LOGIN UTENTE

Ricordami

Registrati a MelodicRock.it

Registrati gratuitamente a Melodicrock.it! Potrai commentare le news e le recensioni, metterti in contatto con gli altri utenti del sito e sfruttare tutte le potenzialità della tua area personale.

effettua il Login con il tuo utente e password oppure registrati al sito di Melodic Rock Italia!

Ultime Recensioni

  • Home
  • /
  • Ultime Recensioni

Platens – Of Poetry and Silent Mastery – recensione

08 Agosto 2021 0 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock / Melodic Metal
anno: 2021
etichetta: Art of Melody Music / Burning Minds Music Group

Se c’è una cosa su cui si va a colpo sicuro parlando dei Platens è sicuramente il fatto che con ogni uscita non si andrà mai a scadere in un album “banale”. Dario Grillo, mastermind del progetto e conosciuto anche per la sua militanza nei power metallers Thy Majestie, al terzo colpo non delude e confeziona un nuovo album in cui ancora una volta gli arrangiamenti ricercati e dal tratto cromato la fanno da padrone.
Così dopo il primo Between Two Horizons (2004) e il seguente Out Of The World (2014) riapriamo ancora una volta le porte che ci portano ai cancelli del raffinato mondo firmato Platens e diamo il via a questo viaggio a titolo Of Poetry and Silent Mastery.

Rispetto al precedente lavoro riprendono linfa le radici più marcatamente “metal” di Grillo, soprattutto per le scelte nella sezione ritmica, e così Cospiracy e Wait For Me aprono le danze con dirompente irruenza ma con la consueta eleganza compositiva a cui i Platens ci hanno da sempre abituati. Easily spinge l’asticella verso un hard rock anni ’80 ma lo fa con una potenza sonora che difficilmente passerà inosservata, una sorta di power hard rock molto d’impatto, uno dei brani che più mi hanno coinvolto, notevole valore anche nel solo di chitarra ai 2.30 secondi del pezzo.
Profumi e brezze di Highlands Scozzesi scorrono in The Path, brano forte di un’atmosfera intima e delicata regalata dal riuscito ritornello. Si intreccia nuovamente Hard Rock e Metal in End of The World che mette in primo piano un uso sinuoso delle tastiere. Paralyzed riporta a territori AOR anni’80 ma con quel tratto nerboruto che pare fin qui fare da sfondo ad ogni brano presentato, bel pezzo!
Winter ancora una volta poggia su arrangiamenti di alto livello con scelte dal forte tratto emozionale con l’apporto in chiusura del pezzo anche della bella voce di Katya Miceli, mentre Open Arms ancora una volta riporta in se reminescenza AOR di stampo ’80 ma con il solito muro di suono e irruenza esecutiva che lega ogni brano.
Give or Let Go è il lento che non poteva mancare… classicissimo nel suo intro di piano si impreziosisce man mano di scelte di gran classe in fase di arrangiamento e la voce di Grillo qui da prova di saper emozionare e giocare con i tocchi calibrati di chitarra. Tastiere che riportano alla mente certe soundtrack degli action movie della golden era, hard rock scolpito in ogni nota ed un ritornello ultra catchy e speed per Where The River Flows.
Si chiude “ufficialmente” con un secondo lento, Close But Far in cui è ancora il piano ad introdurre un brano che commuove e coinvolge soprattutto grazie alla presenza dei vocalizzi di una voce femminile, quella sempre di Katya Miceli, che flirta con la chitarra.
Resta il tempo di quella che ufficialmente viene definita Bonus Track ma che in realtà è manifesto di quello che potrebbe essere un album dei Platens completamente cantato in Italiano… roba da rifletterci su seriamente vedendo il risultato.
Gran bel pezzo in chiusura di un album che si innalza dalla media delle uscite odierne giocando su una commistione unica di hard rock e metal che però dall’altra parte della medaglia vede proprio questa commistione di generi come uno dei tratti che potrebbe scontentare i puristi e di una e dell’altra “fazione”!
Al tutto però si aggiunge il solito valore degli arrangiamenti e studio dei pezzi a marchio “Dario Grillo” la cui voce inoltre ben si presta a dare credibilità e sostegno ai brani presentati, anche se, e questa è forse l’unica piccola pecca di questo lavoro, proprio alla voce forse manca quel piccolo tassello in più in grado di farla passare da una voce adatta al contesto ad una voce maestosa in grado di brillare di luce propria.

