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03 Giugno 2021 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Heavy Metal
anno: 2021
etichetta: Red Cat Records
A distanza di tre anni dall’ultima uscita, arriva il nuovo album strumentale del chitarrista Albert Mashall, virtuoso solista dall’anima heavy.
Una buona dose di tamarraggine e di legato aprono le danze con “Black Rooster”, dalla struttura poderosa e quadrata, perfettamente incastonata alla parte solista, dalle caratteristiche tecniche interessanti. Si passa alla successiva “At The Gates”, più melodica, aperta e distesa, dalle atmosfere ipnotiche e corali. Sempre sull’onda emozionale e solare della precedente traccia, incontriamo “The Mogway Song”, arpeggiata, dal fraseggio disteso e limpido, sempre molto omogeneo nel cambio di passaggio e di situazione. Misteriosa, struggente e accorata, “Little Rainbow” è un raggio di dolcezza che apre le porte alla ben più scatenata “Angry Monkey”, molto anni ’80, veloce, accattivante, un vero pezzone virtuoso e tosto. “Ice Cream” dilata le percezioni, con l’impiego massiccio dell’effettistica, creando nuovi orizzonti e nuove sensazioni, dimostrandosi complessivamente un buon brano. Con “Charmander’s Nightmare” si torna a martellare: un susseguirsi di note vorticose, un turbine di varie influenze che nella sua resa globale risulta di grande effetto. Ottima cadenza e ritmica per “Ugly Motherfucker”, scherzoso, complesso e groovosissimo, dalla dinamica interessante e che riesce a fondersi in modo perfettamente con la melodia solista. In chiusura troviamo “Armored Warfare”, blindatissimo, oscuro e metal: l’ennesima sfaccettatura di un buonissimo e divertentissimo album strumentale, che si gode con piacere dal primo all’ultimo brano e che (cosa non scontata) non annoia, sia per varietà di stile che per intensità di resa.
01 Giugno 2021 16 Commenti Vittorio Mortara
genere: Alternative Rock
anno: 2021
etichetta: Icons Creating Evil
Lasciato colpevolmente sul fondo del calderone dei promo della redazione, vuoi perché eravamo tutti intenti ad aggiudicarci le recensioni dei grossi nomi, vuoi perché il precedente “The great divine” era un album bruttino, poco più di una scopiazzatura dei Foo Fighters con l’innesto di qualche coro orecchiabile, mi sono preso la briga di ascoltare il nuovo album dei Reach… e mi sono trovato fra le mani un mezzo capolavoro!
Prima di correre ad accaparrarvene una copia, aspettate un momento! Questo disco rappresenta senz’altro una svolta. Ma chi si aspettava che il trio svedese lasciasse dietro le scorie nu-metal e tirasse fuori un sound tipico scandinavo alla H.E.A.T. o Eclipse, visto che il loro manager è nientepopodimeno che Erik Gronwall, andrà incontro ad una cocente delusione.
Andiamo per ordine, dunque. In primo luogo Ludwig Turner si è reso conto che scimmiottare Dave Grohl non era più sufficiente. E quindi è andato a scuola di canto e, tra le altre cose, ha imparato ad usare il falsetto. Poi l’intera band ha aperto gli occhi su un panorama musicale più ampio, spingendosi verso altri generi ed esplorando anche un più vasto lasso temporale, andando ben più indietro degli anni 90. E la sezione ritmica costituita dal duo Johansson/Ma’ Aoui si è scoperta capace di fare cose assai più impegnative e divertenti che non portare avanti un 4/4 per l’intera durata di un album o di un concerto. Cosa non meno importante (nel 2021), la band si è costruita un look più moderno, trasformando il frontman in un “bello e dannato” potenzialmente in grado di rapire il cuore di più di una ragazzina ammiccando nei video promozionali. infine hanno introdotto nei testi tematiche tendenti al negativo, tanto care ad una buona fetta del pubblico più giovane.
Ne è scaturito un album estremamente attuale, dall’immenso potenziale commerciale, ricco di influenze colte ma anche leggiadramente pop, nell’accezione moderna dei termini. I nostri si sono allontanati tantissimo dai territori del melodic rock e sono pronto a scommettere che al 90% dei lettori di queste colonne non piacevano prima e ancor meno piaceranno adesso. Ma a me fanno impazzire!
