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Sainted Sinners – Taste it – Recensione

04 Dicembre 2021 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Rock Of Angels Records

Mi sono avvicinato all’ennesimo gruppo del nostro Jack Meille, che ricordiamo essere il frontman di Mantra, Damn Freaks, Norge, ma soprattutto dei capostipiti della nwobhm Tygers of Pan Tang, con una certa preoccupazione mista a curiosità e devo dire che, nonostante lo scetticismo generatomi

dal pezzo ascoltato durante la trasmissione “Rock of Ages” sulla webradio RadioCity Trieste, l’album funziona ed oltre ad essere suonato da Dio, centra in pieno l’immaginario r’n’r che già dalla copertina si respira a pieni polmoni. La band è di prim’ordine e la “lotta” tra la sei corde del vanhaleniano chitarrista

Frank Panè, che già conosciamo per essere un mebro dei Bonfire dal 2015 e i tasti d’avorio del nostro Ernesto Ghezzi, tastierista dei Gotthard, ma anche di Eros Ramazzotti (!), da quel tocco di improvvisazione tipica dell’hard/rock’n’roll, per completare questo talentuosissimo gruppo, ci sono Rico Bowen, bassista americano, che vanta esperienze con Madonna, Paul McCartney e Kid Rock e Berci Hirleman, oramai storico batterista della band fin dagli inizi. Questo è il secondo album registrato dal buon Jack con i Sainted Sinners, dove aveva sostituito un marpione come David Reece e il frontman toscano si cala alla perfezione in quell’hard rock a volte stradaiolo, a volte più patinato, ma pur sempre energico che è il trademark dei Sainted Sinners e nelle undici tracce che compongono il cd, sciorina una prestazione a livelli altissimi, coadiuvato, appunto da un a band in stato di grazia, ma parliamo un pò delle canzoni presenti in questo quarto capitolo della band, non senza sottolineare che il 26 Novembre è uscito il cd in versione digipak che contiene la cover di “Losing my religion” dei R.E.M. come bonus track, mentre per il vinile marmorizzato color whisky, bisognerà aspettare il 22 Febbraio. Si comincia con “Against the odds” ed è subito una bomba, hard rock incalzante, che non solo per il titolo ricorda gli Uriah Heep e Jack valore aggiunto con una prestazione da urlo, se il buongiorno si vede dal mattino, questo album spacca il c..o ai passeri e difatti, si prosegue bene con “One today”, la quale si apre con una citazione del tapping di Vanhaleniana memoria e poi si dipana con un andamento in bilico tra Extreme e Lynch Mob, ancora meglio con “The essence of R’N’R”, il titolo è tutto un programma, da quello che ho capito si parla di diffondere il rock’n’roll “all around the world” e un pezzo così coinvolgente, con un bellissimo riff stoppato/sincopato, fa il suo dovere alla grandissima! Era quasi fisiologico che, dopo un trittico del genere ci fosse un lieve calo, difatti “Out of control” pur con il suo incedere tosto e il bell’assolo centrale di Hammond, a mio parere, rimane il pezzo più anonimo e scorre via senza particolari sussulti, ma l’adrenalina torna a scorrere subito grazie a “Never back down”, hard rock in bilico tra pulsazioni purpleiane e tentazioni ottantiane, e Jack che si traveste, con le dovute proporzioni, da Glenn Hughes e a “Good ol’ company”, veloce saetta in pieno rock’n’roll style con bellissimi assoli, il livello si mantiene discretamente alto anche con le successive “Down & dirty”, dall’andamento più blueseggiante e depravato al punto giusto e con “On and on (Chained)”, che si distacca nettamente dalla canzone precedente, qui siamo in territori decisamente 80s e si sfiora l’aor! Ma ecco la sorpresa che non ti aspetti, beh, una cover dei R.E.M.? E perchè no? Soprattutto se si tratta della straconosciuta “Losing my religion” che ben si presta alla trasposizione in hard rock e qualcuno dirà, ma come, un testo dei R.E.M.? Beh, è un testo che parla di chi perde la pazienza o la ragione per un amore non corrisposto, non certo di religione o chissà quali altri significati nascosti e, permettetemi, ci sta alla grande! Si ritorna a bomba sulle coordinate più sfrontate con “Coffee, Whiskey & Rock‘n Roll”, cosa c’è di più rock’n’roll di un titolo del genere? E qui la parte del leone la fa il piano debordante il quale accompagna uno sfrenato r’n’r che approverebbe anche Tyla, mentre la chiusura dell’album è affidata a “Heart of stone”, ballad acustica che diventa un hard rock cadenzato dal grande pathos e che conferma la mia impressione su Jack, fin da quando l’ho ascoltato per la prima volta con i Mantra: anima da rocker e attitudine da bluesman. Nella bio, la Rock of Angels, etichetta che pubblica “Taste it”, descrive l’album come una fuga dai problemi quotidiani per vivere in libertà, positività mentale e come un insieme di buone vibrazioni come solo il r’n’r può dare, mi sento di sottoscrivere queste parole e aggiungo di approcciarsi a questo disco con una certa apertura mentale, solo così lo può godere appieno; provare per credere, diceva un vecchio spot…

