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Dobermann – Shaken To The Core – Recensione

30 Settembre 2021 1 Commento Alberto Rozza

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Wild Monday Music

Per gli amanti dell’hard rock verace, imperdibile nuova uscita per i Dobermann, power trio italianissimo dalla cosiddetta “pacca” inconfondibile e grintosa.

La partenza dell’album è affidata alla title track “Shaken To The Core” (della quale è disponibile anche un videoclip su YouTube e che vi proponiamo anche qui a lato), che racchiude in meno di quattro minuti tutta la filosofia della band, che in un’ossatura puramente hard rock innesta influenze variegate e interessantissime (come in tutta la parte centrale strumentale fatta di ottimi soli e riuscitissimi intrecci tra chitarra e basso). La successiva “Staring At The Black Hole” dimostra grande coralità e una pregevole trama musicale, basata su una buonissima dinamica strumentale. “Stiff Upper Lip”, nonostante il titolo fuorviante, non è una cover degli Ac/Dc, ma un ottimo brano originale, fresco, coinvolgente, dal ritornello assolutamente penetrante. Si scaldano i motori: “Dropping Like Flies” spinge dal primo all’ultimo secondo, producendo un automatico movimento del corpo dell’ascoltatore, letteralmente trascinato dalla verve del brano. Ricercata e allo stesso tempo scanzonata, “Over The Top” propone un riff particolare e di grande impatto, che ben si inserisce in una trama ritmica cadenzata e vivace.
Influenze acustiche ed emotività intensa sono le parole chiave della power ballad “Talk To The Dust”, complessivamente ottima, soprattutto nella profondità espressiva dell’esecuzione. Si torna su atmosfere rilassate e ariose: “Rolling With The Times” presenta sonorità accessibili, varie e combinate in modo perfetto, producendo un risultato globalmente riuscito. Il concetto espresso precedentemente vale anche per la successiva “Summer Devil”, che nella sua semplicità si insinua nella mente dell’ascoltatore, grazie anche alla melodia orecchiabile e diretta. Cadenzata e scanzonata, “Rock Steady” sconvolge e attira, grazie a una linea strumentale veramente azzeccata e piacevolissima, soprattutto nella capacità di incasellare la trama solista nella complessità della linea ritmica. Sentimento ed emozione nel lento “Last Man Standing”, brano pianoforte e voce che ci fa scoprire un lato differente dei Dobermann. Dopo la conclusiva “Run For Shade”, di vanhaleniana memoria, cala il silenzio su “Shaken To the Core”, un album azzeccatissimo, che ci consegna una band assolutamente matura, evoluta e sulla quale si concentrano notevoli aspettative, soprattutto in attesa di rivederli live!

Red Giant – The One – recensione

22 Settembre 2021 0 Commenti Denis Abello

genere: Hard Rock
anno: 2020
etichetta: autoprodotto

Torino da sempre è riconosciuta un po’ come la “Detroit de noi altri”, ovvero la motor city nostrana grazie alla presenza della FIAT. I Kiss cantavano “Detroit Rock City” e allora perchè non può essere anche “Torino Rock City”… e a ben vedere negli ultimi anni Torino (e dintorni) si è data un bel da fare a sfornare band di valore partendo dal Melodic Rock dei Soul Seller, il Westcoast/AOR dei Mindfeels per arrivare al rock stradaiolo dei Dobermann passando per il cromato e raffinato AOR degli In-side… senza dimenticare che Torino è stata la patria forse della prima grande band tricolore in grado di superare le frontiere del belpaese… gli Elektradrive!
Aggiungiamo quindi un altro piccolo tassello a questo puzzle rock giocando la carta dei Red Giant, band che pubblica nel 2020 The One, primo parto che se la gioca su note prettamente Hard Rock vecchio stile ma impreziosito da un taglio nettamente “moderno”… e che non disdegna incursioni in diversi ambiti, compreso il funky/rock che si respira in Winter Flower!!!
Potremo comunque riassumere questo lavoro dicendo… Tanta Passione… ovvero quella che si respira già dalle prime note di Free. Difficile non farsi travolgere dal suo intro “chitarroso” e dal cantato “moderno” di Marco Fano. Inoltre da notare che di autoproduzione stiamo parlando, ma autoproduzione comunque di un certo livello che dona un taglio professionale al tutto.
Meritano menzione Why, che a tratti mi ha ricordato certe produzioni di Gleen Hughes, il Gotthard style di The Lesson dove tra l’altro si assapora una delle migliori prove vocali di Marco. Due parole ancora per l’immancabile lento A Lie In The Snow, classica ma con un gran tocco di chitarra a coprirgli le spalle! Come back porta su territori alternative mentre Bye Bye World si concede quasi un momento progressive sui 3/4 del pezzo, scelta azzardata ma… bella scelta! Destiny è forse il pezzo più radiofonico mentre l’acustica What is Left butta in campo un’emozionanate prova generale della band per lasciare la chiusura alla roboante High Wire.