Spektra – Overload – Recensione

07 Agosto 2021 3 Commenti Max Giorgi

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Gentili lettrici e lettori di Melodicrock.it sono veramente felice di tonare a scrivere qualche parola sulla nostra amata musica attraverso le pagine di questo sito, e per l’occasione mi è capitato tra le mani la promo di questo bel lavoro targato Frontiers. Un piccolo preambolo. Come ben sapete, c’è l’insana abitudine di suddividere la musica in generi, sottogeneri e scuole. C’è quella americana, quella europea, che però si suddivide in nord e sud europea, poi c’è quella inglese (beh, loro stanno sempre a parte, con alterne fortune) e poi…………….AIUTO!!!!! In questo bailamme c’è una parte del mondo che è rimasta per molto tempo in disparte, ma che in questi ultimi anni sta alzando la testa a furia di mid tempo e riff accattivanti: sto parlado del Sud America!!!!! Infatti gli Spektra sono una band brasiliana capitanata dal noto e talentuoso vocalist BJ (già cantante nei Tempest). In realtà questi bravi musicisti sono conosciuti sia agli addetti ai lavori che ai fans del melodic rock in quanto facenti parte di diversi progetti legati a Jeff Scott Soto. BJ è stato il chitarrista della band di Jef oltre che Tastierista e vocalist nei Talisman, stessa cosa per il talentuoso drummer Edu Cominato.

Quindi, inevitabilmente chi può aver prodotto e supervisionato questo lavoro? Immagino abbiate indovinato immediatamente: Jeff Scott Soto in persona ed il nostro Alessandro Del Vecchio!!

Ok direte voi. Ma quante volte dischi all’apparenza promettenti si sono poi rivelati dei flop assoluti? Ed avete pienamente ragione. Ma questa volta, lasciatemi dire che ci troviamo di fronte ad un lavoro godibilissimo con un buon songwriting e brani veramente accattivanti.

Già dalle prime note di pianoforte che introducono l’hard rock cadenzato della title track “Overload”, capiamo che gli Spektra ci vogliono far saltare e cantare le loro “pure stadium rock melodies” (come loro stessi affermano nella presentazione del cd). Con “Running Out of Time” la trama non cambia, anzi, questi brasiliani confermano di saper fare canzoni con la giusta potenza (Edu Cominato sugli scudi) ma con una incredibile carica di melodia. “Just Because” è uno degli apici di questo lavoro con tanta melodia, cori sognanti e coinvolgenti. Forse con una unica pecca: in alcuni momenti ricorda tanto (troppo?) “House of Love” di Soto.

Poteva mancare la ballad? Eccovi servita “Since I Found You”…..ora potete accendere la luce del cellulare nell’arena immaginaria gremita in ogni ordine di posto e sognare trasportati dalla splendida voce di BJ. Sicuramente questo ragazzo è una piacevolissima sorpresa! Ottima tecnica, estensione e colore per una voce che un po’ ricorda quella di Soto (ma meno graffiata) ed un po’ quella di Joey Tempest ai tempi dei primi lavori degli Europe.

Basta così! Spegniamo le luci dei cellulari che è ora di saltare! Con “Our Love” e “Breakaway” gli Spektra ci ricordano, se ce lo fossimo scordato, che fanno Hard Rock, e lo fanno bene (molto bello l’assolo di Leo Mancini su Breakaway). “Don’t Matter” passa un po’ innosservata a parte l’inizio che sembra quasi un tributo ad “Operation Mindcrime”degli immensi Queensryche. “Back Into Light” ci riporta al tipico brano con metrica ed inciso Jeff Scott Soto style. Siamo giunti quasi alla fine. Il ritmo nn rallenta: “Forsaken” e “Behind Closed Door” sono state scritte per farci battere i piedi e muovere la testa a tempo cantando il ritornello!!!!!

