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The Treatment – Waiting For Good Luck – Recensione

04 Maggio 2021 6 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Grande ascolto e grande uscita con il roboante quinto lavoro di studio degli inglesi The Treatment, che propongono un hard rock vecchio stampo.

Ottima apertura con “Rat Race”, classica, dalla struttura canonica, dal ritornello riconoscibile e cantabile, complessivamente un buonissimo modo per rompere il ghiaccio! Si passa a “Take It Or Leave It”, molto gioviale e leggera, non pesa in alcun modo e riempie positivamente la stanza e il cuore con la sua ritmica scanzonata e la trama solare. “Lightning In A Bottle” presenta una forma più cadenzata e spezzettata, dai richiami tradizionali e facilmente riconducibili al panorama hard rock più classico, soprattutto agli Aerosmith. Il ritorno al classico, nella struttura e nelle sonorità, è chiarissimo e ricorrente: “Vampress” non fa altro che riconfermare questa teoria, dimostrandosi nel complesso un brano azzeccatissimo per tiro e per stile forsennato. “Eyes On You” non perde un colpo, tosta, granitica, oscura, tira dritto come un toro furente dal primo all’ultimo secondo, come la successiva “No Way Home”, che provoca un naturale movimento ritmico del corpo e della testa: hard rock puro. Sempre sulla stessa onda delle precedenti tracce troviamo “Devil In Detail”, dalle sensazioni più tenebrose e preziose, ottimo cambio di atmosfera, che rende la fruizione sempre interessante e deliziosa. Un intro ipnotico ci catapulta nella sentita e un po’ “neutra” “Though Kid”, che poco lascia attestandosi nella media del genere. Si torna a galoppare: “Hold Fire” è un pezzone rock verace e spudorato, magari con un sentore di già sentito, ma assolutamente godibile e scatenato al punto giusto. Si passa al rock blues con “Barman”, un tributo dovuto, un clichè, immancabile in un ottimo album hard rock, anche contemporaneo. Non ci allontaniamo dallo stile dei The Treatment con “Let’s Make Money”, corale, dalla ritmica molto AC/DC, che tutto sommato non stufa e piace sempre nella sua semplice efficacia: diretta e convincente. Nessun lento, nessun calo di tensione: la riprova è nella conclusiva e intensa “Wrong Way”, decisa, crudele, ultimo atto di un lavoro dai suoni e dalla composizione convincenti, che ci consegnano una band matura, affermata e dal sound ormai assodato, una vera e propria certezza nel panorama musicale globale.

FarCry – Balance – Recensione

04 Maggio 2021 2 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Devo dire la verità, di fronte a band come questi FarCry, il vostro redattore si trova in grave difficoltà nel redigere una recensione. Da non confondere con i quasi omonimi Farrcry, autori nel 1992 del misconosciuto capolavoro “Mr. Red, white and blue”, il gruppo a stelle e strisce approda con questo “Balance” al terzo album, il primo con il nuovo cantante Bob Malone . E francamente non riesco proprio a trovargli un pregio. Un perché.
A prescindere dal fatto che già i precedenti “High Gear” e “Optimism” non sono stati pietre miliari del genere, qui latita un po’ tutto. Le composizioni non hanno un minimo di originalità. I chorus, quasi sempre, mancano di immediatezza. La produzione è piatta ed impastata. E, dulcis in fundo, la voce del nuovo singer è piuttosto monocorde, contribuendo a dare all’album una caratterizzazione piuttosto noiosa che non invoglia assolutamente al riascolto.

