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The Nail – The Nail – Recensione

12 Settembre 2024 1 Commento Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Frontiers da seguito alla formula “Mischio le carte e ne cambio X” per dare vita all’ennesimo progetto artistico, punto d’incontro tra vecchie e nuove generazioni, esordienti ed in ascesa.
Nei qui recensiti The Nail troviamo la voce di Girish Pradhan (Girish & The Chronicles, The End Machine, Joel Hoekstra’s 13) unito ai giovanissimi Rais Ali ed Efe Eroglu (16 e 21 anni), figli di Cenk Eroglu, noto ai più per aver militato un paio di anni all’inizio del millennio negli Winger.
Durante il ripetuto ascolto di queste 11 tracce, oltre il track by track, a un rocker navigato (per soldi e tempo speso per la causa) come il sottoscritto, vengono spontanee due riflessioni che qui tenterò di sintetizzare; la prima: é lodevole, corretta e giustificata la possibilità data a nuove leve di mettersi alla prova sul tema full lenght. Il macrocosmo Rock è stato perlustrato al suo 99%, e mi auguro che la rimanente porzione Unknown non derivi da una qualunque IA. La musica, in ogni sua forma, nasce da un’emozione umana, e tale deve rimanere a tutela dell’ascoltatore, a tutela dell’artista.
La seconda la riporterò in conclusione di recensione.
I coinvolti, seppur guidati dall’ex Winger, mostrano di aver imparato la lezione degli 80’s rimanendo su coordinate inquadrabili tra il class metal stile Dokken (“No Time To Burn”) con aperture moderne meritevoli di attenzione verso la band di Kip (“Hit & Run”).
Heavy Melodico nella track che da il titolo al disco, e alla band il moniker.
I Dio fanno capolino tra le band citate nella monografia, qui omaggiati con l’impetuosa “Soul Screamer”.
Tra le mie preferite per costruzione armonica la ribassata “Blackout”, dove il riff portante fa da contraltare alla voce di Girish.
Sul finale da menzionare l’oscura e pesante “UnderDog”, tendente ai Judas di Painkiller e il lento “Fall Back Now” dove le trame acquisiscono eleganza.
Le canzoni ci sarebbero e anche l’identità, per quanto simile a tante altre, giunge gradevole, senza dimenticare la giovane età dei ragazzi. Ed ecco la seconda riflessione: la vera pecca di questo lavoro è la solita produzione standardizzata tanto quanto i suoni scelti, che trascina ogni strumento sulle frequenze medie rendendo l’esperienza d’ascolto a tratti confusionaria.

Stryper – When We Were Kings – Recensione

11 Settembre 2024 4 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Quindicesimo disco in studio della Christian Hard Rock Band per eccellenza, gli Stryper. Indiscutibile il merito al gruppo dei fratelli Sweet di aver scovato una seconda giovinezza artistica virando il sound verso territori Metal; una sterzata decisa da 15 anni a questa parte e guidata da un Oz Fox (di questi giorni la notizia di una sua ripresa in salute da una forma tumorale al cervello, incrociamo le dita) ispirato nel macinare riff funzionali e da un Michael Sweet che non perde occasione per mostrare il proprio distacco da ogni forma di invecchiamento, vocale ed anagrafico.
Aggiungiamo la consueta sezione ritmica dinamitarda composta dal fratello Robert e dal bassista Perry Richardson.
I nostri sembrano aver inserito il pilota automatico in fase di scrittura alternando brani aggressivi a mid tempo che fanno della melodica vocale un valore aggiunto. Heavy metal ispirato e caratterizzato, anche, dalle solite lyrics positive ed evangeliche, come tradizione, ma, rispetto al solito, alternate ad alcuni episodi dal sapore malinconico (“When We Were Kings” e “Imperfect World” su tutte).

