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Rian – Twenty Three – Recensione Breve

06 Luglio 2021 2 Commenti Giulio Burato

genere: MelodicRock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Prodotto dal pluri-strumentista Daniel Flores, “Twenty Three” è la seconda uscita discografica, dopo “Out of the darkness” del 2017, per gli svedesi Rian, prelevati per l’occasione dalla label italiana Frontiers.

La copertina dell’album sembra presa da un futuristico video gioco spara-tutto mentre la proposta musicale dei quattro ragazzi nordici è un giusto mix tra recenti band come Creye, Degreed e Wildness con qualche sfumatura americaneggiante.

La bella voce di Richard Andermyr risulta centrata ed azzeccata per il genere proposto ed è particolarmente “on fire” nei bravi più morbidi come “My ocean”, con suggestivo intro tra le onde, e la bella “Where do we run”.

In “The Passenger” si alternano i passaggi di chitarra, dall’acustico alla cavalcata rock, mentre la conclusiva “Your beauty” è una piccola perla di fine AOR scandinavo, peccato sia posta a fine scaletta.

Da segnalare la title-track con un ritornello convincente, come anche il terzo singolo “We belong”, e la semi ballad “For your heart”. Gli episodi meno efficaci sono la centrale “Body and soul” e la finale “Stranger to me”.

Conclusioni:

I giovani Rian si dimostrano interessanti. L’album è fresco e godibile. Mi chiedo se la prossima uscita discografica sarà nel “Twenty-Three”. il titolo può anche essere un indizio ma, intanto, ascoltiamolo in questa calda estate post Covid.

Toby Hitchcock – Changes – Recensione

28 Giugno 2021 5 Commenti Yuri Picasso

genere: MelodicRock/ Aor
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Terzo Disco solista per il partner in crime di Jim Peterik nei Pride of Lions, Toby Hitchcock, e terzo cambio di partnership. Se l’ottimo esordio datato 2011 “Mercury’s Down” vedeva un sostanziale contributo di Erik Martensoon, “The Reckoning” di 2 anni fa lasciava al polistrumentista Daniel Flores il ruolo di mentis operandi, con una sterzata sonora verso un AOR dai suoni moderni e dalla struttura tradizionale, di maniera. Cosa aspettarsi in questo capitolo dalla penna del nostro Alessandro Del Vecchio a servizio del vocalist dell’Indiana ? Piacevolmente meno scontato del predecessore, le canzoni si distaccano dalla forma vincente consolidata coi POL, lasciando ampio spazio ai virtuosismi dei musicisti coinvolti, sempre a servizio della forma canzone senza invadere certi limiti imposti dal melodic rock, lasciando il ruolo di protagonista alla voce di Hitchcock. Ne banale ne trito, anzi…per immettersi in questo sentiero e rimanere al fianco di ciò che il disco vuole comunicare, necessitano più ascolti. E questo lavoro, più lo ascolti, meglio fruisce, permettendo allo spettatore di cogliere e apprezzare le molteplici sfumature presenti all’interno di ogni singola canzone. Il punto forte di questo Changes è una leggera e costante dose di imprevedibilità, confinata ai dictat imposti dal nostro inflazionato genere, unita a un songwriting di livello e alle prestazioni dei musicisti coinvolti, di livello ed ispirate.

Si parte con un legame col proprio passato solista, la title track “Forward”, piacevole tuttavia convenzionale. Già con “Before I Met You” si apprezza il profumo di cambiamento, col pianoforte che apre le danze per poi sfociare in un buon mid-tempo. Se “Changes” profuma di Survivor, “Tonight Again” unisce melodie essenziali di keys a un crescendo strumentale lievemente epico (stupendo il lavoro alla chitarra). Run Away Again (From Love) col suo finale deliziosamente prolungato e sfumato consegna sensazioni emotive adeguate a un tramonto estivo, traendo ispirazione nel bridge dai Queen. “Garden of Eden” è moderna e guitar oriented, Ci si assesta per lo più su mid tempo melodici e rocciosi, ricchi di sfumature per cui non si percepisce la mancanza di un vero lento.