 

Dion Bayman – Alive – Recensione

27 Novembre 2021 3 Commenti Max Giorgi

genere: Pop rock/Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Dion Bayman Music

Gentili lettrici e lettori di www.melodcrock.it, vorrei parlarvi di Dion Bayman.

Cantante, polistrumentista, autore e produttore proveniente dall’Australia. Questo nome non dovrebbe “suonarvi” nuovo, in quanto più volte sul nostro sito, vi abbiamo raccontato di lui. Nel 2018 firmò un contratto con la nostrana “Art of Melody Music” per la realizzazione del suo terzo lavoro “Better Days” (per chi non lo avesse ancora fatto: ascoltatelo!!). Ed infine, ciliegina sulla torta, siamo stati onorati della sua presenza, come headliner del festival “A Melodic Rock Night” nel 2019.

Quest’anno Dion, si presenta con il quarto album della sua discografia intitolato “Alive”. Anche con questo lavoro, Bayman, si inserisce nel gruppo di quegli artisti, che propongono un melodic Rock con tinte tendenti al pop di stile marcatamente cantautorale. I brani hanno spiccata attitudine “radiofonica” con cori catchy e melodie AOR senza però, cadere mai nella banalità.

L’album inizia con la titol track “Alive” in cui il nostro Dion, mette subito le carte in tavola. La sua voce “educata”, “colorata” e mai urlata, ci accompagna in un mix tra hard rock di una certa classe e cori accattivanti che entrano subito in testa. Il brano termina e chi vi scrive sta ancora canticchiando: “I’m Alive!!!” Bene! L’inizio è col botto. Ma riuscirà il nostro cantante australiano a mantenere questa qualità?Si! “Waiting for that day” ce ne dà la conferma. Dion è sicuramente ispirato, ed attraverso la sua musica, sembra dirci: “amate il melodic rock?” Ed io ve lo servo come nei migliori ristoranti stellati, vi servono dei piatti di alta classe!!!”. Le “portate” si susseguono, tra l’AOR di “You will never know” e “One way Ticket” o le note sognanti della ballad “To die For” (miglior brano del disco) in cui Dion, esprime la sua visione dell’amore ai massimi sistemi. Dopo questa overdose di romanticismo ci va un po di energia!! Ed ecco “Breathless” giungere a noi inaspettata e che, con il suo incedere hard rock, ci farà muovere la nostra bella capoccia, a tempo!!! Del quartetto di brani finale voglio sottolineare il pathos trasmesso dalle note di “Miracle” e I cori “orecchiabili” di “Something about you”. Questo “Alive” è veramente piacevole!!!Devo dirvi che al termine dell’ascolto, mi sovviene un aggettivo:“educato”.

Dion ci racconta di amore, gioia ma anche di turbamento e disperazione con il suo spirito unico che lo contraddistingue. La sua voce,gli strumenti e gli arrangiamenti, si inseriscono nei brani “dolcemente”. Anche le chitarre distorte, si presentano senza mai forzare le dinamiche dei pezzi. La produzione è di gran lunga sopra la media. Ci sono voluti tre anni per la creazione di questo disco. Quindi mi permetto di dirvi,che questo tempo è stato investito alla grande!!.

Insomma: se volete ascoltare un artista che con il suo stile, conferisce emozioni alla musica, senza mai forzare la mano e andare “sopra le righe”……..questo è il disco adatto a voi!!!

Termino rubando una frase tratta dal suo sito ufficiale: “Dion scrive,registra, produce, mixa, suona e fa il mastering della sua musica. Tutto ciò che ascoltate in questo disco: E’ Dion Bayman.

WE ROCK!