Dopo l’opener e Maideniana “End Of Days”, è il turno della coppia “Unforgivable” e della title track le quali suonano robuste, epiche e spontanee edificate tramite una struttura circolare e diretta; una bella doppietta posta in avvio, oramai trademark del gruppo californiano. “Betrayed By Love” smorza i ritmi rimanendo estranea agli stilemi di una vera ballad. Durante il nuovo corso i nostri hanno preso le distanze da lenti compiacenti e zuccherosi a la “First Love” ed “Honestly”. Nel lato B troveremo un leggero calo di ispirazione, dovuto a una conseguente e forse inevitabile ridondanza, ad ogni modo compensata da un Oz Fox davvero ispirato anche in fase solista. Degne di menzione “Raptured”, “Divided By Design” e il rock scanzonato di “Grateful”.

Siamo dinanzi a un gruppo che ha avuto nella prima decade della propria esistenza indubbi meriti nel diffondere il metal e il rock in comunità ove sembrava irraggiungibile e dal 2005 ha ripreso in mano il proprio destino artistico mostrando coerenza ed integrità, unite a capacità tecniche fuori dal comune.
Una formula stilistica quasi meccanica non indebolisce, ad oggi, l’imprinting Heavy e l‘attitudine di scrivere brani incisivi e sopra la media di act ben più giovani.

Redlynx – Black Rain (EP) – recensione

10 Settembre 2024 0 Commenti Denis Abello

genere: Hard Rock blues
anno: 2024
etichetta: Indipendente

A 22 anni dall’album Out of the Darkness si ripresentano con un EP di inediti i Torinesi Redlynx capitanati come al solito dall’istrionico frontman Chris Heaven!
Quattro anni li separano invece dall’ultima uscita ufficiale, la raccolta Fur And Claws!
Torna quindi dietro al microfono la voce graffiata e dal timbro che non può non ricordare in questo caso sua maestà David Coverdale con quel suo tratto che gioca tra l’hard rock graffiante ed il blues più caldo ed intimo.

Proprio da qui si parte e così lasciata scivolar sulla pelle l’intro Burned Bridges, titolo evocativo un po’ come a tagliare i ponti del passato ci si lancia sulle note suadenti e avvolgenti di Black Rain che diciamolo pare un vero e proprio omaggio al lato sensuale e blues dei Whitesnake.
Bella prova vocale per un lento classico ma per nulla banale. Ancora sulle note del serpente bianco (e non manca neanche il babe babe babe… marchio di fabbrica del buon vecchio leone Coverdale) ma questa volta si vira verso il classico hard rock blues su Red-Haired Temptation.
Fell The Heat propone un sound più attualizzato mentre si viaggia sullo sleaze nel brano All The Way In che in realtà si rivela forse il brano più debole del lotto proposto con un ritornello in sofferenza. Con Whispers in the rain si torna a calcare il terreno delle ballad, terreno agevole per la voce calda di Chris!

Un EP interessante che meriterebbe una produzione sicuramente più di alto livello e su cui spicca una valida prova vocale di Chris Heaven. Se amate i Whitesnake più blues ma anche i Bad Company di Paul Rodgers, dategli un ascolto!

Sister Switchblade – Don’t Try This At Home – Recensione

10 Settembre 2024 0 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Self released

Dopo una pausa forzata dalla pandemia globale e un rinnovamento della formazione, i Sister Switchblade, il gruppo hard rock di Perth, Australia, sono tornati con un nuovo album che promette di continuare la tradizione del sano e robusto Aussie rock. “Don’t Try This at Home” è il titolo provocatorio del loro terzo lavoro discografico, che segue la scia dei precedenti album, mantenendo intatto lo spirito ribelle e l’energia che li ha contraddistinti.

Il gruppo, nato nel 2017 dalle ceneri dei Babyjane, fonde l’atteggiamento punk degli anni ’70 e l’ostentazione glam dell’epoca d’oro della Sunset Strip, uniti ad echi dei primi Shark Island e reminiscenze dei Ratt più grezzi,  questa potrebbe essere una chiave di lettura per inquadrare il loro sound . La band ha dimostrato negli anni di militanza nei circuiti locali di saper catturare l’essenza del rock’n’roll, con performance dal vivo divenute note per la loro carica esplosiva.