La prima canzone, “New frontier”, si apre con forti influenze tex/mex, con tanto di fischio alla Morricone, per poi distendersi in un melodico refrain dalle reminiscenze irish folk e concedersi un intermezzo clamorosamente “Kashmir”… Insomma, un pastrocchione micidiale che però suona decisamente interessante e preannuncia un lavoro assolutamente imprevedibile. E infatti il singolo “The law” innesta il germe dei Nine Inch Nails sulla struttura di “Sweet dreams” degli Eurhytmics generando un ibrido che, se fosse stato spinto da una adeguata promozione, avrebbe sicuramente fatto capolino nelle classifiche di mezzo mondo! Tempo di riprendersi dalla sorpresa e “Young again” ci stupisce di nuovo con movenze da jukebox degli anni ’60, adeguatamente elettrificate, sulle quali Turner dimostra di essere stato a lezione da Prince e sfodera una interpretazione a tutto tondo, dal falsetto allo screaming, per un risultato che farebbe invidia persino al miglior Mika. Un riff zeppeliniano introduce “Satellite”, altra canzone dall’elevatissimo potenziale grazie alla prestazione maiuscola del frontman ed al ritornello confezionato a immagine e somiglianza dei mostri sacri Muse. Poi un violino pizzicato, seguito da un forsennato swing, innesca “Motherland”, brano dove la sezione ritmica può dimostrare tutto il suo valore e Ludwig cantare da navigato crooner! Bella, bella, bella!!! “The seventh seal” è un lento a tinte fosche dominato dai synth, estremamente pop, con quella tromba rauca che lo punteggia qua e la aumentandone il fascino. “Higher ground” è tra le mie preferite: base ritmica funky con Turner ancora sugli scudi, impeccabile nella strofa in falsetto, straordinario nel crescendo del refrain. Stacco centrale nu-metal. Tutto perfettamente amalgamato. “Cover my traces” la metterei senza alcuna esitazione nella colonna sonora di una serie tv poliziesca noir come “True detective”! Il suo passo felpato, la voce impostata ed il testo riguardante il pensiero di un piromane sarebbero perfettamente adeguati allo scopo! Molto più legata al recente passato della band “The streets” somiglia troppo ad una outtake di un qualsiasi album dei Foo Fighters per essere interessante. Ridendo e scherzando siamo già in chiusura: l’atmosfera horror di “Promise of life”, contaminata ancora dal pop rock moderno dei Muse, è la degna conclusione di un album riuscitissimo.
Temo che questa sarà l’ultima volta che un lavoro dei Reach verrà recensito su melodicrock, perché i nostri hanno fatto decisamente rotta su altri lidi. Giustamente, fra l’altro. Perché sono giovani ed hanno le potenzialità per spiccare il grande salto. Se riusciranno ad affinare ulteriormente il songwriting e, cosa fondamentale, verranno notati da una major, allora li rivedremo di certo nelle classifiche che contano. Altrimenti rischiano di perdere i (pochi) fan rocchettari senza conquistarne di “popolari” e finire nel dimenticatoio. Intanto io mi godo questo disco. Non so se consigliarvelo, perché, ripeto, siamo al di la dei confini della musica che piace a noi. Però, che diamine, se avete tanto osannato l’ultimo disco dei Coldpl… scusate, Levara, allora perché non prestare un orecchio anche a questo “The promise of a life” che è più vario ed originale? Dai che vi ho sorpresi mentre canticchiavate “Why ahy ahy ahy, why you wanna run…”!!!
Buon ascolto
27 Maggio 2021 5 Commenti Vittorio Mortara
genere: Hard Rock/ Hair Metal
anno: 2021
etichetta: Cargo records
Arrivano al terzo full length I britannici Midnite City, capitanati dall’ossigenato vocalist Rob Wylde e dal pelatissimo batterista Pete Newdeck. I due sono dei veterani della scena, avendo trascorsi nei Tigertailz e Nitrate il primo ed in una miriade di bands, da Paul Di Anno agli Harem Scarem, il secondo.
Fiancheggiati dal chitarrista Miles Meakin, dal bassista Josh Williams e da Shawn Charvette alle tastiere, dopo due album pubblicati dalla AOR Heaven, i nostri hanno compiuto una mezza rivoluzione cambiando sia il management che l’etichetta, accasandosi con la tedesca Roulette Media. La produzione ed il missaggio sono stati ancora una volta affidati a Newdeck con l’aiuto dell’amico Harry Hess.
Quella che non è cambiata, invece, è la proposta musicale: un mix pressoché perfetto del glam/street di Motley Crue e Poison e l’AOR americano un po’ tamarro di fine anni 80. Per intenderci, qui si respira l’atmosfera del primo inarrivabile album dei Danger Danger, dei primi Firehouse e del misconosciuto capolavoro omonimo dei Blue Tears. Insomma, nulla che non sia già stato proposto in precedenza. Però ci sono da tenere in considerazione tre fattori assai importanti: i nostri non sono dei novellini, sanno suonare e, soprattutto, dal vivo sono una macchina da guerra: io ho avuto la fortuna di vederli un paio di anni fa all’ H.E.A.T. festival di Ludwigsburg e mi hanno fatto una gran bella impressione!