Bella prima uscita dei Red Giant per un album che pur autoprodotto denota un taglio nettamente professionale che regala un suono nitido e definito. Ottima prova dei musicisti coinvolti e brani che scorrono via senza mai annoiare l’ascoltatore. Manca ancora forse un’identità ben definita ma il risultato al momento è sicuramente positivo. Se vi capita dategli un ascolto!

Vega – Anarchy And Unity – Recensione

17 Settembre 2021 6 Commenti Giulio Burato

genere: MelodicRock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Sono passati ben undici anni da quando sobbalzai dalla sedia dopo avere ascoltato il sorprendente debutto discografico dei Vega, “Kiss of life”, un album di assoluto valore per idee e freschezza. Da allora, di acqua sotto ai ponti ne è passata, anzi, sono passati ben altri cinque album, di cui io ricordo, particolarmente e piacevolmente, “Who we are” del 2016, preso in cd ad uno degli ultimi Frontiers Festival a Trezzo sull’Adda. Lo zoccolo duro è ancora formato da Nick Workman (voce) e i fratelli Martin (basso e tastiere), accompagnati, in ordine di militanza, da Marcus Thurston alla chitarra, e dai recenti innesti di Billy Taylor (ex-Inglorious), sempre alle chitarre, e al batterista Pete Newdeck, già presente nei Midnite City e Nitrate. 17 settembre 2021: esce, tramite Frontiers, il settimo sigillo della band inglese dal titolo esplicativo “Anarchy and unity”. La domanda che sorge spontanea è: “Cosa ci possiamo attendere dai Vega nel 2021?” Un album che, magari, non sorprenderà come nella prima uscita del 2010, ma che mantenga sempre viva la qualità della proposta musicale, rimasta sempre di livello in questa decade e, visto il titolo, un album di rottura verso certi schemi.

La partenza, rimanendo in lidi britannici, non è da Lewis Hamilton, ma sta nel cosiddetto “gruppone”; “Beautiful lie” e “Sooner or later” sono canzoni Made in Vega, oltre che ad essere due singoli, dirette e melodiche al punto giusto. Il cambio di marcia è già presente nel successivo lotto di canzoni. L’ottimo intro e l’incedere di “End of the fade” danno la giusta accelerata, mentre, tra i singoli attualmente proposti, “Ain’t who I am” è il mio preferito, energico e condito da un interessante video in parallelo. Altro sorpasso da campione per “Welcome to wherever” che ha tutti gli indizi della canzone che funziona e che si stampa subito in testa. Le vibrazioni salgono come nel film “Rush” di Ron Howard con la sesta traccia “Bring the riot” che ha in dote un assolo al fulmicotone, presente anche nella successiva “Live for me” che, inizialmente, parte come semi-ballad. In una corsa, a volte, si finisce imbottigliati nel traffico; tale situazione si riscontra in “Kneel to you”, “Glow”, piacevoli ma che non sorpassano altre canzoni già sentite in passato. A riportare cavalli al motore Vega ci sono le interessanti “C’mon”, dalla bella struttura diversificata, la coinvolgente “Had enough” e la conclusiva “2die4” che taglia il traguardo con un fotofinish da campione.