Se vogliamo proprio trovare un pregio alla band, possiamo dire che i musicisti, in paricolare i chitarristi, non sono degli sprovveduti. Peccato che le loro prestazioni siano messe al servizio di un hard rock poco incisivo e scialbo e non siano sufficientemente valorizzate dalla cura dei suoni.
Il songwriting prende spunto dai classici del genere, Slaughter e Black’n’Blue nella fattispecie, senza però un minimo di personalizzazione o modernizzazione. Non è nemmeno facile una analisi brano per brano, in quanto l’ascolto dell’ intero platter lascia quella sensazione di monolitica insoddisfazione e la susseguente incapacità di ricordare una canzone piuttosto che un’altra. Se proprio vogliamo estrapolarli, forse i momenti migliori sono il lento “Chasing rainbows”, nel quale la voce cantilenosa di Malone sembra più centrata, la catchy “Stay away” dall’ interessante lavoro chitarristico, e l’aoerreggiante “I am your man”, se non altro perché firmata Newmann…

In buona sostanza, se avete già acquistato tutti i bei dischi che stanno uscendo in questi giorni e avete ancora fame di hard rock, allora compratevi anche questo “Balance”. Altrimenti usate i vostri soldini per altro, cercando magari spunto da quanto suggerito su queste pagine!

Escape – Fire In The Sky – Recensione

29 Aprile 2021 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic rock
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Gli Escape sono una band inglese con all’attivo due album, Unbreakable uscito nel 2012 e Borderline nel 2013, i suoi membri vantano collaborazioni con Bob Catley, Legion, Arabia e dopo la recente riformazione della band hanno deciso di fare uscire questo disco che riprende canzoni dei due precedenti album, del repertorio solista del cantante Vince O’Regan, più tre  outtakes tratte dal solo album di Bob Catley Spirit of  Man (Blinded By The Light,Walk On Water e Temptation che era una bonus track della versione giapponese ) , tutto ciò in preparazione di un prossimo album da fare uscire a breve.

Il disco si muove quindi su coordinate piuttosto consolidate nei binari di un melodic rock di stampo anglosassone , con dei rimandi arrangiativi derivati dal sound scandinavo che oramai in europa detta legge da anni. Ovviamente trattandosi di una raccolta di brani usciti in tempi diversi e con artisti differenti tende a non essere totalmente omogenea presentando quindi molteplici influenze che da un certo punto di vista  rendono la cosa anche artisticamente più interessante.

I pezzi a mio avviso più validi sono: i due singoli scelti per i video promozionali, ovvero Heroes In The Night e Blinded By The Light, entrambi melodici e catchy, e le più articolate Destiny e Something To Believe In che mostrano le qualità compositive della band ed infine molto interessante per le mie orecchie è l’ opener Lost And Found con sonorità vagamente alla Balance Of Power.

Insomma per chi già li conosce può essere una occasione per riascoltare un condensato della loro proposta musicale con una nuova e più robusta produzione e per chi non li conosceva potrebbe essere la volta buona per apprezzare brani che oramai hanno scarsa reperibilità nella loro versione originale, il tutto in attesa del nuovo materiale che si dovrebbe preannunciare piuttosto interessante.

Cheap Trick – In Another World – Recensione

26 Aprile 2021 3 Commenti Vittorio Mortara

genere: Pop Rock
anno: 2021
etichetta: Bmg

All’inizio furono i Beatles, con le loro canzoncine facili facili che tutti conoscevano e canticchiavano sotto la doccia. Poi giunsero i Led Zeppelin, con i loro riffoni di chitarra distorta e la voce sensuale di Robert Plant che faceva venire i brividi alle ragazzine. E infine arrivarono i Cheap Trick, che tentarono di unire i due universi e, così facendo, inventarono un genere ibrido tra il pop e l’hard rock. La loro lunghissima carriera potè contare su hits a livello planetario come “I want you to want me” e “Surrender” negli anni 70, “The flame” e “Don’t be cruel” negli anni 80. Poi la crisi del rock melodico negli anni 90 colpì anche loro, e l’unica testimonianza della loro esistenza in quel decennio fu il non eccelso “Wake up with a monster” del 94. Negli anni 2000, tuttavia, si succedettero altri 4/5 album, anche questi non di straordinario valore, il cui stile scimmiottava quello dei primi anni senza mai raggiungerne il livello qualitativo. E oggi, sorpresa delle sorprese, dopo un paio di rinvii, esce questo “Waiting for good luck”. Ed è pure un discreto disco!