 

Wicked Smile – Wait For The Night – Recensione

26 Novembre 2021 2 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Cargo Records

Questi Wicked Smile vengono dale lontane terre d’Australia. Messi su dal chitarrista Stevie Janevski, che milita anche nei The Radio Sun, si sono fatti notare l’anno scorso con l’EP “Delirium” e tornano alla carica quest’anno con il presente full lenght che, in realtà, ripropone i 4 brani dell’EP più sei composizioni nuove di zecca. Scritturati dietro le consoles nientepopodimeno che i Defiants Bruno Ravel e Paul Laine e completata la formazione con il dotato vocalist (di chiare origini italiane!) Danny Cecati, una potente sezione ritmica ed un secondo axeman, i nostri cercano di varcare i patri confini e di ritagliarsi una fetta di notorietà fra gli appassionati del genere… Ecco! Prima domanda che ti salta alla mente quando ascolti questo album: che genere fanno questi ragazzi?

A giudicare dalla prima canzone, “Date with the devil”, una sorta di hard rock quintessenziale, tipo pugno sui denti, con poche concessioni a melodie catchy… aspetta però! Chi mi ricorda quella voce? Soprattutto sugli acuti… Vabbè via con il secondo pezzo. Riffone quasi power e tempo spedito e… Accidenti, ecco chi mi ricordava la voce di Cecati! Questo è il pezzo che gli Iron Maiden avrebbero dovuto scrivere invece di impapocchiarsi con quel mappazzone dell’ultimo disco! Ottimo lavoro delle due chitarre! Resta sempre in territori NWOBHM anche “We fall” con quelle chitarre così Diamond Head che neanche il refrain accattivante riesce a dissimulare. Un arpeggio pulito introduce la doomy “Sign of times”, così oscura da poter ben figuare sul misconosciuto “Born again” dei Black Sabbath di Ian Gillian. Sorprendente! “Daze of delirium” sterza nettamente proponendo uno sleaze metal maschio ma orecchiabile, non distantissimo dai più noti Crazy Lixx. “Killer at large” non si allontana molto dai binari della precedente, anche se Danny non rinuncia ad abbaiare come Dickinson lungo strofa e bridge. “Last goodbye”, sempre grazie al timbro del cantante, assume le fattezze di un ibrido fra Helloween e Place Vendome che non dispiace. “Love’s got a hold on you” merita la palma per il ritornello di maggior presa dell’intero disco. Una delle mie preferite. Mentre, nonostante sia decisamente un appassionato di lenti, non mi fa impazzire l’acustica “Don’t wait for me”, un po’ troppo banalotta a livello di melodie. Piace invece la conclusiva “Stronger” con quel bel giro di chitarra e la voce incazzosa di Bruce… ehm, scusate, Danny che fa crescere il tasso di adrenalina ad ogni strofa.

Insomma ragazzi, questo quintetto di canguri ha le carte in regola per farsi notare. Un frontman dotatissimo, un axeman coi fiocchi, una produzione al di sopra di ogni sospetto… Secondo me devono solo riordinare un po’ le idee, amalgamare le influenze che ogni membro della band porta con sè e confezionare il prossimo disco in modo più organico rispetto a questo. Perché, se vogliamo trovare un difetto a “Wait for the night”, qui ci sono canzoni che sono parecchio distanti fra loro a livello di genere. Tanto da disorientare un po’ l’ascoltatore e impedirgli di dare un giudizio complessivo sull’album, costringendolo a scegliere se preferisce i pezzi più maideniani o quelli più skidrowiani. In ogni caso è un esordio più che degno di essere ascoltato e riascoltato!