E infatti il disco è bello! Si parte con un pezzo glam sguaiato come “Crawlin’ in the dirt”, nel quale vengono sciorinati tutti gli stilemi del genere. Ma, attenzione! L’opener è fuorviante! Quando le casse sparano il riffone funkeggiante di “Atomic” riemergono prepotenti reminiscenze Poison e Motley Crue condite con un pizzico di Firehouse nel trascinante refrain. E via col party metal! “Fire inside” si avventura su territori più melodici ed AOR, per nulla innovativi ma maledettamente efficaci a toccare le corde dei nostri cuori di melodic rockers! Non una nota fuori posto. “Darkest before the dawn” fa il verso ai Crazy Lyxx tramite una struttura semplice e concreta che ci conduce felici fino al ritornello. Le tastiere accompagnano la chitarra lungo tutta “I don’t need another heartache”, brano di pura energia e divertimento che, purtroppo, i Danger Danger e le loro incarnazioni non sembrano più in grado di scrivere. Vi sfido a non trovarvi a canticchiare “I don’t need another heart-heart-heartache” la seconda volta che lo ascoltate! Chitarrosa e ottantiana, “Blame it on your loving” mi ricorda fortemente il songwriting dei Jack Ponti e Vic Pepe. Ah, che profumo di eighties! E siamo alla perla del disco, non a caso scelta come singolo dalla band. “They only came out at night”, pezzo dalle tinte pseudo horror, introdotto da una cantilena infantile, poggiato su una linea melodica assolutamente perfetta, dalla strofa al refrain, ti si pianta inesorabilmente nel sistema limbico e ti obbliga ad unirti ai bambini per un ultimo “na na na”… E l’assolo? George Lynch ha insegnato qualcosa al signor Meakin, ne sono sicuro. Voglio assolutamente ascoltarla dal vivo! Sarà forse perché arriva dopo la mia canzone preferita, ma “Chance of a lifetime” è forse il pezzo più ordinario e meno significativo dell’album. Mentre il lento “If it’s over” va a piazzarsi esattamente fra “Heaven” dei Tigertailz e “I still think about you” dei soliti Danger Danger. La parola fine la scrive la vivace “Fall to pieces” e non poteva essere altro che l’ennsimo orecchiabilissimo pezzo di hair metal assolutamente all’altezza dei maestri del genere.
Lo avrete capito, “Itch you can’t scratch” non è di sicuro un disco originale. Se cercate questo, rivolgetevi verso altri lidi. Qui c’è una band di veri professionisti, gente che sa suonare, che dal vivo regge egregiamente il palco e fa concerti ogni volta che può. Il che, ad oggi, è quello che si definisce tanta roba. I pezzi sono tanto classici quanto belli, i suoni sono curati al punto giusto. La dose di adrenalina è meticolosamente calibrata. La qualità complessiva è ben al di sopra della media e senz’altro i ragazzi si esprimono meglio in questa veste che non nel progetto parallelo Nitrate. Insomma, se io fossi in voi lo comprerei. E se vedete il loro nome sul cartellone di qualche festival, prendete subito il biglietto! Divertimento garantito! Avanti il prossimo…
27 Maggio 2021 2 Commenti Alberto Rozza
genere: Heavy Metal
anno: 2021
etichetta: Frontiers
Nuova uscita per la superband statunitense Sunbomb, composta da nomi altisonanti della scena hard e heavy anni ’80 come Tracii Guns e Michael Sweet, che propongono un heavy metal tosto e ispirato ai grandi del passato, come Judas Priest e Black Sabbath.