Facciamo le dovute premesse: probabilmente la maggior parte di noi ha apprezzato il quartetto americano soprattutto nel periodo d’oro dell’AOR, quando anche loro avevano dato una leggera sterzata al loro stile nella direzione allora di moda e, dopo lo stravagante “The doctor”, avevano sfornato un paio di lavori altamente airplay oriented a titolo “Lap of luxury” e “Busted”. Ecco: scordateveli! Qui tutto, a partire dalla produzione volutamente scarna ed essenziale, prende la distanza da quei suoni patinati e sornioni. Qui si torna al vecchio stile: chitarre crude alla Jimmy Page e melodie vocali alla Beatles, lato John Lennon. Ma, contrariamente agli album degli scorsi 20 anni, la qualità compositiva torna su livelli degni del nome della band.

La formazione è sempre la stessa: due bellocci, Robin Zander alla voce e Tom Petersson al basso, e due “brutti ma simpatici”, i fratelli Nielsen alla chitarra e alla batteria. Produzione e mixaggio affidati ai veterani Julian Raymond e Chris Lord-Alge.

Pronti, via ed è subito Cheap Trick sound su “The summer looks good on you”, melodia sbarazzina per un testo che più leggero non si può. L’apporto delle tastiere valorizza invece “Quit waking me up”, fortemente beatles, con il suo refrain tanto retrtò quanto efficace. Mi è piaciuta tanto “In another world”, un lento che definirei grezzo e malinconico, che ti cattura al primo ascolto. Se poi volete, la potete riascoltare nella stravolta versione “reprise” più avanti nell’album e vi piacerà anche velocizzata! La voce di Robin, resa più gracchiante dal passare degli anni, domina il singolo “Boys & girls & rock’n’roll”, retto dal riff ridondante della chitarra di Nielsen, che avrebbe ben figurato nel vecchio repertorio della band. “The party” rende onore al suo nome: da sparare a manetta ad una festa in piscina tra cocktails e belle figliole, spensierata e sguaiata. L’incedere blues di “Final days” ci delizia con il suo intramontabile gusto d’antan. Una breve pausa con la ballad acustica fortemente beatlesiana “And so it goes”, carezzevolmente melodica, e si riparte subito con il riff pesante di “Light up the fire” che accompagna un’altra classica Cheap Trick song. Sarà per via degli inserti di slide guitar, sarà perché è l’unica concessione alle patinate melodie anni 80, “Passing through” l’ho trovata assai piacevole. Ma ho gradito parecchio anche il classico party rock’n’roll della successiva “Here’s looking at you”, scritta con Linda Perry (chi ricorda i “4 Non Blondes”????), da cantare tutti insieme saltellando sotto al palco. Dopo la già citata versione velocizzata di “In another world” tocca a un’altro lento ammiccante a titolo “I’ll see you again” e, siccome siamo verso la fine del disco, fa la sua comparsa all’angolo dell’occhio la classica lacrimuccia… Il commiato spetta alla cover di “Gimme some truth” del maestro Lennon, resa in modo piuttosto fedele all’originale. E come poteva essere altrimenti?

Intendiamoci bene: “In another world” non è il miglior disco della carriera dei Cheap Trick. Non è nemmeno l’album più bello di questo inizio del 2021. Però è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato ed è meglio di quanto proposto dalla band dal 90 ad oggi. E poi questi quattro vecchietti hanno fatto un pezzo della storia della nostra musica, e solo per questo varrebbe l’acquisto! Come direbbe Mara Maionchi, per me è un si!

Maverick – Ethereality – Recensione

26 Aprile 2021 10 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Metalapolis Records

In uscita il quarto album dei nordirlandesi Maverick, band capitanata dai fratelli Balfour, tosta, dall’identità ben definita e dall’intensa attività live.