Siamo giunti alla fine di questo album ed una imponente tastiera fa da intro a “Lonely Road”, altro pezzo di punta di questo OVERLOAD che nn poteva finire con brano migliore!!!

Concludendo:

che bella sorpresa questi SPEKTRA! Alla loro prima prova sfornano un disco degno di nota. Partiamo già da un ottima base formata da degli ottimi musicisti, capitanati da un BJ che si dimostra veramente una grande ugola per il nostro genere spesso inflazionato da urlatori fini a se stessi. Quì invece abbiamo tecnica e capacità di utilizzo vocale che si adatta benissimo ai brani di questo album. Vogliamo trovare quache difetto? Forse quello più grosso è che in alcuni momenti si sente forse troppo la presenza di Jeff Scott Soto, ma tutto sommato lo trovo un peccato veniale ed inevitabile, visti i tanti anni di collaborazione avuta. Un’altra cosa che nn mi ha entusiasmato sono i suoni forse troppo “inscatolati” per i miei gusti (paragonandoli ad esempio ai suoni dei Seventh Crystal, per me top di quest’anno).

Ed allora! Vogliamo ascoltare questo lavoro? Ci sono tutti gli ingredienti per passare circa 45 minuti piacevoli all’insegna del buon Hard Rock!!!!!!

 

LET’S ROCK !!!!!!

 

Blood Red Saints – Undisputed – Recensione

06 Agosto 2021 1 Commento Vittorio Mortara

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Quarto album per i britannici Blood Red Saints, tornati all’ovile Frontiers dopo averne pubblicati due su AOR Heaven. Ho voluto questo disco da recensire perché qualche anno fa ho avuto il piacere di vedere la band all’H.E.A.T. festival. E i quattro inglesacci mi hanno fatto un’ottima impressione dal vivo: precisione di esecuzione e quell’atteggiamento un po’ spavaldo e strafottente da rockstar li facevano sembrare una band navigata e dalla lunga esperienza. Unica pecca: la qualità delle composizioni che, fatta qualche eccezione, non era all’altezza di tutto il resto…

Purtroppo “Undisputed” conferma questa mia opinione. Non si può dire che le canzoni contenute in questo lavoro siano brutte o malsuonate. Però a tutte manca quel quid che le possa far spiccare: vuoi l’originalità, vuoi il refrain-bomba, vuoi l’assolo ficcante… E, alla fine, il tutto scorre via senza lasciare altra traccia che un vago senso di insoddisfazione, anche a causa di una produzione piuttosto piatta e a suoni un po’ troppo impastati. A cominciare dall’opener “This ain’t a love song”, un po’ sguaiata e caciarona, ma senza mordente. Meglio “Love like war”, ingentilita dalle tastiere ed arricchita da piacevoli cori. Il singolo “Heaven in the headlights” presenta una melodia assai mainstream che, alla fine, pur non facendo gridare al miracolo, risulta piacevole. Grosse influenze del Bon Jovi post These Days si fanno sentire in “Breath again”, nella quale il carismatico singer Pete Godfrey fa il verso al cantante italo americano. Costruita diligentemente ma assolutamente poco incisiva “Caught in the wreckage”, mentre strizza l’occhio ai Kiss di Crazy Nights la successiva “Karma”. Salvata solo dal discreto ritornello “Come alive”, cosa che non succede purtroppo per la bruttina “Alibi”. Palma di pezzo più roccioso del disco assegnata ad “Undisputed” grazie ai suoi riffoni ed alla melodia maschia. E così tocca alla ballad “Complete” stemperare i toni. Si tratta di un lento romantico, piuttosto canonico e non esageratamente coinvolgente, nonostante la bella interpretazione vocale. Chiude “All I wanna do”, altro pezzo di hard rock melodico di stampo classicamente tardo ottantiano. Ancora una volta ben fatto, ma assolutamente incapace di brillare di luce propria.

Insomma, i Blood Red Saints non suonano male, sono assolutamente professionali, il cantante ha un voce più che piacevole e, ve lo assicuro, sul palco non sbagliano nulla. Ma a livello compositivo non sono riusciti a fare il grande salto nell’arco di ben quattro albums. Probabilmente, in altri tempi, avrebbero scritturato, budget permettendo, un certo Desmond Child ed avrebbero risolto il problema sfornato un disco micidiale impreziosito da una produzione stellare. Ma siamo nel 2021 e questa, attualmente, è pura fantascienza.
E allora mi tocca risentirmi l’ultimo dei Reach per riconciliarmi con il mondo… Alla prossima!

