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Nestor – Kids in a Ghost Town – recensione

20 Ottobre 2021 110 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Indipendente

Segnatevi questo nome, NESTOR, e segnatevi questo titolo, “Kids in a Ghost Town”!
Perchè di questi Nestor e di questo album ne parleremo parecchio negli anni a venire ed un lavoro di questo livello negli ultimi 21 anni fatico veramente a trovarne traccia.

Nati nel lontano 1989, naufragate le velleità di un futuro da Rockstar, i nostri in realtà non si sono mai persi di vista e sicuramente non hanno perso “l’amore” che gli lega al 1989 e al melodic rock di quegli anni.

Ricordo ancora il primo momento in cui le mie orecchie si sono trovate a portata di un pezzo clamoroso come On The Run (e ci tengo a precisare che il nostro MaxAor come sempre è stato uno dei primi “al mondo” a rendersi conto di questa band fenomenale e a farci su un articolo!!! 😉 ), ci manca poco che cado dalla sedie e penso di aver pianto per giorni tanto era bello il pezzo! Pezzo che verrà presentato anche in una breve versione acustica (non presente nell’album) a dir poco da pelle d’oca.
Le cose sono andate addirittura migliorando con due singoli di assoluta eccellenza come 1989 e Tomorrow. Quest’ultimo in duetto con, nientemeno che, Samantha Fox! Notevole poi la cura dedicata anche ai video che accompagnano i tre singoli e che, come negli anni d’oro, aiutano a dar maggiore forza all’idea nostalgica ma di grande rivalsa che pervade tutto l’album.

I Nestor riescono con questo Kids in a Ghost Town a centrare tutti gli obiettivi che servono per rendere grande un album di un qualsiasi genere musicale portando in dote una grande ed espressiva voce come quella di Tobias Gustavsson, una serie di Artisti di Talento (ascoltatevi i soli di chitarra piazzati qua e la!) e una produzione di livello in linea con il target dell’album!
Oltre a questo, rientrando nei ranghi di quello che ci interessa maggiormente, i Nestor riescono anche a centrare tutti gli obiettivi che servono a noi malati del Melodic Rock per sollazzarci a dovere i padiglioni auricolari!
Ci troviamo tra le mani potenzialmente 10 pezzi che potrebbero essere tutti presentati come singoli. C’è tutto, dalle antemiche e nostalgiche cavalcate melodic rock di On The Run, Kids in a Ghost Town e 1989, al ritornello super catchy di Stone Cold Eyes o quello della suadente Perfect 10 (Eyes Like Demi Moore). L’adrenalinica e cromata carica di These Days, l’emozionante e struggente We Are Not Ok o ancora il dirompente hard rock di Firesign con le chitarre incalzanti e la voce fiammeggiante. Senza dimenticare i due lenti del lotto, Tomorrow e It Ain’t Me che portano a segno due ballate di una bellezza spaventosa con Tomorrow a dare lustro e valore al termine “power ballad” (grazie anche allo splendido duetto con Samantha Fox) e It Ain’t Me che gioca su accenni melodrammatici al limite del barocco negli arrangiamenti.

Apparsi quasi dal nulla, i Nestor giocano un poker d’assi che negli anni d’oro avrebbe regalato loro un posto nell’olimpo del Melodic Rock e lo fanno con gran cura per ogni dettaglio sia musicale che di immagine. Un centro pieno che ci regala forse il più bell’album melodic rock dal 2000 in avanti!

Robledo – Wanted Man – Recensione

20 Ottobre 2021 2 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

In uscita l’album di debutto di James Robledo, talentuoso cantante cileno lanciato qualche anno fa dai Sinner’s Blood e che ora troviamo, in questo progetto targato Frontiers, circondato e coadiuvato da nomi importantissimi del panorama hard rock per questo lavoro solista di grande interesse.

