chitarra e quelle tastiere che culminano in un chorus estremamente orecchiabile. In grandissimo spolvero la voce di Mikael, il cui tono dona maggior forza all’interpretazione. Prima ballad del disco, “Tear from the sky” mette in luce tutta l’esperienza di Erlandsson nell’uso delle sfumature della propria vocalità. Ne viene fuori un pezzo che, ancora una volta, mostra l’inclinazione all’epicità piuttosto che al romanticismo. Più Ten che Foreigner, insomma. Il riff più sguaiato del disco apre “Love is not an enemy”, canzoncina un po’ anonima che accosterei ai pezzi meno riusciti degli MSG del periodo McAuley. “The dream of America” potrebbe essere considerata un curioso ibrido Queen/Asia/Boston e, per quanto possa sembrare strano, si tratta di un brano abbastanza riuscito. Si prosegue con un up tempo classy come “Straight between the eyes”, forse non il genere più adatto ai nostri. Ma devo dire che il piedino e l’air guitar partono da soli! E poi tocca al secondo lento “Don’t ever leave me”, stavolta sul versante romantico del genere, dove la voce di Erladsson si fa più struggente e l’assolo di chitarra sembra preso pari pari dal repertorio di Gary Moore. Così come sembra presa pari pari da un disco dei Cheap Trick la seguente “A piece of work”, con Mikael che scimmiotta perfettamente le tonalità del grande Robin Zander. E’ ancora una volta la sapiente ugola del frontman a caratterizzare la cadenzata “Only love can save the world”, canzone che puzza di stelle e strisce lontano un chilometro, con una spolverata dello stile dei Queen qua e la. Mi è piaciuta molto! E la melodrammaticità della Regina riaffiora anche in “Your words”, brano che, vi parrà strano, mi ha portato alla mente la splendida “A tale that wasn’t right” dei mitici Helloween! La versione europea del disco finisce qui, mentre quella giapponese dell’album presenta una bonus track: “Back to the other side”, quasi una outtake da “Back for the attack” dei Dokken con un riff di chitarra di quelli che George Lynch non sembra più capace di partorire.

Se, dopo lo scoppiettante debutto dei Last Autumn’s Dream, nessun disco made in Erlandsson ha mai più dato segni di originalità o evoluzione (e questo “Angel’s gate” non fa eccezione), è altresì vero che nessuno dei 20 dischi firmati dal vocalist ha mai peccato di qualità compositiva, né di quella esecutiva. L’album è bello, ben suonato, omogeneo e vario. Un paio di canzoni valgono assolutamente la pena. E poi, almeno dal punto di vista di chi vi parla, non è che nel 2020 siano usciti tutti sti dischi fantastici… personalmente avrei voluto che gli H.E.A.T. avessero pubblicato un disco fotocopia di “Into the great unknown” piuttosto che quel mappazzone di “H.E.A.T. II”. Stesso discorso per gli Eclipse con l’ultimo lavoro. E potrei andare avanti con altri grossi nomi…
A me l’album è piaciuto, esattamente come mi sono piaciuti praticamente tutti i dischi dei LAD, il precedente LP e i due dei Lover Under Cover. Bravo Mikael e viva la monotonia. A patto che sia di qualità!

Inglorious – We Will Ride – Recensione

10 Marzo 2021 4 Commenti Lorenzo Pietra

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Records

Tornano gli Inglorious con il loro quarto lavoro intitolato We Will Ride.La band dopo la pausa forzata torna con una line-up cambiata, infatti agli storici Nathan James alla voce e Phil Beaver alla batteria troviamo i nuovi volti di Danny De La Cruz e Dan Stevens alle chitarre e Vinnie Colla al basso.

L’album è di gran spessore e non può che confermare la classe degli inglesi, che riescono ancora a miscelare un hard rock di ottima fattura e melodie sempre coinvolgenti.

Si parte dalla potente She Won’t Let Go dove il riff iniziale e il ritornello hard rock ti entrano in testa al primo ascolto, a ruota segue Messiah dove il riff molto Led Zeppelin sfocia in un melodico ritornello dove Nathan James sfoggia tutta la sua potenza vocale. Medusa strizza l’occhio al southern, con la slide guitar iniziale per continuare nel classico melodic rock devoto alla band. Eye of The Storm non poteva avere titolo più azzeccato: l’arpeggio dolcissimo iniziale accompagnato dalla voce quasi sussurata di James e le improvvise esplosioni elettriche caratterizzano il brano. Cruel Intention ha il sapore dei Whitesnake più classici col suo riff tagliente, mentre in My Misery un pianoforte iniziale tiene il tempo per concludere con la solita grande esplosione rock. Do You Like ritorna su binari hard rock con le chitarre in primo piano e James su tonalità altissime, da segnalare l’assolo centrale di chitarra breve ma di spessore. He Will Provide vira su un Heavy/Hard rock tiratissimo, aumentano i bpm e l’adrenalina è alle stelle. Gran pezzo. Si continua con We Will Meet Again che inizia con batteria e tastiere e il sound è più stelle e strisce , più compresso, lineare, ma dove ancora gli Inglorious non sbagliano il ritornello. God of War ricorda qualcosa del precedente Ride To Nowhere con il basso che accompagna le chitarre e dove il bridge centrale rallentato e l’accelerazione finale riescono a dare ancora emozioni. Si conclude con title track We Will Ride dove si abbassano i ritmi per un mid tempo di classe con un Nathan James ancora sugli scudi, che passa con una disinvoltura disarmante da tonalità basse a alte.