Mayank – Mayank – Recensione

05 Agosto 2021 0 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

A distanza di un anno dall’uscita del debutto discografico dei brasiliani Landfall, capeggiati dal seducente timbro di Gui Oliver e prodotti da Alessandro Del Vecchio, la nostrana Frontiers non ha perso tempo spingendo affinché il rapporto artistico venutosi a creare tra i due musicisti creasse un nuovo binomio musicale all’interno del Roster della casa partenopea. Coadiuvati da Rolf Nordstrom, chitarra dei Perfect Plan e da Nicholas Papacicco alla batteria, eccoci servito un rinfrescante e piacevole aperitivo su una qualunque spiaggia dei nostri litorali all’ora del tramonto.

Non scopriamo oggi, ma dal debutto degli Auras nel 2010, che il timbro di Oliver suona affine ai vari Steve Perry o Kevin Chalfant, il che non è nel modo più assoluto un limite alle intenzioni, ma può risultare una marcia in più per raggiungere l’obiettivo di un progetto come Mayank; (ri)portare alla mente emozioni raggiunte mediante il ripetuto ascolto di lavori come quelli dei The Storm, per rimanere in tema. Ascoltare un disco di inediti come questo è come salpare sulla nave della nostalgia; non puoi aspettarti nulla di nuovo lungo il viaggio, nessuna emozione forte, ma speri di arrivare a destinazione emotivamente coinvolto, un poco stupito e maggiormente complice dei tuoi ricordi più intimi. Obiettivo riuscito parzialmente, altrimenti mi accingerei a scrivere di un capolavoro che menzioneremmo anche tra un ventennio. Dopo un paio di ascolti, partendo da quello un poco più distratto a quello molto accorto, i ritornelli indelebili latitano. Però, se porgiamo la nostra attenzione ai dettagli, non valorizzati appieno da una produzione solamente a tratti (per fortuna) pressata, troveremo diversi bagliori in grado di stuzzicare appieno il nostro languore di melodia ed armonia.

Un’opener come “Destiny Calling” risulta molto gradevole, molto Edge Of Forever, dotata di un ritornello semplice e cantabile, senza reinventare nulla, decorata da un assolo che non può far altro che rendere il brano la traccia di apertura ideale, coerente al proposito del progetto.Stesso discorso per “Billy is on The run”, la quale mantiene il derma e la struttura del brano sopracitato dilatandone le sfumature. Quando i toni rallentano abbiamo i risultati migliori con linee vocali che arrivano dritte al cuore e riaccendono la fantasia degli anni che furono, supportate da arrangiamenti che aumentano i colori senza offuscare la semplicità d’intenti del brano.Vedi la doppietta “Julia’s Smile”, semi ballad collocabile fra i primi Danger Danger e i The Storm; la meravigliosa ballad “Sign Of Love” che mi ha riportato alla mente qualcosa dei Bad English o per rimanere in tempi più recenti a tema Del Vecchio il progetto L.R.S (uno dei meglio riusciti in casa Frontiers a mio opinabile parere). Se “We Are one” risulta un poco scontatella ai capitoli testo e melodia, “From The Heart” consegue merito grazie alla alternanza di cantato aggressivo-cori e controcori delicati (per quanto possa concedere al termine “aggressivo” il rock melodico) unite a parti strumentali che prolungano la medesima alternanza in un ottimo connubio armonico composto da chitarra solista e tasti d’avorio che lo rendono uno dei brani meglio riusciti in scaletta.

Ad un disco come “Mayank”, come tanti altri che vedono sempre le stesse penne, le stesse menti e gli stessi artefici alla base, non puoi rimproverare proprio nulla.Gli riconosci i meriti nei suoi momenti migliori e parli dei difetti che sono rintracciabili nelle tante uscite discografiche similari dell’ultimo decennio. La politica odierna della quantità impera in tutti i generi musicali, a discapito di alcuni fattori che rimangono al di fuori di ogni logica manageriale (produzioni meno compresse, più brillanti, più ottantiane; suoni meno omogenei e maggiormente diversificati; un numero superiore di songwriters, sono tutti fattori che gioverebbero). Questa verità universale e ampiamente comprovata non toglie i meriti sopracitati di questo disco.