L’ascolto di questo nuovo lavoro si apre con “Falling”, ritmicamente molto coinvolgente, graffiante, che gasa e carica l’atmosfera al punto giusto. Sulla stessa onda stilistica troviamo “Thirst”, che mette in mostra un’ottima coesione della band e una trama del pezzo assolutamente intrigante. “Never”, più introspettiva e malinconica, colpisce per intensità ed emotività, trovando come punto di forza una bellissima coralità generale. Torniamo a rombare con “Switchblade Sister”, tagliente e aggressiva, dal ritornello riconoscibile e dalla struttura musicale cadenzata, nel complesso una canzone veramente piacevole. Saliamo di livello con “Bells Of Stygian”, una grande cavalcata epica e solenne, che si riversa granitica nella scellerata e veloce “Angel 6”, brano dalle caratteristiche stilistiche tipiche dei Maverick, ovvero riff coinvolgenti e affilati, coralità e intensità sopra la media. Le tracce si susseguono con grande piacevolezza e ogni sosta porta, pur mantenendo una marca stilistica riconoscibile, sempre una nuova sfaccettatura della band, come nel caso della dolce e raffinata “The Last One”. “Dying Star” è sfrenata e fa il paio con la successiva “Light Behind Your Eyes”, ancora nella scia delle precedenti, confermando una compattezza artistica decisamente rimarcata. Titoli di coda con la crudelissima “Ares”, oscura e titanica, che ci congeda da un album di ottima fattura tecnica e compositiva, coerente dal punto di vista dei suoni e tutto sommato riuscito.

Tuple – Wooden Box -Recensione

26 Aprile 2021 3 Commenti Luka Shake Me

genere: Hard rock/ Aor
anno: 2020
etichetta: Aor Heaven

La proposta di cui mi accingo a parlarvi è ancora una volta targata nord Europa, Finlandia nello specifico; che nelle ultime due decadi ha partorito tantissime band di fama internazionale, l’elenco sarebbe troppo lungo, mi limiterò a citare la band più importante, gli amati/odiati Nightwish e uno dei suoi leader cofondatori Marco Hietala che a dire il vero porta avanti il suo side project Tarot ancor prima della nascita della pluriacclamata band succitata. Dal 2006 in veste di seconda voce è ufficiale la presenza del singer Tommi Salmela, dopo un’esperienza così formativa sente finalmente il bisogno di un suo album solista con il moniker Tuple. Direi a questo punto di snocciolare “wooden Box” sotto l’onnipresente egida AoR Heaven.

“Wooden Box” potrebbe essere forviante, in quanto come nella migliore tradizione di un metal moderno regge su synth e chitarroni rocciosi, linea vocale relativamente semplice e un cantato chiaro e cristallino stagliato su tonalità molto alte come il genere impone. Non si tratta di un pezzo “strappaorecchi” ma un buon biglietto da visita sullo spessore del prodotto.

“Demon Alcohol” in questo caso ritroviamo un buon connubbio fra aor e sonorità settantiane a tratti quasi prog ; il tutto gioca a favore di un cantato questa volta più ispirato e caldo. Episodio in se anche riuscito ma che non riesce a emozionarmi; una promozione con riserva.

“Together” sembra voler essere più introspettivo sulle strofe per poi aprirsi in un refrain catchy e radiofonico. La traccia resta in testa fin dal primo ascolto complice una linea vocale vincente, belle dinamiche anche nel cantato, e arrangiamenti essenziali.

“Fucking Beautiful” si aggrappa per certi versi agli stilemi dettati dalla traccia precedente. Un aor pregno di pathos, una buona power ballad per la ricercatezze della linea vocale per ciò che concerne le strofe e refrain sostenuti da un egregio lavoro di cori che in questo caso, ma ho notato anche nelle tracce precedenti, si presentano come un caldo tappeto sul quale si poggia l’ugola di Salmela.

“Kryptonite” al momento l’unico esempio di puro AoR, ad ogni modo siamo lontani dal pezzo di apertura; mi aspettavo dunque un progetto nel complesso sicuramente più “duro”, non vuole essere assolutamente una critica. La traccia nello specifico è pregna di armonie ruffiane, synth di stampo moderno e chitarre che svolgono un onesto compitino come giusto che sia. Il tutto troppo risentito centinaia di volte su troppi lavori negli ultimi anni.

“In These Altitudes” è una delle tracce più riuscite; ispirata nei vari momenti e sfaccettature proposte. La matrice è sempre AoR e le keys anche questa volta la fanno da padrona. Gradevole anche il break centrale pronto a lanciare un solo di stampo neoclassico.