Ad aprire le danze troviamo “Heart’s The Only Enemy”, della quale trovate allegato a questa recensione il videoclip su YouTube, brano pestato e dalla ritmica tonante. In seconda posizione troviamo la title – track “Wanted Man”, veramente molto coinvolgente e suggestiva, dalla trama musicale perfettamente incastonata con la potenza vocale, di Robledo: un pezzo tosto, capace di gasare. Si prosegue con grande qualità: “Quicksand” non delude,, ha una pacca non indifferente e soprattutto non molla un colpo dal primo all’ultimo secondo. “Dream Decieve” concede all’ascoltatore di esplorare il lato più melodico dell’artista, nonostante il gioco di dinamiche tra prima parte e parte solista sia eccellente. Tremendamente suadente, arriva “Hate Like You”, intensa, dalla struttura variegata e dinamica. Classica cavalcata hard rock sulle note di “Shelter From Pain”, martellante, senza tregua, bella nella sua indomabile frenesia, che presto si getta nel sentimentale lento “Alone Again”, un cambio di sonorità graditissimo e di grandissimo livello. Ritmica granitica e trama oscura sono le doti che subito saltano all’orecchio con “Higher Scope”, diretta, corale e dagli orizzonti sconfinati. Con “The Good Will Rise” andiamo a riconfermare tutte le buonissime sensazioni evinte sino ad ora: compattezza strumentale, grande dote vocale e arrangiamenti sempre freschi e convincenti. Chiusura affidata alla notevole “The Holy Book”, tagliente e spietata, dalle atmosfere misteriose, che ci consegnano un album di grande livello, mai banale, che fa ben sperare per il futuro sia di Robledo che del movimento hard rock.

Osukaru – Starbound – Recensione

18 Ottobre 2021 4 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Sarò sincero; prima di addentrarmi nella recensione del presente “Starbound” conoscevo pressoché nulla di Osukaru band. Mettermi all’ascolto del loro ultimo album è stato come buttarsi inconsciamente col paracadute. Premesse a parte, sono passati tre anni dal precedente “House of Mirrors” e Oz, in arte, Osukaru è saldamente al timone del suo gruppo, accompagnato da Olof Gadd al basso, dalla voce+chitarra di Fredrik Werner e dal neoentrato CD alla batteria, in sostituzione di Vidar Mårtensson. “Starbound” esce per Aor Heaven e si fa notare per la cover chiara di sfondo ma poco chiara nel suo appeal (fa molto film, tipo “La storia infinita”).

Si parte con la title-track e “Rise of the underdog”, due canzoni che sono devote alle uscite discografiche di fine anni ’80 del connazionale Yngwie J.Malmsteen, virtuosismi chitarristici a parte. Primo singolo rilasciato “Tainted love” che ha una ottima struttura, bridge+chorus, ma che convince parzialmente nelle parti alte del cantato, mentre il secondo estratto “Shut it out” si fa notare per il bel lavoro alla chitarra di Oz. Caliamo gli assi o meglio il jollly con “Joker (in the house of cards)”, “Somewhere, Sometime, Somehow” e “On the streets again”; canzoni che sbancano in questa release. La prima ha un ritornello ritmato, la seconda è un mid-tempo che ha quel giusto mix di melodia e deja-vu, condito dalla breve ma preziosa presenza al sax di Mark Holden dei Boulevard, mentre la terza traccia ci sazia le orecchie col suo bel refrain assieme ad un intrigante giro funky alla chitarra. “Go for the legends” è infarcita di tastiere e cori sparsi come la conclusiva “All up” che ha però alcuni acuti finali quantomeno forzati. Poteva mancare una ballad? No. Presente la piacevole “Within the depths love”, semplice ma che, a proposito di carte, sta nel mazzo.

Conclusioni: Non sarà emozionante come una caduta col paracadute, ma l’ascolto di “Starbound” è stato un gradevole salto nel buio. Al prossimo lancio.

Supernova Plasmajets – Now Or Never – Recensione

13 Ottobre 2021 20 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic rock
anno: 2021
etichetta: Pride & Joy

Quando un gruppo all’esordio discografico trasmette interessanti qualità artistiche
unite a un immagine magnetica, lievemente seducente da non derubare le orecchie e la testa della
nostra più profonda attenzione, prende coscienza progressivamente della portata delle proprie
possibilità.
Come in un grafico analitico i riscontri positivi sono direttamente proporzionali alla fiducia nelle
proprie capacità e, al contempo, alle pressioni su quello che sarà il capitolo numero 2.
All’indomani del debutto gli addetti ai lavori (e non) erano unanimi nel parlare dei Supernova
Plasmajets, band tedesca di Mannheim, come un quintetto tanto giovane quanto interessante nel
proporre una miscela di hard melodico arricchito da suoni elettronici e sfumature glam,
fronteggiati dalla dotata singer Jennifer Crush.
Coscienti di ciò i nostri si sono presi 4 anni per tirare fuori il proprio possibile apogeo, accasati ora
alla Pride & Joy Music.