Il nuovo album, “Don’t Try This at Home”, si presenta con 12 tracce che pur sperimentando nuove sonorità non tradiscono assolutamente le radici del gruppo. I riff potenti e i ritornelli che si imprimono nella memoria sono una garanzia per i fan di vecchia data. Prendete ad esempio la granitica Get Down Stay Down che ci riporta nella L.A. di metà anni ottanta con il suo riff diretto e acido,  la oscura ed onirica Like Dominos, mentre la versione acustica del brano “Are You Listening” dei Babyjane offre un momento di riflessione nostalgica.

La band ha dimostrato di saper superare le avversità, trasformando i periodi di silenzio in opportunità per rinnovarsi e tornare con un prodotto ancora più maturo e affinato. Con questo nuovo capitolo, i Sister Switchblade si confermano come una band interessante e vitale nell’ odierno panorama rock australiano. La loro storia è un esempio di resilienza e di capacità di reinventarsi, mantenendo sempre viva la fiamma del rock’n’roll più sanguigno, per chi ama queste sonorità consiglio sicuramento un approfondito ascolto.

Scarlet Rebels – Where The Colours Meet – Recensione

05 Settembre 2024 6 Commenti Giulio Burato

genere: ROCK / MELODIC ROCK
anno: 2024
etichetta: Earache Records

Nella mia personale classifica dello scorso anno, i secondi classificati sono stati i Tempt con l’omonimo album dalla variopinta copertina. Che sia un segno del destino recensire un altro album con una copertina con lo stesso tema cromatico? Probabilmente sì, vista la qualità delle canzoni che ci regalano anche gli Scarlet Rebels con “Where The Colours Meet”, tanto da farlo entrare nella mia top 5 del 2024.

Non ci giro dunque attorno; questo album merita decisamente attenzione dagli appassionati del rock, che qui si tinge di tante sfumature.

Per rendere l’idea, basta ascoltare le prime quattro canzoni e farne subito un resoconto. “Secret drug” sembra sia uscita da “Sonic temple” dei The Cult, “Let me in” non si discosta dalla prima, mentre la bella power ballad “It was beautiful” parte sorniona e delicata per poi sfociare in un arcobaleno melodico; il poker è servito con l’americaneggiante “Grace”.

Ma nella tavolozza dei colori, ovunque il pennello vada ad appoggiarsi trova sempre una tinta che va a completare il quadro (sonoro). Il singolo “Streets of fire” è un pezzo dalla grande struttura rock, il lento “Out of time”, con la magistrale prestazione vocale in combo con Elles Bailey, è da brividi, la malinconia “Practice run” e “Who Wants To Be In Love Anyway”, ricca di tastiere, sono tutte squisite verniciature musicali.

Questo album sembra essere un invito a esplorare, a sentire e a vivere la musica in un modo più profondo e connesso. È un promemoria che la musica non è solo un’arte, ma anche un linguaggio universale che parla direttamente all’anima ed il paragone con la pittura calza perfettamente. Invitiamo i nostri cari lettori ad immergersi in questo “crogiolo” di suoni e colori. Sarà sicuramente un’esperienza che unirà e ispirerà molti. Noi vi abbiamo dato la cornice, le canzoni con cui dipingere il quadro sceglietele voi.

 

Silvera – World Behind Doors – Recensione

21 Agosto 2024 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Mighty Music / Target

La scena musicale danese continua a sorprendere con la sua capacità di sfornare talenti che si distinguono per originalità e qualità. La Mighty Music, in particolare, ha dimostrato un impegno notevole nel promuovere artisti che si allontanano dai soliti schemi, proponendo opere che stimolano l’intelletto e sfidano le aspettative. I Silvera, con il loro secondo album “World Behind Doors”, hanno consolidato la loro presenza nel panorama musicale, raccogliendo un successo notevole su piattaforme come Spotify, dove hanno raggiunto milioni di ascolti, un traguardo notevole per il genere.

Il sound degli Silvera si colloca all’interno di un hard rock moderno dalle sonorita sature, che non disdegna di flirtare con melodie orecchiabili e accattivanti. Questo approccio ha permesso alla band di creare un sound che, pur essendo facilmente accessibile e potenzialmente commerciale, non scade quasi mai nel banale, mantenendo una certa profondità e complessità. Il sound si propone come una sintesi tra gli A Perfect Day ed i Theory of a Deadman, così tanto per inquadrare il loro stile, che si muove agilmente tra influenze nazionali e internazionali.