Tony Mitchell – Hot Endless Summer Nights – Recensione

25 Novembre 2021 0 Commenti Vittorio Mortara

genere: Aor
anno: 2021
etichetta: Aor Heaven

Vi avverto: la title track, brano di hard/AOR piuttosto scialbo che apre l’album, potrebbe scoraggiare l’ascoltatore e fargli pensare di trovarsi davanti all’ennesima uscita mediocre. Ma non arrendetevi subito! Proseguendo l’ascolto, già la successiva “Can’t fight it” corregge il tiro, infilzandoci con una solista acuminata, stordendoci con un refrain di grande presa e facendoci tornare la voglia di ascoltare! Godibilissimo l’arena rock dell’autobiografica “Blame it on the rock’n’roll” dove il Rogue Gallery Rock Choir rinforza le parti cantate donando maestosità all’intera composizione e flirtando con il Queen-style. Ballatona romantica, “Strong enough” permette a Mitchell di mostrarci di che pasta è fatta la sua calda ugola, ancora una volta spalleggiato dal Choir. La ritmata “Drowning in a sea of paradise” ci schiaffa in faccia un altro brano di AOR stilisticamente perfetto e ben interpretato. Ma se avevate messo già via i fazzoletti, tirateli di nuovo fuori perché il testo malinconico di“Caught in the headlights” unitamente all’interpretazione sentita di Tony fanno ricomparire la classica lacrimuccia. Tastiere alla Jean Michel Jarre introducono la futuristica “Under a neon sky”, riuscitissima ed orecchiabile, mentre il sax che apre “Leave the world behind” richiama alla mente le migliori composizioni del Boss e ci fa guidare felici fra i campi del Tennesee. Gran bel pezzo! E poi, visto che ultimamente si parla spesso e volentieri di plagi, ascoltatevi “Turn back time” e ditemi a quale classico somiglia “leggermente”… Vi do un indizio: è un brano di un multi platinato album di una band inglese uscito una trentina di anni fa in cui milita un drummer con un braccio solo… Comunque sia io lo ritengo un pezzo bellissimo! Se proprio vogliamo, anche l’incipit di “With you in a heartbeat” potrebbe ricordare quello di “Rock me Amadeus” di Falco, ma la voce di Tony che fa il verso a quella dell’immenso Blackie Lawless ed il coro senza tempo ne fanno una brillante gemma AOR. Come tradizione, nei propri album solisti Mitchell ci ficca un pezzo più metal, ed in questo caso si tratta di “Faithless”, secondo me accostabile ancora una volta ai Wasp del perido “Headless children”. Super il lavoro delle chitarre! E si chiude con “Calling mother nature”, testo ambientalista assolutamente alla moda, riffone pesante e cantato dissonante. Decisamente non la mia preferita.

Hot endless summer nights” è un bel disco. Non il migliore uscito quest’anno nè il migliore di Tony, che per me rimane il precedente “Church of a restless soul”, più vario e privo di riempitivi. Non ho amato il suo primo gruppo, i “Kiss of the gipsy”, né mi ha fatto impazzire la sua esperienza con i Dirty White Boyz, ma i suoi ultimi due album mi sono proprio piaciuti. Le marce in più sono il grandioso lavoro della solista di Meakin, l’apporto del coro ed i pezzi ben confezionati. La produzione ed i suoni sono buoni ed il resto della band non da adito a critiche. Esperienza, idee chiare e classe superiore. Per cui, ragazzi, che altro dire: io ve lo consiglio proprio. Vai Tony!

L.A. Guns – Checkered Past – Recensione

23 Novembre 2021 2 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Ho sempre reputato gli L.A.Guns la band più accreditata per lo scettro dello sleaze rock da sunset strip, ancor di più dei “cugini” Guns’n’Roses, ai quali, ricordiamo, sono legati dal passato di Tracii e Axl nella prima incarnazione degli L.A.Guns stessi e poi, anche nella prima dei Guns’n’Roses. Il debutto del 1988, a mio parere, è un album bomba, il cui street rock viene portato a livelli di voltaggio massimi, doppiato poi dall’altrettanto vigoroso “Cocked and loaded” e ho sempre ritenuto leggermente spropositato il successo della band di Axl, se visto in rapporto alla qualità dei primi due di quella di Tracii, oltretutto coadiuvato da altrettante grandi personalità quali l’ex Girl Phil Lewis alla voce, classico esempio di screamer vigoroso e melodico al tempo stesso e dell’ex W.A.S.P. Steve Riley alla batteria. Ora, come sappiamo tutti, Riley non fa più parte della band, ma porta addirittura in giro la sua incarnazione, mentre i due ex litiganti Phil e Tracii, che ricordiamo si erano addirittura accapigliati in sede legale, hanno sotterrato l’ascia di guerra già da qualche anno e, con questo “Checkered past” sono arrivati già al terzo album post reunion e come per i due precedenti “The missing peace” e “The devil you know”, ci ritroviamo con una band in piena forma, che gira a mille, con rinnovata energia, nonostante il “passato burrascoso” di cui si parla proprio nel titolo dell’album.