Le tastiere pienamente eighties dell’intro “Pretty Bizzarre” aprono le porte alla vera opener,
“Beggin” guidata da un riff di chitarra molto melodico e dal cantato della Crush che alterna strofe
morbide ad un ritornello aggressivo, impetuoso. “Take me To the Underground” è un bel pezzo
cazzuto, nervoso, dove Synth elettronici aggrediscono e arricchiscono la sezione ritmica fino ad
esplodere in un breve assolo sleaze. Ancora headbanging con il ritornello della titletrack; i toni
della strofa sono più cupi, malinconici come nella seguente “Deer in the Headlights” la quale segue
il medesimo copione arricchita da keys in piena tradizione hard&heavy made in USA dei primi anni
90’ ; il singolo “Lonely Hearts in the Night” è ruffiano quanto basta per sperare in qualche
passaggio radiofonico e ammiccare al pubblico più giovane oltre a marcare il lato più sensibile della
band.
Il lato sleazy del gruppo riesce prepotentemente con “Fade Away” e “Turn Around The Sky”;
dirette, senza fronzoli e ricche di spunti individuali atti ad aumentarne le sfumature.
Non pesa l’assenza di un lento che spezzi il ritmo nell’ascolto, grazie alla bravura della Crush nel
disegnare linee vocali dai molteplici colori alternando sentimenti quali veemenza e nostalgia.

Quindi, cosa manca a un disco come “Now Or Never” per sovrastare altre innumerevoli uscite?
2/3 pezzi maggiormente incisivi, dotate di ritornelli e/o strutture killer che non lascino prigionieri.
Nessun ripensamento stilistico (per fortuna), nessun guizzo sorprendente (purtroppo); solo
conferme da parte di un gruppo che si collima nella freschezza di idee e in un’identità policroma
ma ben definita grazie alla capacità del quintetto di amalgamare ingredienti usualmente distanti
tra loro (almeno alle nostre latitudini).
Promossi senza Lode