Sembra esserci sempre meno tempo e volontà per riascoltare un disco e ancora meno propensione ad investire sul formato fisico e godere fino in fondo del lavoro svolto dall’artista. Oggigiorno l’ago della bilancia tende sempre più verso la musica di consumo, il motto “tutto e subito” impera e conduce la dimensione artistica in una sorta di visione futurista tanto frivola quanto svuotata da contenuti quali riflessioni, ricerca di se stessi. Fare proprie quelle emozioni richiede volontà che poche volte siamo disposti a investire. Tutto ruota attorno a noi e noi stessi siamo i primi a sentirsi in dovere di rimanere in scia.

La missiva di questo “Changes”, pur non essendo un capolavoro, esula da questi concetti, sussurra all’attenzione, stuzzica la nostra memoria artistica; tra le nostre mani, nelle nostre orecchie, rimane un prodotto ricco di colori, di buone intenzioni. Diverso dal debutto, un netto passo avanti rispetto al più canonico “The Reckoning”.

Dave Burn – Nothing Is At Is Seems – Recensione

25 Giugno 2021 5 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: ****

Accoppiata letale per questa nuova uscita estiva: Dave Burn e Lee Small, dall’alto della loro esperienza decennale, si trovano a fondere le proprie influenze e attitudini musicali in questo album di puro hard rock.

Partenza poderosa e granitica riservata a “Right Of Passage”, strumentalmente massiccia e misteriosa, ottimo brano per aprire e invogliare l’ascoltatore a proseguire nei meandri dell’album. “Darkest Hour”, dove la collaborazione con Small si fa ancora più profonda, è un pezzone delicato e suadente, intenso e convincente, da gustare con calma e pazienza. Con “Into The Light” ci catapultiamo in un universo malinconico, dove una melodia spietata si mischia a linee vocali strabilianti, creando un risultato di tutto rispetto. Arriviamo dunque alla lunga “Labyrinth”, una storia, un viaggio, dove nuovamente chitarra e voce si alternano in un duetto micidiale e delizioso, un botta e risposta che risulta essere il vero punto di forza del lavoro. Torniamo su ritmi più sostenuti e rockeggianti con la strumentale “Hit The Ground Running”, un solo solare e pregevole che non stanca e risolleva gli animi. Giungiamo quindi all’intensa e straziante “Before You Cry”, introspettiva e strappalacrime, che cede il passo a “Made Of Stone”, più oscura e metallara. Il sentimento la fa da padrona, come ci ricorda la stupenda ballata “Passing Time”, dove la voce di Lee Small raggiunge vette di passione davvero considerevoli. L’alternarsi di lento – veloce dà ottima dinamica all’album: questo è il caso di “Kick You Upside Down”, movimentata e frenetica, dalla struttura classica ma sempre piacevole. “Always” è un tributo al ritmo, un brano particolare, che spiazza ad un primo ascolto, ma che nel complesso risulta azzeccato e interessante. Atmosfere orientaleggianti su “Understand”, decisamente più pesante come sonorità rispetto alle altre tracce, che svela l’ennesimo lato creativo della coppia Burn/Lee. Sulle note della strumentale “Boat To Samarkand” chiudiamo l’ascolto di questo album sublime, che vede un Dave Burn in stato di grazia e un Lee Small in forma smagliante, un lavoro variegato, non noioso e dalla dinamica interna ben congegnata: veramente una bella scoperta!

King Company – Trapped – Recensione Breve

25 Giugno 2021 1 Commento Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Il supergruppo  finlandese King Company pubblica il terzo album Trapped per Aor Heaven con un nuovo cantante.

I King Company sono composti da: Mirka Rantanen ( ex-Thunderstone, ex-Kotipelto, ecc.) alla batteria, Antti
Wirman alla chitarra ( Children Of Bodom), Time Schleifer  al basso, Jari Pailamo alle tastiere; dopo due album usciti per Frontiers e vari problemi di salute dei precedenti vocalist , la formazione attuale si completa con la new entry  Ilkka Keskitalo .

Le undici tracce si muovono su un consolidato mix tra hard scandinavo con arrangiamenti teutonic style alla Fair Warning, ed il nuovo cantante mostra una voce adatta allo scopo abbastanza evocativa ma anche potente all’occorrenza. Il problema di questo disco è che scivola via senza quasi lasciare il segno, vagando tra il già sentito e l’ordinaria amministrazione. Cito i tre pezzi a mio gusto migliori ovvero, l’articolata e sinfonica Fair Winds, la scoppiettante Nobody’s Fool e l’appassionata Death Of Soul.