Tra le troppe uscite discografiche, i Mayank meritano più di un ascolto.

Inner Stream – Stain The Sea – Recensione

31 Luglio 2021 4 Commenti Samuele Mannini

genere: Symphonic metal
anno: 2021
etichetta: Frontiers

 

Sicuramente questo è un disco più adatto al ns. sito gemello MelodicMetal.it, ma in attesa che riprenda la sua piena funzionalità e che venga integrato sul sito madre, poiché sono il redattore meno ortodosso della banda mi prendo la libertà di scriverne qui.

Sarò estremamente sincero, mi sono interessato al disco dopo aver visto un video promozionale su YouTube, rimanendo stupito dalle qualità estetiche della singer argentina Inés Vera Ortiz. Una volta raccolta la mascella, ho ascoltato per bene il brano insieme agli altri usciti per promuovere questo Stain The Sea ed ho acquistato immediatamente il cd.

Oltre all’estetica c’è infatti molto di più e per me, che ai tempi, ho avuto un discreto interesse per Lacuna Coil, Within Temptation e perchè no, anche per qualcosa degli Evanescence, è stato piacevole riscoprire queste sonorità.

Il progetto è stato supportato in grande stile da Frontiers che ha messo a disposizione della singer e del tastierista Guillermo de Medio, un vero poker d’assi quali: Nicholas Papapicco alla batteria, Andrea Seveso alla chitarra e Mitia Maccaferri al basso, guidati dalla produzione di Alessandro Delvecchio.

Molto ruota intorno alla figura della bella Inés che è anche autrice dei testi e che già dal 2008 bazzica la scena come cantate in varie band metal con influenze che vanno dai Queensrÿche agli Angra ai Symphony X. La sua evoluzione la porta poi a trovare affinità con le sonorità proposte in quel periodo da band appunto quali  Within Temptation  e Lacuna Coil fino ad arrivare alla concezione e creazione di questo disco.

Le coordinate sonore sono ben definite e ben inquadrate niente di innovativo dunque ed il sound è chiaramente appartenente al filone di band sopra citate, ma il tutto è esposto con un delicata e melodica interiorità e ciò che ne esce è un quadro intimo e velato, intermezzato da inserti chitarristici netti e duri che si stagliano sul tappeto intessuto dalle tastiere, con una sezione ritmica sempre capace di supportare questa varietà di atmosfere. Esempio lampante nella opener Massive Drain e nella seguente ed orecchiabilissima Fair War. Notevoli anche  Aftermath e Dance With Shades, che se fosse stata proposta dagli Evanescence a quei tempi sarebbe stata un crack.

Insomma, tutto il disco è di livello e per il genere di riferimento poggia su basi eccellenti, la voce di Inés spazia su tutte le tonalità con naturalezza disarmante e la produzione è perfettamente adeguata e competitiva per queste sonorità. Concludendo, se come me, avete gradito escursioni nel cantato femminile in ambiente gothic/symphonic questo disco si farà molto apprezzare.

 

Styx – Crash Of The Crown – Recensione

27 Luglio 2021 12 Commenti Samuele Mannini

genere: Pomp/Prog Rock
anno: 2021
etichetta: Universal music

Diciassettesimo album per gli Styx in quasi cinquanta anni di carriera, eppure in tutte le loro numerose incarnazioni si riconoscono al volo, c’è quel trademark intrinseco che li rende unici pur spaziando da Pieces Of Eight, Cornerstone, Edge Of The Century fino ad arrivare questo Crash Of The Crown. Quarantanove anni, tanti interpreti, tanti stili, ma tutto suona dannatamente Styx.
Ormai orfani da tanto tempo di Dennis De Young (e permettetemi di dire che peccato), i nostri propongono un disco antico e moderno allo stesso tempo, c’è un recupero delle sonorità seventies, ma senza scadere nell’obsoleto, adeguatamente moderno pur nelle sue connotazioni vintage.