Bad Habit – Autonomy – Recensione

12 Ottobre 2021 4 Commenti Vittorio Mortara

genere: Aor
anno: 2021
etichetta: VIP Wonderland

Come tutti sappiamo, a partire dall’epoca d’oro, l’AOR si è sviluppato parallelamente in due ben determinate
regioni della terra: gli Stati Uniti d’America e la penisola scandinava. In quest’ultima area, fra i portabandiera
storici del genere si possono annoverare gli Europe, gli Stage Dolls, gli Alien e… i Bad Habit! Accidenti,
ricordo ancora quando un secolo fa le loro uscite (e quelle degli Stage Dolls!) erano praticamente
irreperibili, se non in costosissime versioni d’importazione giapponese… E tu leggevi gli sperticati elogi ai
loro album sulle colonne di Flash e Metal Shock e volevi assolutamente il disco! Internet non esisteva, e così
cercavi di convincere il tuo negoziante di fiducia a reperirtene una copia. E quando, finalmente, riuscivi ad
entrarne in possesso, ti sembrava di avere fra le mani (e nelle orecchie) un vero e proprio tesoro! Oggi mi
ritengo assai fortunato perché, oltre a possedere ancora tutte le loro releases originali, posso andare
orgoglioso di aver assistito ad uno dei loro concerti proprio nella loro città natale: Malmo. I Bad Habit hanno
classe da vendere. Quella sera hanno fatto sembrare band come Osukaru, State Of Salazar e Age Of
Reflection un’accozzaglia di sprovveduti dilettanti. Bax Fehling e Hal Marbel, leader indiscussi della band,
tengono benissimo il palco e sanno come intrattenere il pubblico. La voce di Bax non è più quella di 30 anni
fa e, vi confesso, quando hanno suonato “Rowena”, sono stato in seria apprensione perché temevo il
disastro all’altezza della strofa più acuta. Invece, con un po’ di esperienza e l’aiuto del pubblico, è riuscito a
cavarsela più che dignitosamente. D’altronde il cantante è sicuramente consapevole dei propri attuali limiti.
E dimostrazione ne sia che sulle ultime releases ha composto partiture vocali nettamente meno
impegnative sulle note alte, pur restando estremamente piacevoli. Questo “Autonomy” segue a ben 10 anni
di distanza il precedente “Atmosphere”, ritenuto dai fan più accaniti un tantino monotono ed un gradino al
di sotto dei classici “After hours” e “Adult orientation”. E subito sopravviene la prima delusione: solo sette
tracce nuove. Più tre brani dal vivo. Parrebbe più un EP che un LP, usando una terminologia d’antan…
Cominciamo l’ascolto: “Retribution” spiazza subito per la sua modernità, riffone di chitarra doppiato dalle
keys e voce filtrata, un mood oscuro squarciato qui e la da una tagliente solista che culmina in un chorus
vagamente inquietante. Che i nostri si siano dati al modern melodic metal? Il piano e la melodia carezzevole
che introducono “I reach for you” fugano immediatamente ogni dubbio: una bellissima semiballad in pieno
stile Bad Habit che pare provenire direttamente da fine ’80. E si fa subito il bis con “A place in your heart”,
dove un Bax in splendida forma ci prende per mano e ci conduce lungo un articolato brano di AOR
d’atmosfera dove nessuna nota risulta fuori posto. L’attitudine modern si riaffaccia in “Back to life”, altresì
dotata di un ritornello assolutamente emozionale e di facile assimilazione. Ottantiana fino all’ultima nota è
la warreniana “Love will find a way”, azzeccatissimo singolo. Struttura quasi banale ma che richiama così
tante sensazioni dal passato da essere meravigliosa! “lost in you” è un altro gradevole brano dalla melodia
eterea che passa direttamente dall’orecchio al cuore, senza passare dal cervello. La mia preferita! L’ultimo
inedito è il classico lento strappalacrime “Reason to live”, tanto mielosa da provocare carie e diabete in chi
ascolta. Ma a me, ormai lo sapete, lo zucchero piace, per cui la trovo stupenda! Seguono tre brani live dalla
qualità sonora pessima. Vi assicuro che quanto ho registrato io con lo smartphone alla Swedish AOR
Convention si sente di gran lunga meglio! Per cui farò finta che neanche ci siano.
Il mio giudizio su questa band è assolutamente di parte. Li ho amati da sempre, li ho visti dal vivo in un
concerto per poche centinaia di persone, tutte di Malmo eccetto me e la mia compagna. Ho amato anche i
tre album degli anni 2000 e vi garantisco che un pezzo come “Above and beyond” suonato live garantisce
brividi ed adrenalina quanto le vecchie canzoni. Questo “Autonomy” è solo un mezzo album. Ci sono solo
sette pezzi e quattro sono ballad. Ma in quei sette brani c’è tutto quello che volete: una band di bravi e
diligenti musicisti, composizioni di qualità assoluta, produzione pulita e senza sbavature ed arrangiamenti di
classe. I brani più duri potrebbero somigliare a quanto sentito nell’ultimo Alien ma, almeno per chi vi scrive,
con una qualità compositiva migliore, mediata con lo stile classico della band e, soprattutto, con una
produzione di livello superiore. Se ci fossero stati du o tre brani nuovi in più e non ci fossero state le
obbrobriose registrazioni live, avrei dato un bel 90!
Grandi Bad Habit! Spero di potervi rivedere presto su un palco!!!!

Houston – IV – Recensione

08 Ottobre 2021 5 Commenti Vittorio Mortara

genere: Aor
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Giungono al quarto disco (più due di covers) gli svedesi Houston, da sempre portabandiera di un AOR dalle
tinte classiche, suonato da musicisti dalle doti tecniche più che buone e capaci di un songwriting piuttosto
vario ed efficace. Ed anche in questo IV ritroviamo tutti gli ingredienti che hanno reso piacevoli i suoi
predecessori. Certo, è inutile aspettarsi chissà quale innovazione: qui non troverete nessuna concessione al
modernismo né alcun indurimento del sound. Però vi assicuro che l’album scorre via che è una bellezza, pur
non contenendo alcun singolo bombastico. E vi dirò di più: la vostra opinione sulla qualità aumenterà di
ascolto in ascolto! Hank Erix non è un superdotato delle corde vocali: la sua voce si appiattisce un poco sulle
tonalità più acute, ma risulta sempre gradevole nell’ interpretazione. Carl Hammar ha buon gusto negli assoli
e divide volentieri la scena con l’ottimo Richard Hamilton, emulo di Jonathan Cain alle tastiere. La sezione
ritmica tiene il passo. La produzione made in Frontiers è al livello delle altre uscite per la stessa etichetta,
anche se, devo dire, la differenza con quanto ascoltato sull’ ultimo Night Ranger si sente.