In Sostanza il disco non è brutto e si lascia ascoltare amabilmente, solo che si conforma troppo al filone a cui appartiene con la concreta possibilità di andare a smarrirsi nel marasma delle uscite di quest’anno. Consigliabile l’acquisto solo ai fan sfegatati del genere.

P.s. nota di merito all’artwork, veramente azzeccato.

Devils In Heaven – Rise – Recensione

24 Giugno 2021 17 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock/Aor
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Una delle copertine più pacchiane della storia nasconde un gioiello di melodic rock partorito da un gruppo perseguitato dalla sfiga. Un disco che avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere un crack e che per nostra somma gioia è stato ripescato da Aor Heaven dandoci la possibiltà di gustarcelo a quasi trent’anni di distanza.

Un po’ di storia: i Devils In Heaven sono un gruppo Australiano ,della Tasmania per l’esattezza, che ebbe il suo quarto d’ora di celebrità vincendo un concorso di un programma televisivo ed assicurandosi così la possibiltà di registrare un singolo con la Sony. Correva l’anno 1992 e la Sony, adempiuto il vincolo contrattuale, non aveva nessun interesse nella promozione e nello sviluppo di questo progetto, affaccendata com’era sia nella produzione dell’uscita di Rick Price (tra l’altro ottimo disco ,ma flop commerciale) e nella rincorsa ad altre  coordinate sonore. Comunque sia, il singolo un po’ di rumore nella scena underground lo fece (su Discogs mi sembra sia quotato sui 300/350 dollari ) e questo stimolò i diavoli della tasmania a registrare un ep autoprodotto direttamente negli Usa avvalendosi della collaborazione artistica e produttiva di Sir Arthur Payson (Mitch Malloy, Tattoo Rodeo, Kane Roberts, tanto per fare qualche nome dei suoi assistiti). Nasce così nel 1993 Liberation ,un ep con tre tracce uscito per la super underground Possum records. Inutile dire che un sound del genere nel 1993 senza nessuna spinta promozionale, non ebbe la minima speranza . Se comprerete questo Rise, troverete inclusa una esaustiva intervista che narra tutte le vicissitudini di questi sfortunati ragazzi, dalla perdita della voce del singer David Whitney, alla prematura scomparsa del batterista Phil Crothers.

Questa edizione contiene tutte le cinque canzoni precedentemente edite, più altre sette registrazioni mai uscite, tutte remasterizzate e ripulite, inoltre le ultime due bonus track sono la riproposizione delle versioni originali dell’epoca.

Musicalmente parlando , le canzoni si muovono su coordinate melodic rock /aor con qualche puntata nel pop rock di matrice Aussie, volendo sintetizzare in estremo ,un mix tra 1927 e From The Fire per chi li conosce, ma non avrete difficoltà a collocarlo nel tipico filone anni 80 poiché ne ripercorre in pieno lo spirito. Per me è stato amore al primo ascolto e tutte le canzoni hanno una loro dignità , chiaramente si nota una certa disomegeneità dovuta al fatto che le canzoni sono state composte in epoche diverse e cercando di trovare una vera e propria direzione sonora, in ogni caso sono tutti esperimenti riusciti. Citerò in ordine sparso Liberation che con il suo bridge avrebbe reso fieri i gemelli Nelson e Take Me che si muove su un territorio molto accostabile ai From The Fire. Segue Ain’t It A Wonder, una ballad che ai tempi avremmo definito strappamutande, il classico lento da ballare abbracciati ad una bella pischellotta, veramente emozionale. Ships In The Night è un mid tempo che deve molto alla scena Australiana ed il sound 1927 è inconfondibile. Ascoltate poi con che approccio Boltoniano viene affrontata Ships in The Night, un vero e prorio hit mancato. All Night va ad esplorare il pop/rock più orecchiabile e non va lontano dalle atmosfere compositive alla Mark Spiro. I moderni amanti del revival synth pop potranno invece sculettare amabilmente sulle note di Listen To My Heart con quell’intro alla Donna Summer che farà impallidire tutti i Brother Firetribe dell’universo. Cito inoltre la conclusiva ballad Heart, Mind & Soul delicata e coinvolgente.