“World Behind Doors” si rivela un album che non stanca, che invita all’ascolto ripetuto e che si presta a essere un piacevole compagno di viaggio, soprattutto in auto, dove le sue melodie diventano un irresistibile sottofondo per i tragitti quotidiani. Tra i brani più riusciti spiccano “Sane”, con il suo ritmo incalzante e seducente, “Death of Me”, che colpisce per il suo ritornello irresistibile, e “Gone Too Far”, impreziosita dalla partecipazione vocale di Guernica Mancini. Anche “Lifeline” e “Same As Before” si distinguono per la loro capacità di bilanciare appeal immediato e momenti di maggiore aggressività vocale. Non mancano i momenti meno riusciti, come l’inconcludente “Betrayal”, o di ovvietà pop, come in “Show Me How To Live”, che però non compromettono certo la fruibilità del disco.

In conclusione, “World Behind Doors” è un album che, pur senza aspirare al titolo di capolavoro, possiede tutte le qualità per essere apprezzato da un pubblico ampio e variegato, confermando così il talento degli Silvera. Un disco che mi sento di promuovere, che potrà accompagnare molti ascoltatori nei loro momenti di relax di fine estate.

Jon Anderson And The Band Geeks – True – Recensione

21 Agosto 2024 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Jon Anderson è un nome che evoca immediatamente l’immagine degli Yes e dei loro gloriosi giorni passati. La sua carriera solista, sebbene abbia preso una direzione diversa dopo molti anni di separazione dalla band, conserva ancora echi di quel passato. Le sue opere soliste, come anche il progetto Anderson, Bruford, Wakeman and Howe (QUI la recensione), mostrano una chiara predilezione per la spiritualità, un tema che Anderson esplora con delicatezza e profondità. Le atmosfere eteree e meditative che caratterizzano il suo album “True” sono un esempio lampante di come la musica possa essere un veicolo per l’espressione spirituale e personale. Questo approccio alla composizione musicale non solo riflette la crescita e l’evoluzione di Anderson come artista, ma offre anche agli ascoltatori un’esperienza che va oltre il semplice ascolto, invitandoli a un viaggio interiore alla ricerca di significato e connessione. La musica di Anderson, quindi, diventa un ponte tra il materiale e lo spirituale, tra il passato e il presente, e continua a ispirare e influenzare nuove generazioni di musicisti e fan. Con la sua capacità di fondere insieme elementi classici del progressive rock con tematiche più introspettive, Anderson dimostra che la musica può evolversi e adattarsi, rimanendo sempre rilevante e toccante.

Personalmente preferisco questo lavoro agli ultimi Yes ed anche se in alcuni frangenti la voce comincia segnare un po’ il passo, le atmosfere soavi ed evocative rendono il disco piuttosto gradevole, anche se magari, alla lunga, un’ po’ troppo monocorde. Una nota negativa invece per la copertina che, soprattutto, al cospetto di quelle degli anni che furono è semplicemente imbarazzante.

 

Palace – Reckless Heart – Recensione

09 Agosto 2024 3 Commenti Denis Abello

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Frontiers Music Srl

Quinto album per la ormai “One Man Band” Palace. Lo Svedese Michal Palace si rimette infatti dietro al microfono ed inbraccia uno ad uno tutti gli strumenti di questo nuovo lavoro a titolo Reckless Heart!
Per gli amanti dell’AOR più “soundtrack” e pop 80’s oriented il nome di Palace è una garanzia di qualità e anche questa suo nuova fatica non si discosta dalle sue ultime uscite! Idealmente si seguono le tracce del precedente One 4 the Road (qui la recensione) ma addentrandosi ancora di più in quegli anni’ 80, e direi più precisamente in territorio Tim Feehan, Airplay, Tim Pierce con un tocco più maschio alla Robert Tepper, roba quindi che farà gola a chi è cresciuto con le vecchie colonne sonore degli anni’80.