Passando ai brani, un’intro alla Jean Michel Jarre fa partire “She is the night” evocando un’atmosfera da
poliziesco anni 90 estremamente coinvolgente, per poi lasciare il passo al singolo apripista “You’re still the
woman”, AOR ultraclassico interpretato alla perfezione dall’ intera band. “Hero” prende spunto dai migliori
Survivor, edulcorando leggermente la formula originale e piazzando un ottimo refrain. Kenny Loggins,
invece, fa capolino nel ritmo spedito di “Lifetime In A Moment” ed il miglior Robert Tepper viene omaggiato
in “Heartbreaker”. Se proprio vogliamo cercare tracce dell’AOR anni 2000, allora forse le possiamo scorgere
in “Hero” e nella sua struttura riconducibile al viking-rock dei maestri Eclipse e One Desire. Ma subito dopo
si torna a 30 anni fa con “Heart Of A Warrior”, bel pezzo influenzato ancora una volta a Foreigner e Survivor.
“Until The Morning Comes” va crescendo ed aumentando il pathos fino all’azzeccato ritornello. “I Will Not
Give In To Dispair” sembra estrapolata dal repertorio degli Age Of Reflection e pertanto non è uno dei miei
pezzi preferiti. Per me il top è la successiva “Such is love”, up tempo che richiama “Heartless” di Aldo Nova e
ti spara una bella dose di adrenalina in vena! Chiude “Into Thin Air”, vagamente bonjoviana, bellissima
canzone di AOR tanto canonico quanto emozionante.

Per concludere, questi Houston a mio giudizio sono un ottimo acquisto per la nostra Frontiers, tanto che li
metterei fra le punte di diamante delle nuove leve! Accostatevi all’ album senza aspettative di ritornelli ultra
catchy o di spunti originali tendenti al moderno, e vedrete che non rimarrete delusi. Coglierete, ascolto
dopo ascolto, le influenze e riferimenti a mille band storiche, la cura negli arrangiamenti ed il gusto dei
musicisti. E poi, se già non li avete, procuratevi anche i precedenti tre album che, vi garantisco, valgono
assolutamente la pena!

Bravi Houston, e grazie perché ci ricordate ogni volta quanto è sempre stata bella la nostra musica!

Eclipse – Wired – Recensione

06 Ottobre 2021 23 Commenti Giulio Burato

genere: MelodicRock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

“La pelle d’oca”, quella strana e bella sensazione che capita quando ascolti un brano musicale che ti colpisce e che ti resta dentro, quella sensazione che molti ascoltatori avranno avuto modo di provare. A me “la pelle d’oca” è apparsa diverse volte ascoltando gli Eclipse, una delle poche band del nuovo millennio che hanno colpito nel segno e che mi hanno colpito e, a volte, affondato, soprattutto in album come “Armageddonize” e “Monumentum”.

Capitanati dall’imprescindibile Erik Martensson (voce e chitarra), la band si completa alla chitarra dal sempre presente Magnus Henriksson e da fratelli Crusner, Philip alla batteria e Victor al basso. A due anni di distanza da “Paradigm” che ha ripercorso le stesse coordinate dei sopranominati predecessori, senza però raggiungerne le vette, i quattro ragazzi svedesi tornano con “Wired”, dall’infuocata e coinvolgente cover.