Insomma a me è scattato il colpo di fulmine per questa sfortunatissima band dalle grandi doti e se sicuramente si candida per la copertina più brutta del millennio, questo Rise merita l’acquisto ad occhi chiusi perché qui…..mancò la fortuna, non di certo il valore.

Robin McAuley – Standing on the Edge – recensione

24 Giugno 2021 5 Commenti Denis Abello

genere: AOR / Melodic Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music Srl

Se mi chiedete di nominarvi un cantante che secondo me avrebbe meritano più notorietà… beh… non avrei dubbi e mi giocherei sicuramente il nome di Robin McAuley! Chiariamo, non che il cantante irlandese non abbia avuto una carriera più che degna… McAuley Schenker Group, Grand Prix, Far Corporation… più un sacco di collaborazioni e una “comparsata” nei Survivor oltre che essere un membro stabile dello spettacolo itinerante (per lo più nella zona di Las Vegas) Raiding the Rock Vault . Eppure la grande consacrazione come una delle più belle voci Rock del panorama internazionale (quale effettivamente è) non è forse mai ufficialmente arrivata.

Allora ci pensa (per fortuna) mamma Frontiers a rimettere sulla retta via il mondo del rock dando prima la possibilità a McAuley di presiedere in qualità di voce e frontman al progetto (e che progetto… Reb Beach, Jeff Pilson, Matt Star) Black Swan (qui la recensione) e ora di pubblicare questo suo nuovo solista a titolo Standing on the Edge.

Bisogna fare un salto al termine del 1999 per recuperare il precedente album solista Business as Usual (pubblicato inoltre nel solo Giappone) in collaborazione con il chitarrista dei Survivor Frankie Sullivan (album in cui appariva la splendida When The Rain Came). Tanti anni quindi, assolutamente non passati con le mani in mano, ma che facevano sentire la necessità di un nuovo capitolo a nome esclusivamente Robin McAuley… e se il progetto Black Swan si buttava a piene mani nell’hard rock più classico qui facciamo freni a mano in territori a me più cari come quelli dell’AOR e in questo senso non si può partire senza citare subito le bellissime Late December e Run Away sulle cui note la voce di McAuley brucia emozioni e scatena brividi anche ai cuori più impavidi!

Il resto dell’album è un gioco ben calibrato tra stoccate di riff melodic hard rock come nell’introduttiva Thy Will Be Done o Standing on The Edge intervallate a brani dal nervo AOR come le già citate ballad Late December e Run Away o ancora Do You Remember o le radiofoniche Wanna Take a Ride e Like a Ghost.

Su tutte come sempre la parte del leone se la gioca l’ottima interpretazione e il timbro graffiante della voce di McAuley senza però dimenticare una band di supporto dalle italiche tinte che vede in formazione Alessandro Del Vecchio (basso, tastiere, cori), Andrea Seveso (chitarre) e Nicholas Papapicco (batteria).

Dopo i Black Swan ennesimo pollice su per Robin McAuley!

Strÿkenine – Strÿkenine I – Recensione

23 Giugno 2021 0 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Pride and Joy

Al recente Eurovision ha meritatamente trionfato una rock band italiana, dal nome atipico, danese,
Maneskin (chiaro di luna); nei successivi giorni all’evento, mi sono imbattuto nella promo di una nuova band
svedese, dal nome altrettanto atipico, Stykenine, di cui sto ancora cercando il reale significato, sponsorizzata
come la nuova sensazione del rock scandinavo.
Fatta una dovuta citazione ai nostri connazionali e fatto il parallelismo tra i nomi nordici delle due giovani
realtà musicali, entro nel merito di “I”, titolo semplice del primo album dei Strykenine.
L’aggettivo atipico calza a pennello anche per descrivere la proposta musicale e la produzione di questo
album che si discosta, in maniera netta, con la massa di uscite discografiche in ambito melodic-rock del nord
Europa. Siamo vicini ad un class metal di stampo Dokken/XYZ con un po’ di AOR scandinavo tipo 220 Volt. I
suoni non sono pomposi, le tastiere entrano in scena senza invadere, si notano diversi cambi di ritmo e le
chitarre graffiano fino a quando la particolare voce di Jacob Petäjämaa prende la scena, diventando croce e
delizia, in quanto si ostina ad usare tonalità alte che alla lunga diventano difficili da digerire.
“Once and for all” è il primo singolo, posto a inizio scaletta, che, a livello chitarristico, può essere l’alter-ego
di “Dr.Love” degli Hardline. Il lavoro al basso di Tony Bakirciouglu in “Toxic” fa venire in mente gli Skid Row
degli albori. “All I Need” si apre come una semi-ballad ma si chiude in crescendo, diventato un ibrido difficile
da classificare. Su “All about Us” e “Religion” c’è una grande presenza delle chitarre di Andi Sarandopoulos e
Alex Zackrisson, mentre in “Falling down” sono le tastiere a farla da padrone. La coralità di “Better believe”
esce dagli schemi dominanti del cantato di Jacob mentre “Live and die” si candida ad essere uno dei
prossimi singoli grazie ad un ritornello azzeccato. Tirando le somme, manca però una killer-song che innalzi
il livello della release. Buona la produzione.