“Too Far Gone” ruffiano quanto basta, gli arrangiamenti e la produzione in toto spingono una linea vocale semplicemente ossessiva, se l’intento era quello di riuscire a canticchiarlo fin dal primo ascolto, direi che obiettivo raggiunto, rovescio della medaglia è che al secondo ascolto potrebbe stancare.

“Miracle” è un mid tempo spettacolare, cercavo la mia personalissima hit e credo di averla trovata, chorus avvolgenti impreziositi da controcanti cesellati alla perfezione e due note messe in croce da chitarre e tastiere ma indovinate; alla fine della traccia non puoi fare a meno di pensare che il full in questione avrebbe necessitato di altri pezzi del genere per essere considerato un lavoro di grande livello. Peccato.

“Get With The Program” smentisce in parte le mie personalissime illazioni sulla bontà di un lavoro che resta godibilissimo; dunque la traccia è quadrata e corre via su classici binari del rock adulto di spessore. Avrebbe meritato di finire nella parte alta del platter.

“Rocking Chair” altra piccola gemma di AoR di nuova generazione. Apertura fatta di un sapiente lavoro di tastiere, ritmiche serrate sul quale poggia un chorus dai connotati pomposi ed epici; uno dei miei episodi preferiti senza alcun dubbio. Promozione a pieni voti.

“Pretty Much Perfect” in dirittura d’arrivo è una superba ballad, seppur troppo riduttivo definirla così. Il pezzo è arrangiato ottimamente e vive di un continuo crescendo che trova la sua esplosione nella seconda parte della traccia, dove la delicatezza della prima parte lascia spazio a un’evoluzione più dura pur mantenendo la giusta dosa di teatralità. Non capirò mai le scelte artistiche fatte da molte band nel sacrificare in set list gli episodi migliori in favore di altri meno riusciti. Questo è uno di quei casi, visto che parliamo di una traccia fresca, ispirata sotto tutti i punti di vista.

IN CONCLUSIONE: Un dischetto ben prodotto, al quale basta quel tocco finale per renderlo veramente al top, tutto sommato visto che siamo di fronte a un debutto il risultato finale potrebbe essere considerato soddisfacente, in attesa di un sequel che segni la definitiva maturità per Tommi Sarmela e la sua creatura e il coraggio nel divincolarsi da terreni abbondantemente inflazionati.

Winding Road – Winding Road – Recensione

15 Aprile 2021 0 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock/Aor
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Magnus Åkerlund (basso e chitarre), Jan Hedlund (batteria e tastiere) e Jonas Tyskhagen (voce) sono i componenti del trio Winding Road, ennesima realtà musicale che giunge dal nord Europa.
La band, formatasi nel 2018, esce con l’omonimo debut album tramite l’etichetta tedesca Aor Heaven e propone un melodic-rock semplice con richiami a band come Foreigner, Alias e Journey.
L’album scorre via leggero e spensierato per tutta la sua durata, senza avere grandi picchi o passaggi a vuoto. Le chitarre accompagnano le canzoni senza essere mai invadenti, mentre le tastiere hanno una presenza efficace; la voce di Jonas risulta bella e credibile per il genere proposto.
I singoli rilasciati in questo 2021 sono “It’s a matter of survival” e “Call on me”, ben suonate e leggiadre come la corsa di una gazzella.
Di buona fattura i lenti “I lost you” e “Take me as I am” che seppure canonici, risultano piacevoli.
Tra le dodici canzoni della release, menziono la briosa “Gotta get close to you” e la semi-ballad “Before it all falls Down”, poste entrambe a fine scaletta; quest’ultima canzone assieme a “Stranger in the night” sono uscite, rispettivamente, nel 2019 e nel 2020.

Conclusioni:
Semplice, fresco e solare; questi sono i tre aggettivi con cui identifico l’esordio discografico dei Winding Road. Un album che ti accarezza con una brezza estiva.

Fm – Though It Out Live – Recensione

15 Aprile 2021 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock/Aor
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Non sono poche le band che celebrano il loro proprio Masterpiece (artistico e/o commerciale) comunemente a 20/25/30 anni di distanza dall’uscita della premierè riproponendo il platter per intero.