Partenza tonante, martellante, sfrenata sulle note di “Life”, che subito ci permette di riconoscere il classico timbro vocale di Sweet e una struttura ritmica serrata e spietata. “Take Me Away” richiama in modo preponderante l’universo doom, con ampie citazioni musicali ai Sabbath, dimostrandosi un brano retrò ma complessivamente godibile. Arriviamo all’inno “Better End”, pestato, corale e genuino, una vera bomba heavy, dalle ottime dinamiche, sia vocali che strumentali. Andiamo ancora a bussare la porta al metal britannico con “No Tomorrows”, corposa e cadenzata, dai fraseggi chitarristici canonici, quasi uno “stereotipo suonante”, ma comunque gradevolissimo nella sua trama poderosa. Con “Born To Win” andiamo a mischiare sonorità puramente hard rock anni ’70 con alcune più metallare, trovando una quadra tutto sommato azzeccata e conturbante. Giungiamo alla title track “Evil And Divine”, evocativa, ambivalente, deliziosa: un heavy metal duro e cruento, dalla vocalità riuscitissima, di impatto micidiale, incastonata in una trama musicale mostruosa e a moto perpetuo. Arriva, dopo tanto metallo, il momento della ballad “Been Said And Done”, molto intensa e riflessiva, un attimo di tregua necessario e oggettivamente ben riuscito. Parti chitarristiche sempre all’altezza su tutte le tracce, fatto rimarcato anche su “Stronger Than Before”, che attestano senza dubbio un Tracii Guns in forma. Passano veloci e senza grande sconvolgimento “Story Of The Blind”, dal piglio classico e quadrato, e “World Gone Wrong”, ancora dal sentore doom, pesante e titanico. Chiudiamo i giochi sulle maideniane note di “They Fought”, dove troviamo la collaborazione di Johnny Martin degli L.A. Guns al basso, ultimo atto di un album ben fatto, interessante ma a tratti veramente troppo simile per sonorità e atmosfere ai grandi nomi del passato, quasi un tributo prestigioso al glorioso metal britannico.
26 Maggio 2021 1 Commento Samuele Mannini
genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Steelheart Records
Stefano Mainini, alias Steve Emm, seppur molto giovane, ha già all’attivo numerosi progetti e collaborazioni nei generi più svariati nella scena dell’underground meneghina, ma evidentemente la malizia del sound degli eighties deve aver fatto presa a fondo, espandendo sempre più la sua subdola influenza melodica e farlo quindi decidere di cimentarsi in un album che è un vero e proprio inno a quegli anni musicalmente così ricchi e pieni di magia. Per me che quegli anni ho potuto, per fortuna, viverli in diretta è sempre motivo di orgoglio vedere che quel sound continua ad influenzare musicisti che in quell’epoca magari nemmeno erano nati o erano comunque molto piccoli. Il disco in questione riprende le canzoni del primo Ep autoprodotto un paio di anni or sono e lo integra con nuove tracce fino ad arrivare ad attirare l’attenzioni di Primo Bonali e della sua etichetta, questo già dovrebbe dare l’idea della qualità musicale perché , come certo saprete, la Steelheart è specializzata nel recupero di vere e propri tesori sepolti tipicamente degli eighties.
Dato dunque il quadro d’insieme, vediamo cosa contiene questo First Strike, intanto è catchy, dannatamente catchy, e seppure alcune canzoni necessitino di più ascolti per essere apprezzate a pieno , molte altre ti prendono al volo e ti ritrovi a canticchiarle anche mentre sei indaffarato in altre cose, un esempio? Danger line, si canticchia che è una meraviglia ed è un gran pregio. Notevoli anche l’up tempo Night Runner con la sua atmosfera suburbana e il ritmo ammiccante e la survivoriana No Surrender con il suo riff cadenzato. L’omaggio agli Whitesnake di 1987 è ben palesato in Bad Toughts e il piedino batte il tempo in automatico, il ritmo viene interrotto dalla romantica On The Run introspettiva, ma energica. Total Stranger si avvicina ai territori class metal vicini ai Lion, mentre un intro di tastiera dal sapore pop introduce un’altra killer song ovvero Your Love Is So Cruel. Trittico finale con le atmosfere cachy e retrò di Walking A Fine Line, l’articolata Crimes in The Streets ed un’altra strizzata d’occhio al class metal in Power Games.
Insomma date a questo ragazzo un altro po’ di esperienza negli arrangiamenti , uno studio di registrazione serio e un produttore smaliziato e sono sicuro che farà sfracelli, intanto godiamoci questo First Strike che sebbene non sia privo di piccoli peccatucci di gioventù è una vera e propria boccata di ossigeno per la scena melodic rock nostrana , quindi in bocca al lupo e aspettiamo con ansia il Second Strike!
25 Maggio 2021 14 Commenti Samuele Mannini
genere: Prog. metal/ Prog Rock
anno: 2021
etichetta: Logic Illogic - Burning Mind
Ultimamente rispetto alle uscite massive, ma spesso poco originali, del melodic rock/aor scandinavian style preferisco muovermi nell’ascolto di ciò che circonda il mondo melodico, con un occhio di riguardo verso un genere che mi ha sempre suscitato molte emozioni, ovvero il progressive in tutte le sue declinazioni. Ecco dunque giungermi alle orecchie da Youtube il video di 1935 tratto da Timescape nuovissima uscita di questo trio italico, chitarra basso e batteria (Rush docet) ed è stato subito feeling.