L’opera si snoda in quindici tracce, alcune delle quali non sono altro che bridge musicali che servono a legare le canzoni in un unico concept in piena tradizione prog. Infatti a dire il vero, il primo singolo preso a se stante non mi aveva catturato in maniera particolare, potendo ascoltare invece tutto il disco in maniera organica, tutti i pezzi del puzzle vanno al loro posto ed il mosaico fatto dagli intrecci vocali, di parti pomp/prog e tessiture acustiche prende la sua immagine definitiva. Gradevolmente retrò sono anche i numerosi omaggi al Queen sound che rendono il disco una opera rock a tutto tondo che sfugge alle classificazioni di genere in senso stretto e questo è senz’altro un bene. Pur essendo un’album interamente concepito  in epoca pre pandemica è stupefacente come i testi si adattino perfettamente al nostro tribolato periodo e canzoni come The Fight of Our Lives ed  A Monster sono lì a ricordarcelo.

Tutti gli interpreti forniscono una prova di livello eccelso e le armonie vocali di Tommy Show, fanno ancora venire i brividi, la sezione ritmica composta da Todd Sucherman e Ricky Phillips è precisa e di classe e contrappunta benissimo tutti i vari cambiamenti stilistici presenti.

Citare le canzoni in questo caso ha poco senso, infatti, come dicevo, l’opera si apprezza veramente se seguita per il suo intero filo conduttore, detto ciò lasciatemi citare Hold Back The Darkness, Save Us From Ourselves e Sound The Alarm perché sono canzoni….Assolute.

In estrema sintesi direi, Dio benedica gli Styx e…..passate immediatamente alla cassa grazie, non frapponete altro tempo tra voi e questo gioiellino.

Nitrate – Renegade – Recensione

23 Luglio 2021 3 Commenti Giulio Burato

genere: MelodicRock
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

“Non c’è due, senta tre”. Il vecchio proverbio calza a pennello per recensire i Nitrate per la terza volta su tre uscite discografiche. A livello di statistiche questo è anche il terzo cambio di line-up, per la band nata dall’idea del bassista Nick Hogg a cui, questa volta, si affiancano i fratelli Martin (VEGA), alle chitarre e tastiere, supportati dal sempre presente Alessandro Dal Vecchio alla voce, da Dario Nikzad alla chitarra e da Mikey Wilson alla batteria. Chiude il cerchio dietro al microfono, dopo Joss Mennen e Philip Lindstrand , Alexander Strandell (ART NATION), da poco sul mercato anche con il primo album della super band Crowne. Prendo la palla al balzo da questa annotazione discografica per fare una considerazione: è stato difficile addentrarsi in “Renegade” avendo le orecchie sature di “Kings of the North”. Se fosse passato più tempo rispetto a quanto offerto da Frontiers, sarebbe stato più facile ascoltare ed assimilare il presente album, ben prodotto dai fratelli Martin & Mikey Wilson; artwork a cura del nostro connazionale Nello Dell’Olmo. Distribuito da Aor Heaven.

La proposta musicale continua sulla falsa riga dei precedenti due lavori, rimarcando maggiormente le influenze verso i Def Leppard. A tale proposito, basta ascoltare il basso pulsante del secondo singolo “Big city lights”, la coinvolgente “Addicted” dalle reminiscenze che portano al capolavoro di Bryan Adams “Waking up the neighbours” e la bella semi-ballad “Lay down your arms” di chiara matrice “Leppardiana”.

Nel lento “Why Can’t you feel my love” e nel primo singolo “Danger Zone” c’è un tocco di H.e.a.t. mentre nella conclusiva “Take me back” si respira aria di Care of Night con un refrain aperto e solare. Concludo con “You think You’ve got it” e la title-track, entrambe canzoni che hanno un loro piccolo fascino.

Conclusioni:

Un percorso non privo di avversità per i Nitrate che escono per la terza volta di fila con una line-up nuova. “Renegade” è un album derivativo, però godibile con chiari richiami a Joe Eliott & Co., e dovrà erigersi a punto fermo per evitare un altro cambio di formazione.