Conclusioni:

I Vega sono una monoposto da classifica mondiale; “Anarchy and Unity” non avrà la caratura ed il valore del primo “Kiss of life” ma si destreggia bene nella bagarre delle uscite discografiche del 2021.

John Dallas – Love & Glory – Recensione

16 Settembre 2021 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Sneakout records/Burning Mind

Avessimo avuto questo livello artistico e di movimento nella scena hard & heavy negli anni d’oro la scena italiana sarebbe stata una delle protagoniste mondiali, basti pensare alla impressionante qualità e quantità delle uscite degli ultimi anni.
John Dallas ,contrariamente da quanto faccia presagire lo pseudonimo,  è infatti italianissimo e con questo suo secondo lavoro percorre un viaggio nelle sonorità tipiche dell’ hard rock guitar oriented tipico degli Usa di  fine anni 80 con  undici canzoni veramente di livello, il tutto coadiuvato da una band collaudata e forgiata da una intensa attività live a supporto del precedente Wild Life .
Tutte le composizioni sono caratterizzate da un piglio deciso, senza però perdersi in virtuosismi fini a se stessi e mettendo notevole buon gusto al servizio della canzone, mantenendo un occhio di riguardo alle melodie ed ai ritornelli sempre catchy e canticchiabili.
Il trittico di canzoni iniziale è micidiale. Anymore, Bad Sisters e Drive Me Tonight mi rimandano alle atmosfere degli Atomic Playboys di Steve Stevens ad Adam Bomb e al misconosciuto Donnie  Miller di One Of The Boys, con le loro ritmiche serrate e la voglia di scuotere la testa a più non posso. Molto gradevole la melodica Glory, intensa e ariosa ed apprezzabile è anche l’ acustica Shine On, dal sapore vagamente Extreme. Love Never Dies è un interessante mid tempo che guarda più ad atmosfere moderne e al melodic rock, così come l’orecchiabile Dancing All Night arricchita da un assolo delizioso. Intrigante infine la conclusiva e tirata Wasted così energica e tribale.
Insomma un lavoro egregio e di sicura prospettiva, che pur muovendosi in dei canoni sonori ben precisi, non teme di misurarsi nelle tante sfaccettature dell’hard rock a tutto tondo offrendoci: musicisti preparati , composizioni raffinate e quel sano gusto di far baccano tipico dell’ hard senza fronzoli; sinceramente non posso fare altro che definirlo un grande merito.

Robin Red – Robin Red – Recensione

08 Settembre 2021 3 Commenti Giulio Burato

genere: MelodicRock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Primo album solista per Robin Ericsson, qui più semplicemente Robin Red, cantante degli ottimi Degreed, band dal sound facilmente riconoscibile e non facilmente etichettabile. Non siamo però di fronte alla proposta musicale del gruppo svedese, ma dinanzi ad un album di classic rock che va attingere a piene mani da Bryan Adams, Rick Springfield, Foreigner e, in alcuni tratti, dai primi Winger.

Scritto dallo stesso Robin insieme a Dave Dalone (H.E.A.T), che ha anche prodotto e suonato tutte le chitarre, esce tramite Frontiers il 17 settembre. Il primo singolo “Don’t Leave Me (With A Broken Heart)” è stato originariamente scritto da Thomas Jakobsson e Björn Axelsson nei primi anni Novanta e fatto uscire in demo dall’artista svedese Carola Häggkvist; a venti anni di distanza dalla stesura viene finalmente pubblicato in un album. Ben rispolverato.La seconda traccia “Bad habit” sorprende per la sua impronta bluesy, mentre con le successive “Everlyn” e “Freedom” si ritorna ad ambientazioni più solari e catchy nei refrain. Su “Midnight Rain” è presente un bel lavoro di chitarra mentre “Can’t get enough” mi riporta, anche nel titolo, a sonorità amate dai Winger miste ai Foreigner. Seguono quattro canzoni che, visto il recente periodo estivo, sono da medagliere olimpico; parlo della semi-ballad acustica “Reason to survive”, le ariose “Heart of stone” and “Head Over heels”, divise dal terzo, raggiante singolo “Nitelife”. Nessuna delle nominate è da medaglia di legno. Concludono l’album due canzoni dal titolo simile, ossia la rockeggiante “Livin’ dead”, dove Robin alza il tiro vocale e richiama Bryan Adams, e la suadente “Living for” con quella chitarra bluesy che affascina.