I Wine Guardian formati da Lorenzo Parigi (Lead Vocals, Guitar), Stefano Capitani (Bass, Backing Vocals) e Davide Sgarbi (Drums, Backing Vocals) già autori di un ep nel 2014 e del full lenght Onirica nel 2017, si mettono questa volta alla prova con una produzione di tutto rispetto ( anche a livello puramente tecnico) che va a spaziare nel prog a tutto tondo, sia per quanto riguarda la componente più rock, sia nella sua componente più vicina al lato metal.
Molto interessante questo approccio totale, che riesce ad avvicinare il classico prog rock di derivazione settantiana con qualche impronta Rush, alle moderne rivisitazioni fatte in anni più recenti da gruppi quali Opeth e Anathema. C’è un gruppo che adoro, che ultimamente ha adottato questo tipo di approccio, sono i Caligula’s Horse ed in certi tratti questo Timescape me li ricorda assai, ma non voglio semplificare né schematizzare troppo, il paragone serve solo a dare una collocazione sonora di riferimento per chi è già avvezzo al genere.
Il lavoro si snoda in sette canzoni della durata complessiva di circa 56 minuti nel perfetto rispetto delle complesse articolazioni progressive, ed alterna brani più duri ad altri spiccatamente più melodici ed è molto interessante la performance vocale del singer Lorenzo Parigi che spazia con naturalezza tra voci pulite e limpide e parti grintose al limite del growl per nulla invasive , ma funzionali allo svolgimento del brano, un lampante esempio è l’opener Chemichal Indulgence. Non tragga però in inganno questo riferimento canoro, il disco è altresì ricco di melodia ed atmosfera e non esita a mostrarcele con un’altro dei mie pezzi preferiti ovvero Little Boy, dove il paragone con i succitati Caligula’s calza a pennello, ritmiche serrate mixate ad ariose aperture ci guidano per la canzone in un magistrale equilibrio tra tecnica e feeling. Cito inoltre la viscerale The Astounding Journey che nei suoi dodici minuti ci illustra ogni aspetto delle sonorità espresse dalla band. Infine il gioiellino 1935, prog acustico di classe superiore con una interpretazione vocale che ricorda da vicino Jon Anderson, con tutte le sfumature tipiche del miglior prog rock anni 70 , un vero e proprio sogno ad occhi aperti.
In breve un disco di molta sostanza che ci affresca un mondo seducente e sognante come solo il progressive sa fare. Seguiamo quindi questi ragazzi in questo viaggio, sperando che la loro evoluzione continui a regalarci questa magia anche in futuro.
13 Maggio 2021 23 Commenti Vittorio Mortara
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music srl
Definire il genere musicale proposto da questo nuovo combo svedese è la prima difficoltà di questa recensione. Senz’altro la prima cosa che salta all’occhio (anzi, all’orecchio!) è la voce del fondatore Kristian Fyhr, leader dei Perpetual Etude, gruppo autore di un discreto album di Hard Rock con forti influenze power. Il biondo ragazzone è dotato di una tonalità che ricorda molto da vicino Danny Vaughan ma, almeno per chi scrive, dimostra una padronanza ed una varietà di interpretazione di gran lunga superiore rispetto al cantante americano. Intorno a sé, Kristian ha radunato musicisti che vantano militanze in diverse band scandinave non di primissimo livello. La bio parla di un songwriting dalle influenze più disparate: dagli Ace Of Base ai Behemot, e, a dire il vero, si sentono veramente un po’ tutte! Quello che ne scaturisce io lo definirei un hard rock raffinato, mai banale, modernizzato da una velatura lievemente oscura, quasi gothic, con passaggi strumentali a tratti mutuati dall’heavy metal ma adattati alla tipica melodia nordeuropea. Quanto agli influssi pop, li scorgerete più nell’uso garbato delle linee vocali che nell’immediatezza delle stesse. Infine, a valorizzare ulteriormente il prodotto, contribuisce una registrazione piuttosto curata. Tecnicamente bravi tutti i musicisti, anche se a fare la parte del leone è sempre il buon Fyhr, due spanne buone sopra il resto del gruppo.