Conclusioni:
“I” è un diamante grezzo che deve essere lavorato. Scorre senza trovare delle vette “sensazionali” (descritte
in presentazione) ma fa trasparire delle buone idee tecniche e negli arrangiamenti. I giovani Strykenine
hanno potenzialità e un frontman dotato di un’estensione vocale notevole, ma che dovrà imparare a
modulare per non essere stucchevole.

Kent Hilli – The Rumble – Recensione

21 Giugno 2021 17 Commenti Yuri Picasso

genere: Aor
anno: 2021
etichetta: Frontiers

A cura di Yuri Picasso e Giulio Burato

E’ difficoltoso e nel futuro lo sarà sempre un poco di più provare emozioni (nuove ?) durante l’ascolto di dischi che ricalcano più o meno fedelmente sonorità nate quasi 40 anni fa, che hanno raggiunto il loro apice nei 10 anni successivi e che sono state riproposte e rivisitate negli anni a seguire più o meno costantemente fino ad oggi .

Lasciata alle spalle la carriera da calciatore, lo svedese Kent Hilli si è unito ai Perfect Plan nel 2014 con i quali ha prodotto due ottimi album e arriva oggi al debutto solista. Se con la band madre le coordinate si muovono maggiormente su un rock melodico di matrice scandinava, in quest’opera prima l’ago della bilancia si colloca, maggiormente ma non esclusivamente, in territori cari ai Giant e ai Survivor con qualche incursione a volte nel Gospel (“Heaven Can Wait”) a volte sforando nei confini del blues (“Miss Up To No Good”). Ha senso riproporre una formula consolidata e abusata oggigiorno ?Se alla base il songwriting è tanto derivativo quanto valido e si è dotati di una voce fuori dal comune, la risposta è si.

Autore in solitaria di tutti i brani presenti in scaletta a parte 4 coscritti coi vari Alessandro Del Vecchio, Pete Alpenborg e Tina Hilli (sorella di Kent), il disco vede coprotagonista Michael Palace, in fase di produzione e interprete su ogni singolo strumento.

Gli episodi migliori sono quelli che traggono ispirazione dal songbook delle band di Jimi Jamison e Dann Huff. “Love Can Last Forever” sembra un outtake di “Time To Burn”, idem “Still In Love”; power ballad dal potenziale davvero elevato. Tra i lenti la già citata “Heaven Can Wait” possiede un suo fascino ed è testimone di come Pianoforte e Voce siano un binomio sempreverde anche nell’era moderna offuscata da trap ed elettronica. Quando si mostrano i muscoli il risultato rimane altrettanto valido. Con la title track ritorniamo ai tempi di “Vital Signs”, mentre se Silvester Stallone avesse bisogno di un pezzo per un nuovo capitolo di Creed, potrebbe chiedere al cantante svedere “Cold”. Il neo è la mancanza di colpi di scena negli arrangiamenti, a volte eccessivamente prevedibili, non che il genere lo richieda, ma uno sforzo maggiore sotto il punto di vista dell’estetica avrebbe reso il prodotto finale più personale.

La Voce di Kent rimane un valore aggiunto assoluto, in grado di brillare di luce propria. Unito a un songwriting ispirato e tradizionale come il più classico dell’AOR richiede, saranno in grado di dispensare emozioni durante l’estate oramai prossima.