Si parte subito a manetta, con “Cannonball”, la classica apertura al fulmicotone, tipica degli LA Guns, rock’n’roll ad alto voltaggio con la loro sfrontatezza punkeggiante, basti sentire il breve assolo di Tracii, subito doppiata dal blues lascivo di “Bad luck charm”, quindi triplicata con “Living right now” e qui siamo in territori quasi punk, soprattutto grazie all’approccio vocale di Phil Lewis. Finalmente, dirà qualche mollaccione tra i tanti che leggono queste righe, si rallenta un po’ e con la bella ballad semiacustica “Get along”, si ritorna a respirare le atmosfere hair metal di “It’s over now” (tratta da “Hollywood vampires”) e subito dopo ecco “If it’s over now”, che, almeno nell’incedere del brano, ha ben pochi collegamenti con quello del 1991, difatti si tratta di un’altra ballad, ma dal sapore goticheggiante, a mio parere l’highlight dell’album, ariosa nonostante le atmosfere quasi cupe e malinconiche, uno di quei pezzi che ti invoglia, da solo, all’acquisto del disco!
Dopo così tanto ben di Dio, ci sta anche un piccolo calo, che in effetti c’è, anche se comunque “Better than you” e “Knock me down”, pur non spiccando sul resto, non sono assolutamente da buttare, con due bei riff portanti, ma riecco gli L.A.Guns più sporchi con “Dog”, praticamente una “Cannonball” parte due, già dal titolo e dalla produzione più “sporca”, si capisce che siamo in territori sleaze-punk, attitudine che cambia subito con “Let you down”, altra ballad dal sapore dark, con un arpeggio che sa quasi di post metal, ma proprio qui sta la bravura degli L.A.Guns, nel far risultare naturale una tale trovata nel genere street-sleaze e dopo la “normale” “That ain’t why”, caratterizzata da un riff che sa di nwobhm, ecco la chiusura affidata al brano più heavy, al limite dello stoner/doom, con tanto di riffone che sembra uscito dalla penna di Tony Iommi, tanto ricorda l’incedere di “Electric funeral”!

Insomma, se Tracii & c. sono ancora qui a prendere tutti a calci in culo dopo quasi 40 anni, più di un motivo ci sarà ed è sotto i nostri occhi e le nostre orecchie, se ancora questi immarcescibili rockers non ancora imborghesiti e/o imbolsiti come i loro già citati “cugini” e riescono a tirar fuori un disco così vario ed energico, dove anche Phil Lewis riesce tuttora, nonostante sia vicino alle 65 primavere, a regalarci una prova di sicuro spessore, beh, allora c’è ancora speranza per il vero rock’n’roll!

Robbie LeBlanc – Double Trouble – Recensione

19 Novembre 2021 2 Commenti Vittorio Mortara

genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Escape

Nuovo deal post lockdown per Robbie LeBlanc con Escape music per questo album, “Double Trouble”, che intende discostarsi dalle produzioni di Find Me, Blanc Faces e East Temple Avenue per proporre un sound più strettamente legato alle influenze anni 70 e 80 del nostro eroe. Insieme a Robbie nel progetto sono stati coinvolti i mostri sacri Steve Overland e Tommy Denander che hanno contribuito sia come musicisti che come compositori e produttori. La sezione ritmica è al di sopra di ogni sospetto, contando sulla batteria di Michael Lange e sulle quattro corde di Brian Anthony. Insomma ci sono tutte le premesse per poter ascoltare un prodotto di alta qualità. E la qualità c’è, eccome, a livello di tecnica e di suoni, con il vocione graffiante di LeBlanc che domina in lungo e in largo tutte le 13 tracce.

Siamo dunque di fronte al classico chef d’oeuvre? Mah, per chi vi scrive, direi di no. Ci sono due o tre fattori che rendono l’opera un po’ troppo stucchevole, al limite del noioso, e che non spingono l’ascoltatore a premere ancora play… Il primo è il songwriting, che a me non sembra particolarmente ispirato e “sentito”. I pezzi sono dei bei pacchettini, confezionati ed addobbati con maestria, ma mancano di presa sull’ascoltatore e si fatica a ricordarne uno piuttosto che un altro. Il secondo è la eccessiva overlandizzazione del sound: la voce di Steve è un po’ troppo invasiva in tutti i controcanti e, alla fine, contribuisce a rendere difficile la individualizzazione delle singole canzoni. Terzo, è vero che Robbie LeBlanc ha un’ugola d’oro, perfettamente a cavallo fra Bobby Kimball e Toby Hitchcock, però l’uso che fa del timbro aggressivo in tutte le canzoni, tirando le somme, rende l’insieme piuttosto pesante. Meglio sarebbe stato cercare di variare un pochettino a seconda del pezzo, in modo da valorizzare maggiormente il fattore interpretazione. Quindi, secondo me, questo è il classico disco che, sulla carta, dovrebbe spaccare, creando grandi aspettative, e poi, alla fine, delude. Mi riesce un po’ difficile citarvi una canzone piuttosto che un’altra, ma senz’altro la prima metà del lavoro è la migliore e la più varia, cominciando con le FMesche “Start the motor running” e “Temptation”, continuando con le danzerecce “Never let a good thing go” e “The sound of the city” e citando il lento soul “Pure” e lo spirito pop di “Just say the word”. Il resto è difficile da ricordare ed è un melange poco efficace di Toto, FM e certo pop rock inizio anni 80. Musicisti e suoni di valore assoluto, quindi, ma mancanza di incisività e una certa monotonia della proposta. Consigliato solo ai fans del cantante americano.