Melodie ariose, ritornelli ultra orecchiabili e quel profumo che fa tanto estate sul sunset boulevard ed ecco servito il primo approccio con il brano Reckless Heart. Un po’ di Miami Vice con The Widow’s Web. Ancora ultra armonioso feeling sulle note di Back in Your Arms e della successiva Girl is an Angel!
Non sarebbe un album AOR senza un po’ di amore spruzzato qua e la ed ecco quindi arrivare la sensuale mid tempo You Give Me a Resoan To Live e la tastierosa For The Love. Parlando di tastiere che richiamano un certo Mark Mangold penso non si possa non citare Turn This Car Around!
Molto eighties e molto sensuale irrompe anche Weightless che ancora una volta potrebbe benissimo far parte di qualche commedia anni ’80!

Diciamo che senza voler citare uno ad uno tutti i brani del lotto si può dire che se amate gli anni’80, e più precisamente direi l’85 (come annuncia il titolo del pezzo Back To ’85) qui non avete che l’imbarazzo della scelta su quale sia il vostro brano preferito perchè bene o male non ci sono cali!
La voce di Michael riesce a caricare del giusto feeling i pezzi e il tutto risulta bello e credibile anche in questo 2024! Poco altro da aggiungere, un bell’ascolo per questa estate per chi è rimasto con il cuore alle spiagge americane dell’85!

Axel Rudi Pell – Risen Symbol – Recensione

06 Agosto 2024 2 Commenti Denis Abello

genere: Heavy Metal
anno: 2024
etichetta: Steamhammer Records

Gli Axel Rudi Pell arrivano al ventiduesimo disco dal 1989 ad oggi, con un incremento notevole delle uscite negli ultimi anni. Incremento che diciamolo non è stato seguito di pari passo dalla qualità.
Con questo non voglio dire che gli album che portano il marchio del teutonico chitarrista siano brutti, ma semplicemente che suonano ormai tutti assolutamente identici.

A livello compositivo si nota un appiattimento nelle ultime uscite che fa si che i nuovi brani ormai difficilmente riescono a far breccia nelle orecchie degli ascoltatori. Così questo Risen Symbol si mescola con poca anfasi alle precedenti uscite Sign Of The Times e Lost XXIII.

Salva il tutto la caratura elevata della band con lo stile inconfondibile del suo “front guitarist” Axel Rudi Pell a cui si aggiunge la voce di Johnny Gioeli che riesce immancabilmente a deliziare i padiglioni auricolari dell’ascoltatore.

Purtroppo quello che salta subito all’orecchio dell’ascoltatore di lunga data è il generale senso di noia che i brani si lasciano alle spalle. Stesse ritmiche, stesse melodie e quasi stesse scalette che ormai da troppi album si ripetono in successione. Tralasciando l’intro, la successiva Forever Strong non è altro che la solita cavalcata tirata con il solito riff alla Rudi Pell che si salva per la doppia cassa di Rondinelli!
Da qui pochi sussulti più che altro regalati dalla bella voce di Gioeli come in Darkest Hour.
Ultimo appunto per la versione “Pell” di un classico dei Led Zeppelin come Immigrant Song. Pezzo ceh viene qui oltremodo diluito con una prestazione alla chitarra buona ma tutt’altro che ispirata. Al solito salva tutto la voce di Gioeli, ma il paragone con l’originale è meglio lasciarlo da parte.

Poche idee a cui spesso è la sola voce di Gioeli a mettere una pezza. In più si aggiunge una prova del nostro guitar wizard che sembra stia diventanto sempre più scolastica e meno ispirata! Consigliato solo ai Die Hard Fans!