Conclusioni:

Non sono i Degreed, ma è un Robin Red che ci consegna un bell’album rock di stampo “ottantiano”.

The Night Flight Orchestra – Aeromantic II – Recensione

04 Settembre 2021 12 Commenti Vittorio Mortara

genere: Pop rock
anno: 2021
etichetta: Nuclear Blast

Chi pensava che questi Night Flight Orchestra fossero solo una sorta di passatempo per il poliedrico vocalist dei trucidi Soliwork, mi sa che dovrà proprio ricredersi. Qui siamo già all’album numero sei, e l’ispirazione non sembra affievolirsi affatto. Su questo Aeromantic II ritroviamo quel mix di pop fine ‘70/inizio ’80, AOR boston style e, ad avviso di chi scrive, anche qualcosa, forse a livello di ritmiche, dei fondamentali Demon. Inserire in pianta stabile il tastierista John Manhattan Lönnmyr ha contributo a rendere ancora più old style e, nello stesso tempo, più fresco e “spaziale” lo stile dei nostri. Tanto di cappello ai ragazzi che compongono e suonano con pari maestria il techno/industrial/death e il pop/Aor!!! Ogni volta questa cosa mi lascia piacevolmente stupito! A quanto pare il buon Björn Strid non riesce proprio a star fermo, visto che, durante il lockdown del 2020, ha pure messo in piedi il pregevole progetto At The Movies, deliziando le nostre giornate chiusi in casa con le cover di celebri pezzi rock facenti parte delle colonne sonore dei film della nostra gioventù! E non è un caso, visto il forte spirito hollywoodiano che pervade il nuovo lavoro. Accidenti! Sono proprio un suo fan accanito!

Di conseguenza, a me sto “Aeromantic II” piace ancora più del suo predecessore! E pensare che la prima canzone “Violent indigo” non è uno dei pezzi migliori del disco, con una struttura pomp che richiama gli Styx di metà carriera in più di un’occasione. Ma già con “Midnight marvelous” il livello si alza: perfetti intrecci di keys e chitarre, coro adrenalico… in altri tempi sarebbe finita direttamente nella colonna sonora di qualche film di Sylvester Stallone. Il ritmo accelera sulla successiva “How long”, pomp rock song stavolta di grande effetto con una linea melodica al limite della perfezione. Fa, invece, venire voglia di muovere le gambette “Burn for me”, figlia dalla pop/dance da classifica a cavallo fra ’70 e ’80. Con un titolo simile non poteva che essere di mio gradimento “Chardonnay nights”, imperniata sulle tastiere e pregna di quello spirito godereccio che pare essere andato perduto, nella musica, dagli anni ‘90 in poi. I nostri si prendono una piccola pausa con “Change”, un pelo più ostica e meno immediata rispetto al resto dell’album. Ma “Amber through a window” mette subito le cose a posto piazzando un ritornello in grado di appiccicarsi alla corteccia cerebrale già al primo ascolto. Apprezzabile l’apporto delle curvy-coriste! Un mix dei grandi gruppi rock e pop degli anni 80, dagli Spandau Ballet ai Toto, pare essere l’ispirazione della riuscitissima “I will try”, mentre un riffetto di tastiere orientaleggiante apre “You belong to the night”, altro pezzo che definirei come rock/dance. Una ventata di freschezza e positività! Movenze alla Michael Jackson per la bellissima “Zodiac”, facile ma raffinata. Che dire di “White jeans”? Il fantastico video demenziale lo avrete visto tutti. La canzone è una bomba: ritmo serrato, chitarre maideniane e refrain da cantare all’infinito. Insomma, un singolo perfetto! Ma la mia preferita è l’ultima del disco: “Moonlit skies”. Il ritmo si abbassa un filo ed il romanticismo aumenta leggermente. Bello il tappeto di tastiere punteggiato dall’intervento delle chitarre. Bellissima la linea vocale. Uno splendido modo di salutarci!