Crowne – Kings In The North – Recensione

16 Giugno 2021 8 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

C’era una volta, in un epoca non molto lontana, un mondo ideale, in cui il metal, l’hard rock e l’AOR erano generi “commerciali” e vendevano milioni di dischi. Le band si chiudevano in studio per mesi, a confrontare ed amalgamare le idee di tutti i membri, per partorire poi un album che veniva registrato sotto l’egida di produttori fenomenali con a disposizione budget stellari. L’album veniva poi commercializzato e promosso con lunghi tour internazionali che potevano anche durare anni, durante i quali milioni di fans di tutto il mondo potevano ascoltare i loro beniamini. E questi ultimi potevano suonare il proprio repertorio insieme per centinaia di volte, migliorando l’amalgama del gruppo e potendo contemporaneamente toccare con mano la reazione del proprio pubblico. In quel tempo i supergruppi si chiamavano Bad English, Mr. Big, Damn Yankees… Erano veramente super, ma, soprattutto, erano veramente gruppi! Rimanevano insieme a pubblicare album dopo album e a fare tour dopo tour. Per anni. Poi vennero il grunge, il rap, il trap e mille altri generi ad affollare le classifiche. La nostra musica venne ghettizzata e mantenuta in vita da poche etichette specializzate al servizio di un ristretto manipolo di inossidabili estimatori. I concerti divennero quasi in organizzabili perché i costi non venivano coperti dagli incassi dei pochi biglietti venduti, e le bands si trovavano a registrare albums con pochi mezzi e pochi soldi da investire. In questa nuova situazione nacque anche una nuova idea di supergruppo, cioè la collaborazione di musicisti più o meno famosi facenti parte di bands più o meno “di grido” che decidono più o meno autonomamente di suonare e registrare qualche pezzo insieme, anche senza necessariamente essere ispirati da un comune desiderio di voler provare o sperimentare qualcosa di alternativo alle rispettive band madri.

Mi scuso per il lungo pistolotto di introduzione, ma mi è assolutamente necessario per spiegarvi perché a me questi Crowne sono piaciuti poco.
Nati da un’idea del nostro Serafino Perugino, i Crowne sono Alexander Strandell (Art Of Nation), Jona Tee (H.E.A.T.), John Levén (Europe), Christian Lundqvist (The Poodles) e l’ospite Love Magnusson (Dynazty). Sono tutti svedesi, hanno tutti un’ottima padronanza del proprio strumento ed hanno tutti alle spalle diversi anni di esperienza. La produzione, affidata a Tee, risulta potente e pulita, ai massimi livelli ascoltabili nel genere al giorno d’oggi. Perché, dunque, non siamo di fronte ad un disco memorabile? Ad un capolavoro dei nostri tempi? Beh, a giudizio di chi vi scrive, i fattori sono molti. Per la maggior parte del lavoro, intanto, viene proposta una sorta di Hard/AOR sullo stile degli ultimi album di Eclipse, H.E.A.T. e Vega, ma con un’enfasi maggiore sull’epicità del sound, dal rifferama piuttosto duro, in cui gli up-tempo la fanno da padroni, tanto da sconfinare talvolta nel power più melodico. La voce di Strandell, pur stentorea e pulita, indugia un po’ troppo spesso sui toni alti. Il tutto genera una certa sensazione di monotonia e monoliticità. A questo aggiungerei che non esiste un pezzo trainante, una canzone che spacca e che ti ritrovi a canticchiare durante tutto il giorno. Alla fine dell’ascolto hai addosso quella sensazione di avere per le mani un buon disco. Ma ti senti anche insoddisfatto. Come se mancasse qualcosa. E quel qualcosa è l’anima. La parte più emozionale. L’ispirazione. Manca anche quella botta di adrenalina che ti aspetteresti dal versante più hard del nostro genere. Quella, per intenderci, che ti arriva dritta sugli incisivi quando ascolti l’ultimo dei Temple Balls. Infine manca anche quasi del tutto l’originalità. E non fatemi parlare del look dei nostri, a metà fra gli Immortal ed i protagonisti del Trono di spade…
Volendo disaminare i vari brani, si comincia con “Kings in the north”, pezzo molto hard, cadenzato, epico e non molto convincente a livello di melodia, bissato dall’up-tempo in doppia cassa “Perceval”, il refrain del quale tende al grandioso più che alla facile presa. Sempre su ritmi sostenuti e riff spiccatamente metal si fonda “Sharoline”, stavolta dotata di un coro più catchy e di un ottimo lavoro della solista. “Unbreakable” frena leggermente e, nonostante tutta la band faccia egregiamente il suo lavoro, alla fine non riesce a graffiare. Partenza a rullo compressore con tanto di sirene della polizia per “Mad world”, di certo più interessante per la strofa molto atmosferica ed il gradevole riff zoppo sotto il bel coro. “One in a million” è smaccatamente eclipsosa in tutti i suoi frangenti, motivo per il quale suona troppo come già sentita. Ancora la doppia cassa lancia la metallizzata “Sum of all fears”, molto più vicina ad Axxis ed Hellowenn che a Journey e Night Ranger, ma abbastanza piacevole, in fin dei conti, anche per lo splendido assolo neoclassico. Arrivati al brano numero 8, “Set me free”, ci si imbatte nel mio pezzo preferito. Grazie a Dio una canzone melodica, fortemente contaminata dal pop nordeuropeo contemporaneo, strutturata alla perfezione, sulla quale la splendida voce di Alexander può sfoderare una prestazione maiuscola, accompagnata in modo adeguato dall’intera band. Purtroppo il livello torna decisamente più basso con il mid tempo “Make a stand”, tristemente povero di spunti. Di impostazione simile, ma un po’ più centrata, “Cross to bear”, per lo meno grazie al chorus anthemico. E si chiude con “Save me from myself”, un lento, che sintetizza perfettamente l’intero lavoro: non si tratta di una brutta canzone, anzi, ma lascia quel senso di potenzialità inespressa che ti impedisce di ritenerti soddisfatto.
Insomma, a mio parere le grandi aspettative che si sono create intorno a questo album si sono rivelate quasi totalmente infondate. Ripeto, il lavoro non è brutto, né suonato male e nemmeno si può dire abbia una produzione scadente. Però la scarsa creatività a livello compositivo, l’impatto emozionale piuttosto povero e la sensazione di una ennesimo supergruppo creato a tavolino fanno sì che l’ascolto non impressioni come dovrebbe l’ascoltatore, andando a fare compagnia alle ultime realizzazioni di grossi nomi (i già citati H.E.A.T., Eclipse e Vega) in quella zona del cervello più vicina al dimenticatoio… Peccato.