Deep Purple – =1 – Recensione

05 Agosto 2024 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Ear Music

Ma siamo nel 2024 o nel 1972? Beh, l’ugola di Ian Gillan ci fa capire che la prima ipotesi è quella giusta, ma per il resto, questi signori che veleggiano felicemente verso l’ottantina, ci riportano al periodo d’ora della band e senza ripetersi pedissequamente, ma prendendo i loro inossidabili marchi di fabbrica e portandoli ai tempi attuali, grazie, presumo, anche all’innesto di Simon McBride, che seppur abbia portato linfa nuova grazie alla sua carta d’identità più recente, ridà quel tocco british che che con Steve Morse si era un po’ affievolito.
E parliamo subito dell’ex chitarrista, spiegando che il suo abbandono, già dal 2022, era dovuto in parte ad una fastidiosa tendinite che lo affliggeva da anni e che, progressivamente gli rendeva suonare la chitarra sempre più difficoltoso e doloroso, ma soprattutto per stare al fianco della sua Janine la quale ha, nel frattempo perso la sua battaglia contro il male più bastardo di sempre; se Steve aveva dato un tocco più visionario e a volte jazz, alle composizioni dei Deep Purple, il buon McBride riporta la band alle origini, con i suoi riff saltellanti debitori della nwobhm (la cui nascita va attribuita in qualche modo anche ai Purple) che ha toccato da vicino grazie alla partecipazione ai primi due album degli Sweet Savage, il tutto traslato nell’universo della band di Hertford a ricreare le tante sfaccettature dovute alle varie Mark e così troviamo nella ritmata opener “Show me”, quegli scambi chitarra/tastiera che una volta erano il marchio di fabbrica di Ritchie Blackmore e Jon Lord, e un istrionico cantato di Ian Gillan che, giocoforza, non riuscendo più a raggiungere le inenarrabili vette del periodo 1969-1973, si modula su un approccio teatrale che fa capire ancora una volta quanto sia grande la figura di questo storico frontman, il quale si ripete lungo tutta la durata dell’album, che comunque presenta diverse sfaccettature, pur rimanendo aggrappato allo stile che ha reso questa band la più grande mai esistita in ambito hard rock.
Questi diversi lati del poligono Purple si sentono nei rimandi a “Stormbringer” (il brano) della successiva “A bit on the side”, nell’approccio rock’n’roll di “Sharpshooter”, nei rimandi evidenti ai tempi di “Machine Head” del primo singolo “Portable Door”, ma…a questo punto mi domando se, nel 2024, ha senso fare una recensione track by track di un album dei Deep Purple e mi dico, no, non ha molto senso, perché dei Deep Purple sappiamo tutto, sappiamo che viaggiano tranquillamente tra il prog, l’hard, il blues, il funky e addirittura il metal, cosa che fanno bellamente anche nel secondo singolo “Pictures of you”, il quale viaggia su territori più ottantiani, nel terzo “Lazy Sod”, intriso di blues e hard fino al midollo e nella conclusiva “Bleeding obvious”, che lascia spazio a partiture prog, reminiscenza dei primi anni della band, ci sono anche due ballad a chiudere il cerchio del ventitreesimo album in studio di Ian Paice e soci, ossia “If I were you” e “I’ll catch you”, e una sferzata metallica con “Now you’re talking”; bisogna però segnalare l’ennesima produzione da urlo del guru Bob Ezrin, che se non sapete con chi ha lavorato, abbandonate immediatamente questa pagina, Pink Floyd, Kiss e Alice Cooper possono bastare? Pulita, ma potente, porta la immarcescibile sezione ritmica Glover/Paice sugli scudi, mentre Don Airey e Simon McBride sentono i loro strumenti con un tocco vintage, ma paradossalmente moderno e incisivo.
Cosa resta da dire ancora che non sia già stato detto di questo album? Forse che a livello di grafica avrebbero potuto impegnarsi un po’ di più, per usare un eufemismo, ma che gli vuoi dire, sono i Deep Purple e dobbiamo ringraziare diverse divinità per averceli conservati ancora in questa splendida forma dopo cinquantasei anni dalla loro formazione e questo può voler dire due cose: una, che il panorama hard rock è talmente fermo e stantìo che bisogna aspettare ancora loro per sentire dell’ottima musica e l’altra è che per fortuna ci sono ancora loro, che possono insegnare alle giovani leve come si fanno grandi album, magari ci si tira fuori da questo attuale deserto chiamato hard rock…