 

NOTA DI REDAZIONE: Sappiamo benissimo, come qualche lettore ci ha fatto notare,  che il disco è uscito oramai da molto tempo, ma purtroppo non ricevendo più promo ufficiali dalla Escape, per riuscire a fornire un servizio d’informazione adeguato, provvediamo al reperimento degli album da recensire a nostre spese e quindi con tempi ben diversi rispetto alla data di pubblicazione ufficiale. Ci scusiamo con i nostri lettori per questi ritardi e disguidi e ringraziamo per il continuo supporto.

La redazione di MelodicRock.it

Phil Vincent – Stigmata – Recensione

18 Novembre 2021 2 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Rock Company

Corrono voci che questo sia il ventitreesimo album in studio come solista di Phil Vincent. Quindi, senza contare i vari Tragik, D’Ercole, Legion… Insomma, il polistrumentista americano non è certamente uno che ama starsene con le mani in mano. Io, personalmente, lo conosco così così: ho ascoltato solo alcuni dei suoi album, con alterne impressioni. Alcuni vertono sul progressive, altri, come quelli dei Tragik, li trovo inascoltabili, vuoi perché sono prodotti very low budget, vuoi perché i pezzi non mi convincono gran che. Certi altri ancora, soprattutto solisti, mi sono piaciuti di più, in virtù di un songwriting gradevole. Così, nell’ambito di una operazione “svuota cantine” mirata a recensire gli album giacenti in redazione, ho pensato di dare qualche ascolto a questo “Stigmata”, con l’intenzione di farne una veloce disamina. E alla fine, mi sono ritrovato per le mani un disco che proprio male non è. Premettiamo che, purtroppo, ancora una volta la qualità della registrazione è scarsa, al limite della decenza. Ma le canzoni sono mediamente belle, con un paio di brani che svettano nettamente. Il genere proposto è un hard rock melodico canonico, guitar oriented, con solo una vaga influenza prog qua e la. Sembra quasi di ascoltare i Crack The Sky di “Dogs of dog city”. I musicisti del progetto non sono dei fineurs e tendono a picchiare come fabbri i propri strumenti. La voce di Phil, virante al caldo ed un po’ monocorde, non stupisce con effetti speciali. Tuttavia l’insieme corre via piuttosto gradevolmente. Dallo strano riff di tastiere dell’iniziale “No end in sight” alla progressiva “The darkness”, passando per la easy listening “Time” e per la dura “My life”, si arriva al primo picco: “It don’t matter anymore” è hard/AOR ben strutturato, epico nella parte corale. Bella. Poi, passando per il rocker “Hideaway”, arriviamo alla mia favorita, il lento hard/blues/prog “So tired” dove influenze Pink Floyd si mescolano a Gary Moore ed ai Beatles, con un paio di assoli clamorosi dell’ospite Janne Stark. Capolavoro. C’è ancora posto per l’anonima “Don’t turn your back”, per la canonica cover di “Eleonor Rigby” dei fab four e per la conclusiva popeggiante “Reason to believe”, piacevolissima nelle linee vocali.

Insomma questo disco non è brutto. A patto che non si consideri la qualità discutibile di registrazione e missaggio e non si ricerchi in alcun modo il funambolismo strumentale. Io l’ho ascoltato volentieri. A voi il giudizio.

Crazy Lixx – Street Lethal – Recensione

17 Novembre 2021 9 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers

A due anni di distanza torna la macchina del tempo di Danny Rexon, pronta a catapultarci nuovamente nei favolosi anni ’80. Il pilota automatico è saldamente inserito sulle coordinate disegnate un tempo dai vari Europe, Bon Jovi e Def Leppard. Dopo aver scritto a piene mani il debutto della sorprendente Chez Kane, il cantante/autore svedese infila una serie di pezzi “anthem” capaci di buttare giù dal divano il più acceso fan dei Maneskin!”.

Pit stop: ringrazio il caro Nico D’Andrea che mi ha autorizzato a condividere un suo commento social, diventato punto di partenza della mia recensione.

Riparto, ma da un aspetto negativo, oggettivamente, la copertina dai colori infuocati è bruttina come quella del precedente “Forever Wild”. Tralasciando la parte meramente visiva, il contenuto ripercorre quanto già positivamente apprezzato nella precedente uscita discografica che, personalmente, io preferisco alla presente.