La sintesi di quanto detto si può ascoltare nell’opener e primo singolo “Say what you need to say”, melodica e variegata, con un accenno di screaming ad introdurre il bel refrain, fra gli svolazzi del piano e della chitarra su un tempo non esattamente facile. Si pigia sull’acceleratore con “When we were young”, decisamente più hard ed immediata, dominata dalla chitarra di Dornerus. Aperta da un arpeggio classicamente metal, “Broken mirror” mette in evidenza tutta la maestria di Fyhr nella gestione delle proprie corde vocali, dal sussurrato all’aggressivo. Colpisce lo spirito pop del ritornello che non sfigurerebbe affatto in una canzone di Ed Sheeran. La title track, invece, prende spunto dai migliori Talisman e vi assicuro che la voce di Kristian non ha nulla da invidiare al Jeff Scott Soto di quei tempi! Ascoltate “When I’m gone” e notate quanto sia abile il singer svedese a prendervi per mano e ad accompagnarvi lungo tutte le fasi del pezzo comunicandovi perfettamente l’intensità del testo cantato! Hard rock al di sopra delle definizioni.
Fantastico! “Should’ve know better” ha movenze raffinate nella partitura strumentale, all’interno della quale si apprezza particolarmente il lavoro del piano. Superfluo ribadirne altresì la perfetta interpretazione canora. La struttura modernamente pop energizzata dalle chitarre contraddistingue “Beautiful”, mentre la durezza espressiva della successiva “Time to let it go” è decisamente mutuata dall’universo metal. Scelta come secondo singolo, “Deja vu” è tutt’altro che di facile assimilazione: ottimo il lavoro della sezione ritmica e, ancora una volta, splendido il ventaglio di sfumature vocali messe sul piatto da Fyhr. “Bright and clean” è il brano che ho apprezzato di meno, più insipida ed ordinaria rispetto al resto dell’album. A concludere col botto ci pensa però “Hope it will be allright”: quel piano triste e romantico ad accompagnare la voce mi ha provocato più di un brivido lungo la schiena per quanto somigli allo stile dell’impareggiabile poeta Fish… e come se non bastasse l’assolo di cello dell’ospite Hampus Linderholm rende la canzone un vero e proprio killer emozionale.
I dischi belli ti invogliano a riascoltarli più e più volte. Quelli come l’ultimo dei Temple Balls lo fanno perché l’adrenalina che ti infondono crea assuefazione e non vedi l’ora di sparartene un’altra dose. Quelli come questo “Delirium” lo fanno perché senti la necessità di riascoltare con più attenzione questo o quel passaggio, perché sei sicuro che ti sia sfuggita una sfumatura, un dettaglio. E desideri coglierne fino all’ultimo particolare. Vi assicuro che quest’album non vi deluderà. Non fosse altro che per ascoltare un cantante che, per me, va a piazzarsi dritto dritto nel valallah dei singer vichinghi di questo decennio.
Da ascoltare!
12 Maggio 2021 12 Commenti Vittorio Mortara
genere: Aor
anno: 2021
etichetta: Frontiers
Ma chi sono questi Save The World? A parte la militanza di Dan Tracey nella band di Alan Parson in qualità di cantante e chitarrista, la bio parla della partecipazione dello stesso alla composizione delle colonne sonore di svariati film e serie televisive. Così come cita la presenza di Robert Wright in innumerevoli album country come polistrumentista e songwriter, in pratica, però, non fornisce alcun riferimento specifico sulle produzioni né del primo né del secondo. Per cui, per chi scrive, l’unica traccia tangibile dei nostri eroi resta il precedente lavoro, intitolato semplicemente “One”, un ottimo disco di AOR piuttosto catchy.
I due personaggi, entrambi nativi di Springfield, hanno sempre sostenuto che il loro progetto altro non fosse se non l’espressione concreta dei loro gusti musicali: un’insieme di canzoni facili ed emozionanti da sparare a manetta in macchina con i finestrini abbassati durante un viaggio lungo le highway a stelle e strisce… E, per quanto mi riguarda, l’obiettivo è stato pienamente centrato sia con il primo che con questo secondo disco!
Il genere proposto è un AOR fortemente americano, con pesanti influenze westcoast e con qualche canzone atipica che rende più variegato il tutto, pur suonando, almeno a mio giudizio, un po’ fuori posto.
Dal punto di vista tecnico i nostri sono più che adeguati, anche se non possono definirsi dei funamboli in nessuno degli strumenti. La voce di Tracey, non particolarmente estesa o caratterizzata, segue però alla perfezione il dipanarsi delle melodie senza una sbavatura e, in fin dei conti, risulta perfetta. Solo accettabile, invece, il lavoro di Wright in sede di mixaggio e produzione: siamo parecchio lontani dalle migliori realizzazioni del momento.