Allora, lettrici e lettori. Questo è proprio un bel disco. Piuttosto lontana da tutto quanto sia uscito negli ultimi anni, la proposta dei Night Flight Orchestra è piacevole e si è affinata e completata album dopo album. Si capisce che i ragazzi non sono degli sprovveduti ed alle spalle hanno il background comune a tutti noi che abbiamo visto Rocky e Cobra ma anche Flashdance e Footloose. Che abbiamo ascoltato i Journey ed i Boston ma anche gli Iron Maiden ed i Cradle of Filth. Hanno uno spirito goliardico ed autoironico tale da rendere tutto più leggero e fruibile. Insomma, sono degli entertainers perfetti. E spero di poterli vedere presto dal vivo, perché devono essere uno spettacolo! Per ora mi limito a godermi questo “Aeromantic II” che, a mio personale giudizio, va a piazzarsi tra le 5 migliori uscite di quest’anno, solo un mezzo gradino al di sotto di Reach e Seventh Crystal.

Come si diceva una volta, Buy Or Die!!!

 

Alirio – All Things Must Pass – recensione

25 Agosto 2021 5 Commenti Denis Abello

genere: Modern Rock / Hard Rock / Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music Srl

La press parla di un grande cantante e attore, una delle voci più riconosciute del Rock Brasiliano… ebbene, non avevo la più pallida idea di chi fosse Alírio Netto e un po’ mi son chiesto se ci serviva l’ennesima grande voce del rock (almeno su carta) oppure no… peccato che qui siamo veramente di fronte ad una Grande Voce del Rock molto amata nel paese di origine avendo fatto parte della band Khallice e della metal band Age of Artemis oltre ad aver partecipato a diversi Musical come We Will Rock You e Jesus Christ Superstar (versione Messicana e Brasiliana) e aver collezionato diverse apparizioni nella TV nazionale chiudendo con la sua scelta come lead vocalist della band Queen Extravaganza e in ultimo la sua recente entrata in formazione negli Shaman del compianto Andre Matos.

Sentendo quattro note di questo suo album solista All Things Must Pass non si può che confermare la bontà della voce del nostro Alirio. Potenza, intonazione, colore, modularità, tutto al posto giusto ed utilizzato nel modo giusto, senza contare che spulciando qua e la sul tubo si può anche apprezzare una certa presenza scenica, cosa non da sottovalutare visto che troppe volte mi è capitato di vedere grandi voci che sul palco risultano fredde come un calippo in cul. in pieno inverno.

Fin qui tutto bene e quindi (tanto so che è li che volete arrivare) cos’è che non va in questo All Things Must Pass?
Semplice… Niente, va tutto bene, anzi, che bella sorpresa che è questo album… a meno che (eh… ditelo che sulle prime ci eravate rimasti male che fosse tutto ok)… a meno che non siate dei puristi AOR, dei puristi Hard Rock, dei puristi Metal, dei puristi Modern Rock… ecco insomma, se siete puristi di qualsiasi forma musicale artistica qui potreste avere al massimo i vostri 3 minuti di gloria, perchè questo debutto internazionale (il nostro ha già pubblicato un album solista in portoghese per il solo mercato interno nel 2016 intitolato João de Deus) a nome Alirio è un gran bel mix di generi legati al rock… e ben venga!