Dopo un interessante e “tastieroso” intro filonipponico, si parte con i primi due singoli che rispecchiano alla perfezione lo stile del gruppo svedese; “Rise above” e “Anthem for America” rappresentano il trademark della band con chitarre taglienti ed una ricerca del coro che acchiappa. Con “The power” abbiamo grandi richiami ai cori dei Def Leppard mentre si sentono echi dei Journey nella successiva ed ultra-melodica “Reach out”. L’intro in stile “Top gun” di “Final fury” precede la carica letale della title-track. La ruffiana “Caught between the Rock n’ roll” e la ballatona “In The Middle Of Nothing” sferrano due colpi da KO sul ring della melodia. Sprint finale degno del miglior Cipollini. Non deludono, anzi ci spiazzano in positivo, le ultime due tracce. “One Fire – One Goal” dal ritornello azzeccato e la conclusiva “Thief in the night” dall’intro ottimamente costruito, come pure il suo incedere melodico in pieno stile anni ’80.

Conclusioni:

Danny Rexon & Co. piazzano un altro buon colpo sulla “Street Lethal” della musica rock degli anni’80. Alla prossima destinazione, preferibilmente, non letale .

Groundbreaker – Soul To Soul – Recensione

17 Novembre 2021 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Aor
anno: 2021
etichetta: Frontiers

Per ammissione dello stesso Steve Overland agli albori del progetto Groundbreaker, era tempo che non si ritrovava ad interpretare canzoni dal taglio così marcatamente 80’s. Band nata 3 anni fa, voluta fortemente da Serafino Perugino, Mastermind di casa Frontiers, rispetto all’esordio la line-up vede un cambio rilevante alle 6 corde; Robert Sall (Work Of Art) viene sostituito dall’altrettanto esperto Sven Larsson, ex Street Talk.

Overland rimane un fuoriclasse per timbro e capacità interpretative, stacanovista per quantità e variabilità dei progetti che lo coinvolge tutt’ora. Se con la band madre ha maggiormente virato su un suono hard blues riconducibile a dischi quali ‘Takin’ It To The Street’ e ‘Dead Man’s Shoes’, la sua carriera solista rimbalza tra le sfumature delle nostre amate sonorità, talvolta annesse al Melodic Rock (‘Contagious’) talvolta più minimali ed intimiste (‘Scandalous’), sfiorando l’Hard Rock a la Bad Company coi Lonerider, tralasciando gli innumerevoli progetti a cui ha imprestato la sua voce, esclusiva e arduamente riproponibile.

Si parte col singolo “Standing on The Edge of Broken Dream”, la quale recupera i toni frizzanti e romantici che gremivano l’album di debutto. Dopo la riuscitissima Title Track, spazio al primo vero highlight del disco: “Captain of Our Love”, suggestiva, cospicua di sentimenti, riprende la struttura di “Something Worth Fighting For” (dal debutto) riproponendone l’apice emotivo. La semi ballad “Wild World”, ammiccante ed in grado di evidenziare il gusto europeo per la scelta delle linee vocali, suona come un eccellente outtake di ‘Indiscreet’. Strepitosa la ritmica di “Carrie” scandita dal cantato immediato e dall’ennesimo assolo di chitarra sontuoso che si congiungono in un brano che avrebbe meritato di uscire come singolo. “There’s No Tomorrow” apre con un giro di tastiera aggressivo ed immediato che tanto, troppo ricorda “Can’t Turn It Off” di Micheal Bolton, sviluppandolo oltre ogni perplessità in modo personale. Ancora FM era ‘Though It Out ’con le finali ed ispirate “When Lighting Strikes” (assolo Stupendo !) e “Til The End Of Time”, qualitativamente superiori alla media di due qualunque brani posti in chiusura di un qualunque disco uscito quest’anno.

A conti fatti strofe e ritornelli vincenti non vengono meno come alcune scelte armoniche talvolta prevedibili ma azzeccate, idonee allo scopo del disco. Non ci sono veri e propri filler e laddove il livello del songwriting cala, ci pensa Steve Overland a riportare il brano in binari adeguati. Un applauso al lavoro svolto da Sven Larrson nel riempire di tonalità ogni dipinto presente all’interno della scaletta. Rispetto all’esordio da evidenziare un passo avanti nella produzione e un songwriting maggiormente coeso che rendono il disco più omogeneo dopo ripetuti ascolti e ricco di sfumature da scovare. Tralasciando attributi approssimativi con cui bolliamo molte uscite discografiche, alcuni progetti nati negli ultimi anni in campo AOR risultano essere superflui, inutili o quasi, lasciando non pochi dubbi sulla bontà dei propositi.