“Camera obscura” apre le danze in modo spiazzante: movimenti prog dominati da un cantato piuttosto orecchiabile si snodano fra intrecci di chitarra e tastiere. Ottima la sezione ritmica. Decisamente più chitarrosa e lineare, “Bones” ci ammalia con un pregevole stacco centrale seguito da un semplice assolo a due dal bell’effetto. Il tutto profuma vagamente di Boston. Il riff di chitarra e tastiere di “Miss muse” fa accapponare la pelle per quanto ricorda la golden era dell’AOR americano. Quando poi arriva il ruffianissimo refrain l’emozione tocca il culmine! Bellissima canzone! “Defender of the faith” non smentisce il suo titolo ed è decisamente più maschia e hard, pur conservando una innata vocazione melodica. Le hooklines della ballata “Daphne blue”, dai forti accenti pop, richiamano non poco i primi Nelson. Quindi con “When Amanda hits the stage” ci trasferiamo al volo sulla westcoast, grazie ad un ritmo sinuoso e cori in primissimo piano. Non scendete dalla Mustang cabrio virtuale sulla quale siete saliti, perché “Man on an island” è una bella canzone da spiaggia, come solo i maestri REO Speedwagon sapevano scrivere! Divertimento allo stato primordiale! Ed eccoci a “Longer”, classico lento strappalacrime la cui melodia senza tempo ha conquistato il mio cuore al primo ascolto. Testo tanto semplice quanto azzeccato. Cori da urlo. Stupendo. Scusate, ma i lenti sono la mia passione, ormai dovreste saperlo… Il tempo di ricompormi e vi presento “Denslow park” interessante commistione di Nelson, Cheap Trick e Boston di assoluta efficacia. “Automatron” ricorda ancora molto da vicino gli autori di “More than a feeling” grazie a veri e propri tappeti di voci che creano un effetto spaziale, accentuato dall’assolo di synth. “Illuminati è a mio avviso il brano meno riuscito dell’album. Troppo tendente all’epico, decisamente fuori contesto. Lasciamo che i Ten facciano i Ten… Per fortuna che “Who’s that girl” non è una cover di Madonna e ci riconcilia con i nostri grazie a un semplice rock’n’roll spedito e senza fronzoli.
Bene, il viaggio in cabriolet su e giù per gli USA si conclude qui. Scendiamo spettinati e felici, già pensando a dove andare la prossima volta, con il sorriso sulle labbra e un gradevole senso di soddisfazione. Bravi Save The World. Fatta eccezione per un paio di pezzi, avete mantenuto la promessa. L’album è perfetto per il fine dichiarato: farci divertire. Consigliatissimo!
06 Maggio 2021 4 Commenti Samuele Mannini
genere: Pop Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers
Sinceramente sono stato in difficoltà nel recensire questo disco, me la sarei anche potuta cavare salomonicamente con un senza voto, perché parliamoci chiaro, in queste pagine dove si tratta di melodic rock in senso più o meno ampio, questo disco ci entra solo se tirato per i capelli. Certo è che con Mark Spiro tutti i devoti di hard melodico ed affini hanno un debito di riconoscenza eterno per via di tutte le perle di songwriting, le sue collaborazioni e produzioni con tutto il gotha del genere negli anni d’oro. Proprio in virtù del suo tocco magico nello scrivere canzoni, ero alquanto curioso di posare le mie orecchie su questo lavoro e sentire nuovamente il ruggito del vecchio leone, ed invece sinceramente il primo ascolto mi ha lasciato alquanto basito, si, perché il disco si sviluppa su un pop rock tipicamente USA oriented, ma molto più vicino al pop anche in virtù di un massiccio uso dell’elettronica nelle percussioni che sinceramente a me stronca un po’ il sentimento. E’ vero che la soglia tra il pop/rock , il westcoast e l’aor è sempre molto labile e gli arrangiamenti spostano ora da una parte, ora da un’altra, l’orientamento di un pezzo, ma in questo caso mi ha dato l’impressione di una scelta ben precisa.
Quindi?… Quindi come si giustifica il voto che sicuramente non sarà passato inosservato? Beh… semplice , si giustifica col giudizio sulla musica espressa, andando al di là dell’ inquadramento in un genere, definiamolo pure un off topic di classe superiore.
Questo è un viaggio intimo e riservato nello spirito di un grande artista e vale la pena di ascoltarlo e meditarlo con attenzione estrema. Le atmosfere soffuse ci svelano un’anima, pezzi riflessivi dove i testi, se ascoltati con attenzione, gratificano corpo e mente. Ripeto, bisogna approcciarsi a questo disco con la giusta predisposizione e senza pregiudizi, disposti a seguire il buon Mark lungo la strada e vedrete che vi porterà a visitare luoghi meravigliosi.