Ora che a leggere son rimasti solo i meno “intransigenti del rock” (quindi non son sicuro che stia ancora leggendo qualcuno), possiamo anche dare una veloce scorsa al ruolino di marcia di questo lavoro. Come dicevo, non aspettatavi un album che segua una linea coerente dal primo pezzo all’ultimo perchè qui troverete dell’hard rock pestato come nella titletrack All Things Must Pass, del bel pop/rock come in Edimburgh, modern rock alla Shinedown meet Seether di Back To the Light o Let It All Burn, hard rock nei riff e nelle note di I’m Still Here e You Hate!
Due parole infine sul lato più soft e melodico dell’album con tre splendidi brani radiofonici come Hear I Am, ballata per antonomasia sorretta da ricercati arrangiamenti e da una prova vocale superba, la malinconica The First Time che ancora una volta mostra il colore e la modularità con cui Alirio sa giocare con la sua voce.
Ho lasciato per ultimo il brano che sicuramente farà la gioia degli AORster che aspettavano il loro momento, Grey vede la partecipazione di Arnel Pineda, anche se la parte del leone viene giustamente lasciata ad Alirio e Pineda apporta un tocco soft e defilato a questa elegante power ballad.
Ufficialmente l’album chiude qui il suo percorso ma se volete approfondire su Spotify sono presenti diverse bonus che a loro modo aiutano a completare il background di questo primo lavoro a nome Alirio, su tutte la raffinata ed acustica Come With Me e la frizzante e seventies Gipsy.

Un bell’album quindi a cui si aggiunge una produzione dal taglio moderno e di alto livello, questo si tratto caratterizzante di tutti i brani proposti. Consigliato a chi vuole “fuggire” per un’oretta con una variegata serie di brani che toccano diversi stili legati al rock!

Anims – God Is A Witness – Recensione

18 Agosto 2021 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard/Heavy
anno: 2021
etichetta: Self Released

 

God Is A Witness è il debut album della hard’n’heavy band italiana guidata dall’ex chitarrista di Danger Zone e Crying Steel Francesco Di Nicola. L’album nasce attraverso una serie di incontri in presenza in una sala prove musicali di Bologna e parte con l’intenzione di registrare dieci canzoni che fossero diverse per connotazione pur mantenendo la comune base melodica e di struttura. Alla stesura delle linee vocali ha contribuito in gran parte Luca Bonzagni (Crying Steel) il quale ha però dovuto abbandonare il progetto per motivi personali, a quel punto è stata presa una decisione drastica , coinvolgere nel progetto una voce femminile ovvero Elle Noir, una cantante che, in virtù della propria esperienza e poliedricità canora, ha accettato la piccola sfida di indirizzarsi verso un orizzonte decisamente “hard” come mai aveva fatto in precedenza. Questo ha portato a nuovi arrangiamenti per adattarsi alla nuova voce ed al completamento dell’album.

Quello che ne esce è un lavoro con una impostazione chitarristica robusta mitigato dalle linee melodiche tracciate dalla voce femminile, assolutamente non scontato e a suo modo imprevedibile, che in certi punti non mi scandalizzerei a definire progressivo, mentre in altri mi ricorda l’approccio più moderno adottato ad esempio dai nostrani A Perfect Day. Quello che è certo è che la voce di Elle cattura ed a tratti rapisce con la sua capacità di spaziare ed adattarsi alla struttura dei vari brani, sia quelli più canonici , sia quelli più ‘particolari’.

I pezzi che più spiccano sono senz’altro l’opener e title track God Is A Witness, che ci mostra subito il contrasto tra ritmica serrata ed aperture vocali e la seguente Freedom dove io continuo imperterrito a sentire un approccio progressive soprattutto per quanto riguarda la voce che mi richiama un cantato quasi Rush, spero sarò perdonato se sento qualcosa che magari esiste solo nella mia testa, ma l’età avanza. Around Me è estremamente catchy e moderna nella sua semplicità, mentre secondo me il pezzo top è Live For Somebody a tratti sognante e a tratti sincopato. Ultime citazioni per la particolarissima ed orecchiabile Bright Eyes e The Dancer dove dopo un intro a la Metallica la voce femminile fa mutare la sensazione rendendolo quasi epico.