Roxville – Fallen From Grace – Recensione

09 Giugno 2021 1 Commento Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Rox Music

Dopo aver visto un post sul gruppo Fb di Rock Of Ages mi sono accorto che avevamo mancato questa uscita e mi sono messo all’opera per rimediare, dopotutto in questo anno e mezzo pandemico è stata data alle stampe veramente tanta roba e qualcosa inevitabilmente può sfuggire.

Evidentemente il periodo ‘revival’ ottantiano è ancora sulla breccia perché numerose uscite vanno a guardare a quel periodo magico. In questo caso però si esplora la scena americana ed in particolare quella Losangelina, dove si ondeggiava tra arena rock e melodia, il tutto condito da un inconfondibile tocco british che tradisce la provenienza Londinese della band.

Il gruppo nasce ben dieci anni fa , ma si presenta oggi con una line up assestata intorno al chitarristi Rocco Valentino, Chaz Jones e all’ugola ispirata di Jamie Sloane e ci propone ben tredici tracce che nel tempo sono state  rivisitate e arrangiate per renderle più attuali e credetemi , alcune sono veramente di pregevole fattura.

Vi segnalo l’opener Crash n’ Burn incrocio tra Bang Tango e Motley Crue che fa subito capire che aria tira, la seguente Leppardiana Come Alive strizza l’occhio al melodic party rock made in UK. Bella e più introspettiva l’altra canzone scelta per il video ovvero Desert Storm, cito inoltre Bad Blood dove in alcuni punti aleggiano atmosfere Baton Rouge con quegli irresistibili coretti di Pontiana meoria. Tutto il disco comunque si mantiene su livelli elevati e non tradisce la presenza di brani messi lì solo per far numero.

Insomma una uscita tutto sommato fresca che, anche se richiama molto il passato, va a rifarsi ad un filone non molto sfruttato e sopratutto si distacca nettamente dalle produzioni di matrice scandinava che stanno saturando il mercato negli ultimi anni. La produzione ad orecchio sembra molto azzeccata e non eccessivamente moderna, il che è senz’altro un bene visto il genere, veramente un’ottima scoperta, dategli un’ascolto e secondo me lo farete vostro di slancio.