Al netto di un paio di episodi un po’ troppo lontani dalle mie corde come Dance per esempio, vi segnalo le canzoni che più ho apprezzato ovvero, Rolls Royce con le sue chitarre dal sound westcoast, Vanderpump sicuramente l’episodio più rock ‘n roll e Going che un po’ mi ricorda lo stile di Mark Jordan. Bellissime ed intime sono la dolcissima Someone Else, la quasi Aor I Ain’t Leaving e la meravigliosa e riflessiva Let The Wind Decide.
Insomma più ascolto questo disco e più mi piace e sopratutto mi corrobora l’anima e sinceramente non saprei cosa chiedere di più.
———- English Version ———-
Honestly, I was in trouble in reviewing this record. I would also have been able to get by solomonically with an “unrated” because, let’s say it, this album does not totally belong to melodic rock genre.
It is certain that all devotees of hard melodic and similar have an eternal debt of gratitude with Mark Spiro because of all the pearls in writing, his collaborations and productions with all the elite of the genre in the golden years; precisely by virtue of his magic touch in writing songs and I was quite curious to lay my ears on this work.
The first listening left me quite thrilled because the record develops on a typically US oriented pop rock but much closer to pop also by virtue of a massive use of electronics in the percussion that , in my opinion, frankly crushes the feeling . It is true that the threshold between pop /rock, westcoast and aor is always very unstable and the arrangements shift the orientation of a piece to one side, now to another, but in this case the impression is of a very specific choice. So?… So how do you justify the vote that surely won’t go unnoticed? Well … simple, it is justified by the judgment on the music expressed, going beyond the classification in a genre, let’s call it a top class off topic. This is an intimate and reserved journey in the spirit of
a great artist and it is worth listening to and meditating on it with extreme attention.
The suffused atmospheres reveal a soul to us, reflective pieces where the lyrics, if listened to carefully, gratify the body and mind. You have to approach this record with the right predisposition and without prejudices, willing to follow the good Mark along the way and you will see that he will take you to visit wonderful places. A couple of episodes a bit too far from my strings like “Dance ” for example, But i would like to point out the songs I liked most, like “Rolls Royce” with its westcoast-sounding guitars, “Vanderpump” definitely the most rock ‘n roll episode and “Going” which reminds me a little of Mark Jordan’s style. Beautiful and intimate are the sweet “Someone Else”, the almost Aor “I Ain’t Leaving” and the wonderful and thoughtful “Let The Wind Decide”. In short, the more I listen to this record, the more I like it and above all, it strengthens my soul and honestly i can’t ask for more.
04 Maggio 2021 0 Commenti Giulio Burato
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2021
etichetta: PRIDE & JOY Music
Un nuovo mondo, un nuovo capitolo e un nuovo cantante.
Con queste tre semplici affermazioni, mi addentro alla recensione di “Brave New World”, terzo album degli svedesi Constancia. Si apre dunque un nuovo capitolo per la band dell’ex cantante David Fremberg , passato definitivamente al suo progetto parallelo Reggae Kiss, con la nuova ugola di Pete Godfrey, singer dei Blood Red Saints, dietro al microfono.
La dipartita di uno dei fondatori dei Constancia, ovviamente, può lasciare spiazzati, come un rigore dell’infallibile Kessie (Milan), ma i rimanenti componenti della band, a gol incassato, si sono rimboccati le maniche e hanno rimesso la palla al centro, producendo nuovo materiale discografico.
La presenza del bravo Pete ha rimodulato le coordinate musicali verso una ricerca melodica più accentuata, non togliendo però quei tocchi progressive, nei passaggi strumentali, dove va sottolineata la buona prova alle tastiere di Mikael Rosengren.
L’album scivola via in maniera abbastanza omogenea senza trovare quell’eurogol che lascia a bocca aperta.
Alcune canzoni sono degne di nota; la migliore del lotto è “Stronger” incastonata su un bel tappeto di tastiere, seguita dalla sofisticata “The key” e dallo speranzoso singolo “Brave new world”. Alcune altre, invece, sembrano degli autogol evitabili; mi riferisco nello specifico a “Blame it on love” che, alla solo lettura, mi ha catapultato alla perla dei Danger Danger, ma che, seppur diversa, la scimmiotta nei contro-cori, mentre “Stand your ground” e “Open your heart” non danno alcun valore aggiunto.
Buoni alcuni assoli di Janne Stark presenti su “We are unbreakable” e “Titanium” mentre Il resto delle canzoni sono come delle partite di fine campionato, senza, purtroppo, emozionare come una finale di Champions League.
Conclusioni:
Un lavoro fatto con mestiere e apre alla visione di “un nuovo mondo” per i Constancia, grazie all’innesto di Pete Godfrey. Primo, piccolo passo per una ripartenza, auspicata anche nella title-track, ma che per ora sembra più simile ad un mezzo passo falso.