Insomma tra molti alti e pochi bassi il disco merita approfonditi ascolti, la produzione è apprezzabile e pur fatta in ‘casa’ al PriStudio e curata da Roberto Priori, si mangia tante altre ben più blasonate e costose, in questo clima torrido una boccata di aria fresca. Peccato che al momento non ci sia notizia di una edizione fisica che per un feticista della materia come me, è un sommo dolore.

 

 

 

Cruzh – Tropical Thunder – Recensione

17 Agosto 2021 4 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Nei giorni più caldi dell’estate 2021, il rischio tangibile di temporali, con annessi tuoni e fulmini, è elevato. A proposito di tuoni, non siamo ai tropici ma, musicalmente parlando, mi trovo davanti a “Tropical Thunder”, secondo album dei Cruzh. La band svedese esce a 5 anni di distanza dall’omonimo debut-album che ebbe positivi riscontri. In questi anni di attesa, il vocalist Tony Andersson viene sostituito dall’ottimo Alex Waghorn, il quale si presenta già nel 2019 con l’uscita dell’Ep “Aim for the head” (versione acustica). Anton Joensson e Dennis B.Borg completano il gruppo,mentre entra, in pianta stabile, Matt Silver dietro le pelli.

La proposta musicale ricalca quanto già sentito nella precedente uscita discografica, ossia un melodic rock di stampo svedese che fa riferimento ai primi H.e.a.t. con qualche richiamo all’A.o.r. a stelle e strisce.

Si parte di gran carriera con la title-track, canzone che nel suo incedere ha il sapore di Dokken. “We got together” è il primo singolo con simpatico video; una canzone con un ritornello arioso che si stampa in mente e non ne esce più. Questa canzone è il vero tuono dell’album, assieme alla successiva “Turn back time” e al romantico lento “Cady” che fa tornare alla mente i White Lion dei tempi d’oro. “Are you ready” fa molto Def Leppard mentre ci sono dei richiami ai Poison nella simpatica “Moonshine Bayou”. Simili, se non uguali, nel lavoro di chitarra la settima e la ottava traccia; la prima,“All you need, evoca I compatrioti H.e.a.t., mentre “Line in the sand”, dalle movenze più soffuse, ha un refrain che fa la differenza.

Ultime tre canzoni, in ordine sparso: l’ottantiana “New York nights” è il terzo singolo, “Paralyzed” è un omaggio ai primissimi Bon Jovi e, in conclusione di scaletta, “N.R.J.C.” rimarca il buon affiatamento del gruppo in fase acustica.

Conclusioni:

Per una rovente estate 2021, quale miglior album rinfrescante se non “Tropical thunder”? Un plauso ed un augurio ai promettenti Cruzh per una futura e terza uscita discografica….col botto!

 

Night Ranger – ATBPO – Recensione

11 Agosto 2021 7 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Di Max Giorgi e Vittorio Mortara

 

Un nuovo disco dei Night Ranger rappresenta per noi appassionati un evento molto atteso. Le aspettative salgono, i ricordi ritornano a galla, le gambe tremano… e nessuno vuole farne la recensione! Motivo: siamo tutti molto (troppo?) legati all’epoca d’oro, alle varie Sister Christian, When you close your eyes, Goodbye e via discorrendo. E a tutti gli ultimi 2/3 album sono piaciuti pochino. Meglio, magari, la fase “giapponese” dei nostri, un po’ più mainstream ma curata ed eseguita alla perfezione. Insomma, affrontare e giudicare questo ATBPO non è, oggettivamente, il più facile dei compiti. Così i vostri redattori torinesi, Max e Vittorio, hanno pensato di unire le forze, discutendone in una calda sera d’estate davanti a un paio di birre ed un po’ di carne alla brace, nonché degli squisiti cantucci fatti da Max con le sue sante manine.