Groundbreaker e questo ‘Soul To Soul’ NON appartengono alla categoria sopracitata e mostrano quanto sia realizzabile scrivere musica di qualità oggi con una mano rivolta al futuro e l’altra tendente al passato.

Heart Line – Back In The Game – Recensione

17 Novembre 2021 3 Commenti Vittorio Mortara

genere: Class Metal/Aor
anno: 2021
etichetta: Pride & Joy

La Francia può contare su un grosso blasone per quanto riguarda vini pregiati e cibo delizioso. Ma per quanto riguarda il rock… personalmente ricordo i Trust di Bernie Bonvoisin, resi celebri dalla cover degli Anthrax della loro “Antisocial”, i techno deathmetallers Loudblast, autori di una manciata di ottimi album negli anni 90, ed il rocker nazionale Johnny Halliday. In tempi recenti sono usciti dai patrii confini solo la bravissima Zaz, autrice di un pop folk gradevolissimo, ed il rapper Maitre Gims, del quale, personalmente, apprezzo il lavoro. E dalla Francia arrivano anche questi Heart Line, sotto contratto con la tedesca Pride & Joy. Già dalla copertina del disco si evince dove il quintetto transalpino voglia parare. La Corvette sul Sunset Boulevard mette subito le carte in chiaro: la proposta musicale dei nostri verte fondamentalmente su un Class Metal alla Dokken/XYZ più melodici con una spruzzata di Foreigner, ed il singer Emmanuel Shaydon Creis ha indubbiamente analizzato ogni tonalità ed ogni vocalizzo del maestro Don sugli album da “Under lock and Key” a “Back for the attack”. Bravo il chitarrista Yvan Guillevic, efficace nelle ritmiche e dotato di ottimo gusto negli assoli. Le tastiere sono ben presenti in ogni brano e svolgono un ottimo lavoro di edulcorazione del sound. La sezione ritmica fa il suo lavoro senza pecche e senza picchi. Non posso darvi una indicazione certa riguardo la produzione, curata da Guillevic stesso, poiché il promo in MP3 non gode di una qualità degna, ma mi pare che i suoni non siano poi così scintillanti e che la bella voce di Shaydon Creis non venga valorizzata a dovere.

Il brano di apertura “Fighting to live” riassume quanto detto finora: class metal come se piovesse, bella voce e flavour anni ’80. E si fa subito il bis col singolo “One night in paradise” piaciona dalla prima all’ultima nota! In “Hold On” il fantasma di Dokken danza allegramente fra la strofa e il refrain e quello di George Lynch ci saluta in corrispondenza dell’assolo. Atmosferiche keys introducono “I’m in heaven”, brano che si allontana un po’ dalla linea maestra, flirtando con l’AOR scandinavo dei giorni nostri. Piacevole. Così anche “On fire” pare un estratto di un qualsiasi album dei Last Autumn’s Dream. “Back in the game” è AOR un tantino anonimo, fatto salvo il breve ed esplosivo assolo di Yvan. Lo slow “Once in a lifetime” ha nel mirino “Alone again” o “Walk away” ma gli originali sono pietre miliari, difficilmente avvicinabili. Si torna al class guitar oriented con la spedita “Firedance”. I vocalizzi di Emmanuel che aprono “Stranger in the night” faranno correre qualche brivido lungo la schiena dei fan dei Dokken, così come il suo ritornello. Cosa che succederà, d’altro canto, agli adoratori dei Foreigner ascoltando “In the city” per quanto somiglia a “Waiting for a girl like you”. Non mi piace un gran che la conclusione “I long to rise”, troppo ampollosa.

Dunque. Di primo acchito questo lavoro non mi ha fatto impazzire. Però, ascoltandolo e riascoltandolo ancora, credo di averci trovato i germi per un futuro roseo della band. Diciamo che, per ora, sono un po’ troppo legati agli schemi di altre band storiche e, nel confronto, escono inevitabilmente sconfitti. Vuoi per i budget che i mostri sacri avevano a disposizione per produzione e registrazioni, vuoi perché l’amalgama dei musicisti deve ancora essere perfezionata. Però il duo Shaydon Creis/Guillevic ha assolutamente dalla sua una buona tecnica ed un grosso potenziale. Lavorando un po’ sul songwriting e migliorando la qualità dei suoni, secondo me, potremmo sentir di nuovo parlare di loro. Ed in termini decisamente positivi. Per ora godiamoci quello che di buono ci porta questo disco: una ventata di classica musica americana anni ‘80 suonata nel 2021: piacevole all’ascolto ed in grado di suscitare emozioni. Vive la France!