Big City – Testify X – Recensione

20 Luglio 2021 5 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Arrivano al terzo capitolo discografico i norvegesi Big City; dopo il debutto autoprodotto e il secondo capitolo “Big City Life” uscito 3 anni fa per mano della Rock of Angels Records, entrano nelle grazie della nostrana Frontiers e offrono al pubblico “Testify X”.
Artisticamente collocabili tra Royal Hunt, Firewind e Queensryche (ma non solo) il loro sound va alla ricerca della melodia tramite la forza d’urto degli arrangiamenti intensamente Hard edge con incursioni decise, nemmeno troppo sporadiche, verso sonorità Power.
Il timbro di Jan Le Brandt riporta alla mente quello di Jocke Lundholm (220 Volt) e a loro volta le composizioni presenti virate all’Hard Rock come “Dark Rider” la title track, “How Dark Does it Get” ripercorrono il medesimo sentiero battuto più di 30 anni fà, dopo l’inevitabile opera di modernizzazione, dalla band svedese.
I momenti meglio memorizzabili coincidono quando i battiti rallentano e si entra in territorio ballads, rimanendo ragionevolmente lontani dalle lande dello zucchero a velo; gli arpeggi di “I Will Fall” lo rendono un brano pienamente riuscito; le intro eufoniche ed ordinate di “Hearts Like a Lion” e “Winds of The Road” richiamano riflessioni da tramonto estivo prima di tramutarsi in pezzi heavy dal sapore teutonico che ricordano tanto gli ultimi Jaded Heart.
Difficile giudicare un disco come “Testify X”. Tanti, troppi sapori, talvolta ibridi, anche nei momenti migliori, ma arduamente identificabili con un solo ingrediente, quindi tramite un solo aggettivo specie se ad ogni brano questa componente cambia; cosi mentre ascoltiamo il lavoro dei Big City, i brani non lasciano un segno tangibile e l’attenzione, pur smossa, predilige ricordare a quali band in quel momento la band norvegese si sia ispirata piuttosto che lasciarsi completamente trasportare dall’onda d’urto della Grande Città.

Dennis DeYoung – 26 East Vol. 2 – Recensione

09 Luglio 2021 2 Commenti Vittorio Mortara

genere: rock/melodic rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

A distanza di circa un anno dal precedente Vol. 1, arriva anche questo Vol. 2 di quello che sulla carta dovrebbe essere il capitolo discografico finale dell’ex Styx Dennis Deyoung. Musicisti, collaboratori e sessioni di registrazione sono quelli del primo disco, visto che vennero registrati entrambi l’anno scorso. Il livello compositivo ed esecutivo, infatti, è lo stesso. Tra i nomi coinvolti spiccano il solito Jim Peterik e Tony Morello dei Rage Against The Machine.

L’album suona decisamente meno vario e più rilassato rispetto al vol.1. Le ballads la fanno da padrone, e le atmosfere alla Styx si percepiscono un po’ ovunque. Si parte con “Hello goodbye” che, pur non essendo una cover dell’omonima canzone del quartetto di Liverpool, è colma di citazioni del loro inconfondibile stile. “Land of the living” invece fa flirtare il sound pomposo e ricco di enfasi degli Styx con i musical di Broadway, con risultati apprezzabili. Più rockettara “Last guitar hero”, scelta come singolo, con Morello alla chitarra. “Saving grace” apre la serie dei lenti: un tappeto di tastiere sorregge una bella melodia sognante, assolutamente legata a doppio filo alla tradizione settantiana. Sulla stessa falsariga si muove “Proof of heaven”, resa un po’ più elettrica dalle chitarre e dalla solennità del refrain. Dolcissima “Made for each other” dal profumo ancora una volta beatlesiano. “There’s no turning back time” contraddice il suo stesso titolo per quanto ci fa tornare indietro nel tempo fino all’epoca d’oro del gruppo madre ed ai cambi di tempo e di atmosfera che lo caratterizzavano. Il pop senza età di “St. Quarantine” viene spezzato a metà, trasformando il finale in un rovente blues. Atmosfere e chorus di “Little did we know” ci catapultano ancora una volta fra le vie di Broadway con la classe cristallina di Dennis a condurre le danze. Il mio lento preferito è “Always time”, il più dolce e mieloso grazie a quel pianoforte di sottofondo e ad un testo molto sentito. La mini suite “Isle of misanthrope” ben figurerebbe in un qualsiasi album degli Styx dei primi anni 80 riproponendone tutti gli ingredienti. I due minuti scarsi di “Grand finale” sono una specie di riassunto dei due album, sorta di addio a tutti coloro che li hanno ascoltati. O forse è un arrivederci?…
Vedremo… Per ora diciamo ancora una volta grazie a questo personaggio per il contributo che ha dato a tutto il nostro genere nel corso della sua lunghissima carriera! Grande Dennis!