Anticipato a metà maggio dal singolo “Saturday Night (Hallelujah)” che viene narrato in questo modo dallo stesso Erik: “Era un altro di quei sabati sere a casa. Ma per la prima volta da molto tempo c’era speranza”, quella speranza di uscire da un anno di Covid-19 e tornare a suonare e pogare tutti assieme. Idea che nel 2022 realizzeremo. Due mesi dopo esce il secondo singolo “Bite the bullet” dove si nota l’approccio più heavy delle chitarre ma anche una nuova verve nella struttura delle composizioni; qui c’è ampio spazio alle potenti parti strumentali presenti nei 4’ minuti esatti della canzone. Terzo singolo, uscito a fine agosto, dal titolo “Twilight”, altro pezzo dal suono tipicamente “eclipsiano”, ossia roboante ed efficace. Non da meno la devastante carica delle iniziali “Roses on your grave” & “Dying Breed”, l’altisonante vigore di “Run for cover” e la deflagrante energia di “Dead Inside”, presente in “CD and Digital Exclusive Bonus Track”. Per smorzare il potente fuoco della sessione ritmica, ecco la delicata “Carved in Stone”, una dolce caramella che sprigiona calore a fine “masticazione”, e l’acustica “Poison inside my heart”, diversamente acustica visto che si trasforma con vigoria. Appello canzoni quasi finito; mancano la nona e decima traccia. Alziamo le braccia e alla cadenza della batteria ecco “We didn’t come to lose” con quel sagace tocco di chitarra all’uscita del refrain, yeah! Con “Things we love” abbiamo pure noi dei pensieri che amiamo, a conclusione di undici tracce che magari non sposteranno gli equilibri di quanto già conosciamo degli Eclipse ma che funzionano sempre, dannatamente bene.

M.ill.ion – Back On Track – Recensione

05 Ottobre 2021 2 Commenti Alberto Rozza

genere: MelodicRock
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Tornano sulla scena hard rock gli svedesi M.ill.ion, che festeggiano il trentennale dall’uscita del loro primo lavoro di studio con un nuovo album e un tour reunion.

Si parte forte con la title track “Back On Track”, dallo stile e dal tiro inconfondibile, corale nella sua esecuzione e globalmente molto intrigante. Atmosfere oscure si addensano su “Rising”, dalla trama interessante e ricca di inserti, un brano dai particolari scottanti e ben congegnati. “Circle Of Trust” possiede un riff molto coinvolgente che, abbinato a un tappeto ritmico compatto, ne fanno un pezzo misterioso per intenzione e convincente per esecuzione. Arriviamo su orizzonti più scanzonati: “90 – 60 – 90” evoca ricordi a tinte Purple, nella presenza delle tastiere e nell’incedere strumentale e vocale, attestandosi comunque come una buona traccia. “Sign Of Victory”ha tratti ben riconoscibili, molto ariosi, e sfocia nella ben più dura “Judgement Day”, dalle trame toste e titaniche, corale al punto giusto. Sempre sulla stessa onda dei pezzi precedenti troviamo “Eye Of The Storm”, dove le ispirazioni arrivano riconoscibilissime dall’inestimabile attività dei Dio, che in questo caso vengono discretamente onorate. Ci portiamo leggermente nell’heavy con “Narrow Mind Land”, dalla batteria martellante e dalla grande espressività vocale e ritmica, che presenta anch’essa notevoli tributi alla scena metal mondiale. Arriva il momento del lentone: “Lovely Eyes” emoziona per la sua intensità e per la non banalità delle scelte compiute dai M.ill.ion. “Burn In Hell” passa veloce, un discreto brano che non lascia particolarmente il segno e che presto lascia il posto a “Doctor Lööv”, anch’esso sulla falsa riga del precedente e dal sentore leggermente insipido. Pungente e dalla dinamica molto interessante, “Mother Earth” risulta essere il brano più azzeccato di questa seconda parte di album, dato confermato dalla successiva “Get Down To Biz”, dal piglio deciso ma tutto sommato poco originale. “Tear Down The Walls” trasmette sensazioni positive, soprattutto per l’ottima resa e incastro tra parte vocale e strumentale. Passata “Candyman”, cavalcata tonante e conclusiva, si spengono i riflettori su un album ottimamente suonato e dalla resa indiscutibile, ma che pecca fortemente in originalità, tanto che le influenze e i richiami, più o meno voluti, risultano troppo evidenti anche ad un primo ascolto; inoltre, l’eccessiva lunghezza del lavoro non giova sicuramente alla freschezza, riproponendo alcune volte temi musicali ripetitivi.

Dan Lucas – The Long Road – Recensione

04 Ottobre 2021 9 Commenti Samuele Mannini

genere: Rock
anno: 2021
etichetta: Pride & Joy

Non sapevo di mettermi tra le mani una bella grana, quando ho deciso che avrei fatto  la recensione di questa ultima fatica di Dan Lucas. Già, perché dopo il primo ascolto , io che sbavavo pregustando una specie di Canada 2.0, avevo il morale abbastanza a terra; brutta bestia una aspettativa delusa.
Ho deciso così di far passare un po’ di tempo e riprovare, risultato? Bene, ma non benissimo, quindi che fare? Pronto ormai a bocciare il disco, mi sono preso un’altra pausa di riflessione con conseguente altra seduta di ascolto…..ed ecco, alla fine sono giunto alla quadratura del cerchio.