Il primo ascolto di quest’album, ragazzi, è stato disastroso: raffinatezza degli arrangiamenti, cori mai banali e funambolismo strumentale sembravano essersi persi in uno stile molto simile ai lavori più recenti, permeato di un sound fortemente legato al root rock americano, quello che ancora non si è completamente affrancato dal blues, dalla struttura sempliciotta ed un po’ grezza tanto di moda soprattutto negli stati del sud. Non un pezzo che faccia sobbalzare dalla sedia o ti faccia rizzare la peluria alla base del collo. Ok, sono i Night Ranger. Non si possono liquidare così. Andiamo con un altro ascolto. E poi un altro e un altro ancora…

E così scopriamo che l’opener “Coming for you”, banalotta e poco incisiva, contribuisce in larga parte a predisporti male per l’ascolto del resto dell’album. E infatti, al primo giro, non ti accorgi che “Bring it all home to me” sembra uno degli estratti meno tastierosi di “Big Life” e che l’intonazione particolare di Jack Blades non è cambiata poi un granchè negli ultimi 30 anni. Il singolo “Breakout”, pezzo preferito di Max, invece è proprio una bella canzone: fuori moda finchè si vuole, ma efficace. Per non parlare del triplo assolo firmato Gillis/Kelli/Gillis che spacca veramente! La bluesata “Hard to make it easy” non sarebbe dispiaciuta al David Lee Roth reduce dai Van Halen, ma, francamente, non te la aspetteresti in un lavoro di Keagy e soci. I lenti, a Vittorio, piacciono quasi tutti. Quindi “Can’t afford a hero” è subito diventata la sua preferita. Semplice ed un po’ triste, con un testo piacevole. Non ai livelli delle ballad classiche della band, ma bella! “Cold as december” fa della melodia il suo cavallo di battaglia, sia a livello vocale sia chitarristicamente parlando. Il pezzo seguente non è una cover di “We will rock you” come si sarebbe portati a pensare dall’attacco della batteria. Si tratta di “Dance”, un bel pezzo. Il più AOR-oso e con il refrain più marpione dell’intero disco. Il secondo lento “The hardest road” comincia secondo la migliore tradizione del gruppo: tastiere, acustica e la voce di Keagy. Il brano si snoda su una melodia rilassata, forse troppo, e manca un po’ a livello di emozionalità in corrispondenza del ritornello. Un rockaccio sporco sta invece alla base di “Monkey”, un pezzo non ispiratissimo che però viene tenuto a galla dall’assolo al fulmicotone! Ancora profumo di southern si può assaporare in “Lucky man”, orecchiabilissima, anche se poco Night Ranger. Chiusura del lavoro affidata a “Tomorrow”, una canzone che definiremmo perfettamente a cavallo fra la fase classica e quella recente dei nostri: semplice ma dalla melodia vincente.

Allora, questo nuovo Night Ranger è bello o non è bello? Sicuramente in redazione ha acceso le discussioni fra detrattori e sostenitori! Persino tra noi due che vi stiamo scrivendo queste righe non c’è una perfetta identità di giudizio. Però ci sono alcuni innegabili dati di fatto. Primo fra tutti il livello dei suoni e della produzione, nettamente più elevato rispetto ai gruppi minori usciti negli ultimi tempi. E’ evidente che l’etichetta ha investito un budget non indifferente per una tra le teste di serie della propria scuderia. Poi la classe e l’esperienza dei musicisti coinvolti, anche se, in passato, la bella voce di Kelly Keagy è stata sfruttata di più ed in maniera più efficace. Gillis è sempre uno dei migliori chitarristi nel genere, e anche in questo ATBPO lo dimostra in più di una occasione. Piuttosto limitato, per contro, l’apporto di Keri Kelli. La direzione musicale intrapresa a livello compositivo da qualche uscita a questa parte, invece, a qualcuno piace e ad altri no. Sicuramente è piuttosto distante dai classici di fine ’80 e non vi è dubbio che sia molto ma molto meno orecchiabile. Paradossalmente riprende più quanto espresso dai Damn Yankees che non la tradizione storica dei nostri. Ma altrettanto certamente un album dei Night Ranger non può essere lasciato sugli scaffali: bisogna averlo! Quindi buon ascolto ed a voi il giudizio definitivo. Noi torniamo ai nostri cantucci ed al nostro marsala…