Hardline – Heart, Mind and Soul – Recensione

08 Luglio 2021 9 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music

C’era chi cantava It’s The Singer Not The Song (…e se vi devo scrivere chi la cantava e avete più di 30 anni meritate una piallata sui denti tirata d’orecchie!) e quando hai come cantante una voce portentosa e carismatica come quella di Gioeli allora viene anche da crederci, se non fosse che in questo nuovo Hardline a titolo Heart, Mind and Soul oserei andare oltre e coniare un “It’s the Band Not The Song” (e adesso che qualcuno ci scriva su una Hit mondiale… e ne voglio i diritti d’autore!).
Già, la Band, e che Band! Artisticamente parlando e puntando il dito verso la formazione degli Hardline attuali mi permetto di dire che qualcosa di questo livello non è così facile da trovare ai giorni nostri… e se la parte del Leone se la gioca la voce di Gioeli di cui innamorarsi è facile, dietro uno stuolo di Tigri di prim’ordine con strumenti alla mano brucia note con una precisione ed un affiatamento pazzesco! Non parliamo a caso di novellini trovando Del Vecchio ai cori / tastiere, Percudani alla chitarra (e lasciatemelo dire, ma che chitarrista pazzesco è! Roba che se solo non avesse cannato completamente latitudine e periodo temporale saremo al cospetto di un mostro della Golden Era!), Anna Portalupi al basso e Marco “The Beast of Melodic Hard Rock” Di Salvia a stracciare vestiti alle donzelle pelli alle batterie!

Si rodano gli strumenti sulle note di Fuel To The Fire e Surrender, e se la prima pare buttata li per avere un “giocatollo” per far casino in sede live, la seconda inizia a mostrare più ricercatezza e cura sia a livello vocale che di songwriting! Da qui si entra nel primo tris d’assi che butta sul tavolo questo Heart, Mind and Soul. If I Could I Would è puro melodic rock di classe e raffinatezza, magistrale nell’esecuzione con un Neal Schon Mario Percudani che cesella note all’1.20 del ruolino di marcia del pezzo mentre voce e tastiere si intrecciano in una magica melodia, di cosa sto parlando? Minuto 3.10 per avere la migliore risposta! Si parlava di tris e quindi due pezzi mancano all’appello e sono il memorabile ritornello di Like That, altra sicura hit in sede live (ma meno casinista di Fuel to the Fire) e in chiusura del trittico la classica ballata Heavenly che se non fosse baciata da una voce unica e una band in canna come poche potrebbe anche perdersi nel marasma dei pezzi simile mentre così si eleva ben oltre la media (ricordate… It’s The Band not the Song! 😉 ).
Se a questo punto Waiting For Your Fall e The Curse paiono simpatici diversivi (più simpatico il primo 😀 ), Heartless, dal fascinoso intro tastieroso, la suadente ed ammaliante Searching For Grace brano che ancora una volta viene elevato da un tocco Voce / Chitarra al di fuori della portata di buona parte delle uscite attuali e la trascinante 80’s Moment piazzano sul banco il secondo tris d’assi di questo lavoro. Si chiude sulle note acustiche di We Belong, altro brano baciato dall’alchimia che pervade questo lavoro che profuma di “Band” lontano chilometri.

Miglior album del nuovo corso degli Hardline? Chi sono io per dirlo, ma sicuramente è quello che più mi è piaciuto giocato così tra muscoli hard rock e melodie raffinate, dove forse ci sarebbe stata giusto per il sottoscritto una produzione dal taglio più corposo e meno affilato… ma gente… che Band!