IN CONCLUSIONE:
Quarto album e quarto centro per la band inglese. Un album che segue il filo dei precedenti lavori, mostrando una maturità compositiva e sonora degna dei grandi nomi dell’Hard Rock

Black Paisley – Rambler – recensione

08 Marzo 2021 6 Commenti Stefano Gottardi

genere: Classic Rock
anno: 2020
etichetta: Autoproduzione

I Black Paisley nascono nel 2014 da un’idea del cantante Stefan Blomqvist, ed inizialmente sono una cover band conosciuta come StephMetal. Nel giro di un anno diventano Black Paisley (nome ispirato dalla Fender signature di Richie Sambora) e cominciano a comporre materiale originale. Lo stile è un moderno mix di classic rock, hard rock melodico e country rock. Nel 2017 esce il primo full-length Late Boomer, un titolo che con grande autoironia rimarca l’età non proprio verdissima dei componenti del gruppo. Prodotto da Mats Lindfors (Scorpions, H.E.A.T, Talisman, John Norum, Candlemass), il platter ottiene grande consenso fra gli appassionati che riconoscono al combo svedese una certa personalità. In seguito alla prematura scomparsa di Lindfors, per il successivo Perennials del 2018 cambiano il team di produzione ed il batterista con Mikael Kerslow, che dopo aver suonato su un paio di canzoni del debut entra in pianta stabile in formazione al posto di Robert Karaszi. Le novità non intaccano in alcun modo la qualità, è il titolo del disco questa volta sottolinea la volontà della band di non essere soltanto una meteora nell’affollato panorama musicale contemporaneo. Sempre autoprodotto, l’album riceve un’altra buona dose di consensi. Ritrovato Karaszi dietro ai tamburi, ai membri originali Stefan Blomqvist e Jan Emanuelsson nel 2020 si unisce il chitarrista degli Electric Boys, Franco Santunione, e assieme danno vita a Rambler. Il bell’artowrk di copertina riprende l’idea degli altri CD (teschi e fiori) e sin dall’opener “Damned” a non cambiare è il sound, che abbraccia ancora una volta territori classici, melodici e dal retrogusto blueseggiante, né la qualità generale, che resta altissima. Una caratteristica dei precedenti lavori era quella di essere estremamente coesi sul piano sonoro e di un livello sempre sopra alla media. Gli otto brani che compongono questo disco non sono da meno, certo sono forse pochi ma di contro non c’è l’ombra di un riempitivo: otto canzoni, otto centri! “Without Us”, scelto come primo singolo e video, è il biglietto da visita perfetto, il pezzo che una volta ascoltato difficilmente non fa venire voglia di sentire il resto dell’album. Nonostante i richiami a qualche artista storico come Whitesnake (“Higher Love”), Cheap Trick (“Save The Best”) e Gary Moore (“Falling”), la produzione ha un occhio di riguardo verso la contemporaneità, riuscendo a bilanciare passato e presente in modo sensato: pur con un’impronta del songwriting decisamente retrò, non si ha mai l’impressione di ascoltare un disco troppo datato. Insomma, c’è anche tanta, tantissima classe, in questi 31 minuti di musica, a dimostrazione che a volte le cose che possono sembrare le più semplici sono il frutto di un lavoro appassionato e altamente competente.

IN CONCLUSIONE

Un disco che infila nel calderone un po’ più di energia ed immediatezza rispetto al passato, facendo se possibile un ulteriore passo in avanti rispetto al pur ottimo predecessore. Di certo una delle migliori uscite dell’anno scorso, a cui è mancato forse soltanto il supporto promozionale di una buona casa discografica.

Prima di chiudere, un doveroso cenno alla confezione: il prodotto si presenta in formato jewel case, con booklet di 16 pagine ricco di foto e completo di tutti i testi, CD silver pressed, ed è anche disponibile in una splendida versione digipack 19×19, limitata e numerata.