Il primo errore che ho fatto è indubbiamente cercare di paragonare il disco a Canada e visto che si parla di un gioiellino dei tempi che furono, è una cosa sbagliatissima anche solo da pensare. Secondo errore, aspettarmi un disco di AoR, ed anche qui bisogna rendersi conto che non tutti gli artisti amano ripetersi a distanza di anni. Preso dunque il disco per quello che è, scevro da altri pregiudizi ho potuto apprezzare meglio il reale valore di questa ultima fatica di Dan .

Siamo di fronte ad un disco che si muove su coordinate  più pop rock che in passato e in certi frangenti si va vicino al rock cantautorale made in Usa, un’ po’ lo stesso percorso intrapreso da Mark Spiro, tanto per intenderci, solo che nell’ ultimo disco di Spiro il songwriting e gli arrangiamenti sono di livello talmente alto da far passare il genere musicale un po’ in secondo piano, cosa che su questo The Long Road accade solo a tratti.
Dividendo il disco in due parti, salta all’occhio che la prima è in effetti più ispirata e di livello superiore, nonché con più rimandi al periodo AoR, la seconda porzione invece scorre via più piatta, senza infamia e senza lode. Le canzoni che ritengo più riuscite sono , 1985 intima e nostalgica, la introspettiva e struggente Memories e la più ritmata e “westcoast” What’s Left.

In sostanza un disco diverso, dove  Dan Lucas  esplora un lato più intimistico e (complice anche le mutata capacità vocale)  volge lo sguardo verso sentieri più distanti dal canonico Aor dei tempi andati. Dategli comunque una possibilità se vi capita, perché con il giusto approccio può lo stesso regalare emozioni.

King Zebra – Survivors – Recensione

01 Ottobre 2021 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 2021
etichetta: Golden Robot/Crusader Records

‘La morale è sempre quella, fai merenda con Girella’, recitava lo slogan pubblicitario di una nota merendina degli anni 80 ed è la prima cosa che mi è saltata in mente ascoltando questo disco. Si perché infondo la faccenda è, per così dire, lapalissiana, quando una cosa è semplice e fatta bene di solito funziona alla grande.

Questo disco è proprio così, semplice, diretto, catchy quanto basta e sopratutto suonato bene. Il mio piede non ha smesso di battere il tempo per tutta la durata del disco , con conseguenti ed improponibili sculettamenti e sinceramente, mi sembra che non si possa chiedere di più ad un disco nel 2021. Si certo, l’originalità non è sicuramente la freccia migliore all’arco di questi svizzeri, ma tutto sommato chissenefrega se la prima canzone Under Destruction sembra una outtake dell’album dei Trouble Tribe (ve li ricordate? No?….Male!), perché funziona a meraviglia e ci fa capire subito quale sarà il registro del resto del lavoro. She Don’t Like My Rock ‘n Roll segue energica, ma più “commerciale” e deve molto ai Leppard, mentre atmosfere Tesliane permeano Desperate , con quelle schitarrate da headbanging che tanto ci piacciono.  Dato che abbiamo fatto il tris, facciamo anche il poker, Wall Of Confusion con alla voce Guernica Mancini (ThunderMother) spacca alla grande e te la canticchi in testa che è una bellezza.

Il disco si poggia tutto su questa potenza di riff e ritornelli veramente azzeccati, la freschezza compositiva è sapientemente guidata dalla voce di Eric St. Michaels (ex China) che mette a frutto tutta la sua esperienza interpretativa. Altre canzoni di rilevo sono la quasi heavy Rush, alleggerita solo dal ritornello e l’altrettanto pesante We Are The One…..niente ballad in questo disco solo rovente hard rock vecchia maniera ed energia a vagonate.

La produzione è abbastanza moderna ed in linea con gli  standard odierni, un po’ nasale per i miei gusti, ma è una cosa personale, quindi cos’altro resta da fare se non spararlo sullo stereo a manetta e saltellare allegramente come ai vecchi tempi?……..Dio, quanto mi piace la Girella….