Così gli FM, per nulla avari a buttare in pasto al mercato dischi live, dopo aver concretizzato l’idea con l’opera prima “Indescreet”, a 3 anni di distanza riprovano il colpo di nostalgia per celebrare il trentennale di “Though It Out”.

Doppio CD tratto dal tour del 2019 dove nel secondo disco troviamo brani tratti qua e là dalla discografia della band londinese, non tra i più noti, che negli intenti dovrebbero solleticare la curiosità di chi, non come me, difetta nella loro discografia.

Negli anni la line up è cambiata un paio di volte, nonostante ciò tre di coloro i quali suonarono Though it Out in studio, li ritroviamo ben ancorati in formazione. Steve Overland ovviamente alla voce, Merv Goldsworthy e Pete Jupp alla sezione ritmica (basso/backing vocals e batteria/backing vocals).

Forniti i consueti cenni storici, vi assicuro che questo live spazza via i restanti della band britannica. I motivi sono da ricercare nel fatto che suonano per intero quello che rimane il loro effettivo capolavoro, e che alcuni di questi momenti sono stati quasi dimenticati in tempi recenti e/o poco proposti on stage: “Everytime I think of You” ai tempi cantata anche da Eric Martin; “Don’t Stop” e “The Dream that Died” rappresentano tutt’oggi un mix di colori ed emozioni in grado di stimolare ricordi suggestivi, rievocare luci sommesse ma indelebili

Se è vero che l’Amore puro è arduo a morire, altrettanto autentica è l’attrazione verso pezzi di ieri che nella nostra memoria artistica rimangono eterni.

Con Overland in grande spolvero, come sempre (!!!) risulta impossibile non appagare i sensi dinanzi a brani come “Bad Luck” (Desmond Child docet), la title track (a mio modo di vedere la canzone più bella mai scritta da sempre dagli FM) e “Someday” o ancora ”Burning My Heart Down” che vede la partecipazione straordinaria del tastierista originario Didge Digital.

Superfluo fare una review track by track, questo Though It Out Live rimane un disco pienamente riuscito sia sotto il profilo artistico/musicale che negli intenti della band anglosassone, con un secondo disco colmo di chicche ed eseguite in modo impeccabile.

I ricordi di ieri valgono quanto le speranze di domani, entrambe accecano la nostra anima come se non fossero stelle di un’altra estate, e ci ritroviamo li ad aspettare il ritorno di sassi lanciati contro le nuvole rimasti magicamente sospesi in aria.

Una sensazione di piacevole nostalgia, di un tempo ultimato che non trapassa, di un ritorno inverosimile. Una percezione che non muore e che gli FM conoscono perfettamente.

Touch – Tomorrow Never Comes – Recensione

12 Aprile 2021 14 Commenti Samuele Mannini

genere: Pomp/Aor
anno: 2021
etichetta: Escape

Perdonatemi il gioco di parole ed il paragone, ma nella musica come nel calcio è il tocco che fa la differenza, quando hai il tocco di palla sopraffino, anche se sei circondato da giovani che corrono di più riesci a trasmettere la magia di quello sport , così è anche nella musica e a Mark Mangold il “tocco” non manca di certo. Alla distanza di quaranta anni suonati i Touch si ripresentano in formazione originale , la stessa che prese parte al primo storico Monsters Of Rock a Castle Donnington ed è come se il tempo non fosse mai passato. Autori di un omonimo disco  di culto nel 1980 e di un secondo album restato inedito fino al 1998 quando grazie ad una ristampa vide finalmente la luce, i quattro si presentano così, quasi all’ improvviso, creando sicuramente una enorme aspettativa per i cultori di queste sonorità ormai disperse nel tempo. Certo riprendere un discorso interrotto quaranta anni prima non so quanto sia stato facile,  ma sinceramente il tempo passato non si nota affatto e se contiamo che il solo Mangold ha ottenuto una certa notorietà e continuità artistica (prima con gli American Tears e dopo con i Drive She Said)  il rimpianto per quello che i Touch avrebbero potuto proporre nella golden era dell’ Aor è enorme. Comunque sia andata però , questa reunion è  un ottima notizia ed i dubbi sull’operazione nostalgia vengono subito spazzati via dalle note della prima canzone, ovvero Tomorrow Never Comes , che dopo un intro di tastiera si dipana nella sua sua struttura magnificamente catchy a segnare quello che avrebbe avuto tutti i crismi della hit di successo, l’unico difetto? Non si può fare a meno di ascoltarla a ripetizione. Altri esempi di Aor de luxe sono Fire And Ice con la sua rocciosa struttura chitarristica, la atmosferica e sognante Trippin’ Over Shadows, ma anche il piano che apre Glass è da brividi. Non mancano certo gli episodi più rockeggianti, come la più sperimentale e tribale Try To Let Go che vanta però un ritornello arioso e a presa rapida, la più canonica Fire and Ice che ricorda i Drive She Said più rocciosi, mentre A Little Bit Of Rock And Roll, come dice il titolo è solo puro e cristallino R’nR. La parte più nostalgica e di matrice Pomp è invece ben esplorata in Swan Song 7 minuti e 40 secondi di pennellate di gusto raffinato e sonorità eteree dove la classe di questi vecchi leoni viene fuori in tutta la sua maestosità, ma anche Frozen Ground e Wanna Hear You Say con i suoi echi vagamente Boston sono chicche di levatura superiore.

Insomma non ci sono filler in questo disco ed ogni canzone ha la sua piena dignità nella sua perfetta miscela fra sonorità eighties ed arrangiamenti all’ avanguardia che servono in maniera magistrale ad attualizzare l’ opera ai giorni nostri.

Sintonizzate la macchina del tempo sul 1983, premete play e gustatevi quello che a mio giudizio è un serissimo candidato a diventare disco dell’anno.

The End Machine – Phase2 – Recensione

09 Aprile 2021 15 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Seconda uscita per i The End Machine, ovvero i Dokken senza Dokken o i Lynch Mob nella versione con Mason alla voce, ma queste sono solo note di colore, perchè se a suo tempo avete ascoltato il primo omonimo, sapete già che a prescindere dai nomi la strada musicale percorsa è stata tanta e di ciò che fu sono rimasti solo echi lontani e qualche richiamo strutturale qua e là. Questo Phase2 è il continuo del percorso che Lynch ha oramai intrapreso da alcuni anni, e cioè suoni più oscuri, più groove e un ritorno alle matrici più blues oriented ( vedi KXM e Dirty Shirley per esempio) che prosegue e porta avanti il discorso dell’album precedente. La sostituzione del batterista Mick Brown col fratello Steve, non mostra cedimenti nel feeling con Jeff Pilson , mentre Robert Mason sembra in gran spolvero , supportando con la sua timbrica il buon George, che ha così buon gioco nello spaziare agevolmente tra riff blueseggianti, alcune pennellate Class Metal  (beh dopotutto il riif Class Metal è quasi un suo copyright)  e qualche dissonanza disseminata ad arte per dare una impronta più moderna al sound.

I pezzi a mio giudizio più pregevoli sono: l’ottimo singolo Blood and Money catchy e trascinante,la sofferta e passionale We Walk Alone, la lenta e bluesy Scars e la conclusiva Destiny elettrica e nervosa. Menzione particolare merita Dark Divide che secondo me avrebbe tutti i crismi del singolo promozionale, anche se al momento in cui scrivo ne sono usciti soltanto due. Un episodio che invece non mi ha completamente convinto è Plastic Hero che parte con un arpeggio ed un riff molto class per perdersi in un ritornello un po’ banalotto e troppo filtrato, ma son gusti. La produzione curata da Jeff Pilson è moderna, ma precisa ed i suoni incisi sono sempre limpidi e non soffrono dell’ eccessiva pastosità che ultimamente sembra tornata in auge, quindi bene così.

In sostanza , undici canzoni (più un intro) che pur non essendo tutte allo stesso livello offrono quasi un’ora di ottima musica,  interpreti di assoluto livello in gran forma ed ancora con una buona vena ispirativa, per me, che già avevo molto apprezzato il predecessore, un ritorno assai gradito.