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31 Dicembre 2021 0 Commenti Stefano Gottardi
genere: Sleaze/Rock 'n' Roll
anno: 2021
etichetta: Vallila Music House
Racchiuso in un jewel case d’ordinanza, e con un booklet composto da 12 pagine contenenti foto e testi, sulla nostra scrivania c’è oggi il CD di Sami Yaffa The Innermost Journey To Your Outermost Mind. Al secolo Sami Lauri Takamäki, dopo una vita al servizio di artisti come Michael Monroe, New York Dolls, Johnny Thunders, Joan Jett, Jetboy, Pelle Miljoona Oy, Jesse Malin, Jerusalem Slim, Demolition 23, Fallen Angels e soprattutto Hanoi Rocks, alla ‘veneranda’ età di 58 anni pubblica il suo primo album solista. Accompagnato da una band di amici formata dal batterista Janne Haavisto, e dai chitarristi Rich Jones (The Black Halos, Michael Monroe, Ginger Wildheart), Christian Martucci (Stone Sour), Rane Raitsikka (Smack) e Timo Kaltio (The Cherry Bombz, Cheap And Nasty), il funambolico bassista finlandese mette la sua faccia da rocker navigato in copertina. Quasi un sigillo di garanzia su un disco che, com’era lecito aspettarsi, offre undici canzoni in cui le influenze di Yaffa (The Clash, Rolling Stones) vengono sapientemente miscelate al rock‘n’roll di stampo sleaze, da sempre pezzo forte della casa. Già al lavoro in passato per New York Dolls e Michael Monroe, la penna di Sami è calda e allenata, e pur infilando nel calderone punk rock, funk e persino reggae, firma un platter variegato, ma legato da un filo conduttore che permette a tutta l’opera di mantenere costante una certa coerenza di fondo. Richiamando alla mente qua e là qualche pezzo della storia dell’autore (“Fortunate One”, anche grazie al sax di Michael Monroe non può che far pensare agli Hanoi Rocks, mentre “Germinator” ha dei rimandi ai Demolition 23), così come qualche sua palese influenza (nei solchi di “Armageddon Together” si sentono echi di The Stooges, in quelli di “Down At St. Joe’s” di Rolling Stones e in quelli di “Rotten Roots” di The Clash), il disco si lascia apprezzare per tutti i suoi 43:06 minuti di durata. L’apice viene però raggiunto con “The Last Time”, un convincente rock and roll che potrebbe essere benissimo stato scippato dal songbook dei Backyard Babies, scelto diversi mesi fa per presentare il progetto con un videoclip dedicato.
IN CONCLUSIONE
La voce calda e maleducata di Yaffa marchia a fuoco un debut album incendiario, un vorticoso saliscendi di emozioni, con quell’attitudine che solo certi residuati bellici della scena hard 80iana riescono ancora a sbatterti in faccia, con la sfrontatezza tipica di chi ha perso il conto di quanto whisky ha bevuto la sera prima, ma che da sempre è abituato a dare del tu all’hangover del giorno dopo.
Il chitarrista Timo Kaltio è purtroppo improvvisamente venuto a mancare lo scorso due Settembre, ventiquattr’ore prima dell’uscita di questo disco.
28 Dicembre 2021 2 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Heavy Metal
anno: 2021
etichetta: Metalapolis Records
Piacevole sorpresa questi Twentydarkseven, devo ammettere che non li conoscevo, neanche di nome e mi hanno impressionato favorevolmente. Intendiamoci, non siamo di fronte a dei geni, ne di originalità (ma d’altronde, chi inventa qualcosa oramai?), ne di varietà, ma di certo la band tedesca sa come colpire duro o alzare il piede dall’accelleratore dove e quando serve.
Per gli standard di Melodicrock.it direi che siamo ai limiti, ma è proprio a questo che servo io, a portare alla luce un po’ di muscolarità anche a chi, di solito, non ne mastica, poi può essere una piacevole sorpresa o meno, quel che è certo è che anche nel campo del metal più orecchiabile ci sono molti spunti validi a livello melodico e questo album ne è la conferma. E’ vero che sia a livello di riff, che di voce, anche i Twentydarkseven si rifanno ai grandi del genere, qua e là si scorge George Lynch o Zakk Wylde, come David Readman o Claus Lessmann, ma l’approccio ritmico è sicuramente più moderno e potente, insomma sono dei bei ruffiani, tengono il piede in due scarpe e riescono a mettere d’accordo sia chi cerca la nostalgia, sia chi, come me d’altronde, guarda avanti anche in generi giocoforza retrò. Gli undici brani che compongono il terzo album delle band tedesca spaziano discretamente tra gli umori dell’hard’n’heavy 2.0 senza mai esagerare, le durate non sono mai eccessive e l’incisività ne risente positivamente, si comincia con “Walking high wire”, un bel treno, un’ ottimo inizio d’impatto, per proseguire con “Broken” che presenta un bel ritornello, ma non scontato e senza fronzoli, quindi è la volta di “Hypocrites and parasites” metal strisciante, un pò come gli ipocriti e i parassiti del testo, con “One light burning”, si sfocia in territori quasi thrash su un mid tempo coinvolgente e un bel riff portante, ma ritorniamo nei canoni con “Wing and a prayer”: swing metal, si può dire? Ma il valore aggiunto di questo brano, è l’interpretazione vocale, grintosa come deve essere. Se vi fosse sfuggito che i Twentydarkseven sono tedeschi, ecco arrivare “Dead in the water”, forse il brano più teutonico del lotto, roccioso mid tempo, con intrecci chitarristici che rimandano agli Helloween, “Blame it on the moon” sminuisce le pulsioni “moderne” e sembra di sentire i Black Label Society soprattutto nell’ azzeccatisissimo ritornello, ma è che con “Hideaway”, con un approccio più melodico, che i frequentatori di questo nostro sito troveranno pane per i loro denti, salvo poi trovarsi la strada sbarrata da “Undertow”, altro heavy roccioso, soprattuto nel riff portante, anche se un pò anonimo, per quanto mi riguarda è con “Losing myself”, la quale suona come una versione 2.0 dei Lynch Mob, che i Twentydarkseven sbaragliano il banco, mentre “Night finds you” è la chiusura dell’album col botto, come d’altronde è iniziato, doppia cassa a manetta e atmosfera oscura, come dice bene anche il titolo. In conclusione, questo “Catch a fire” non è un album per palati fini, qui c’è parecchia sana ignoranza, c’è irruenza, ma c’è anche un ottimo lavoro alla sei corde da parte di Marcel “Selly” Bernhardt, cosa che può attirare chi riesce a spingersi un po’ più in là dell’aor o dell’hard rock melodico, dipende da cosa si intende per melodia, dategli una chance…
23 Dicembre 2021 8 Commenti Denis Abello
genere: Melodic Rock/ Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers Music
Due cose sono chiare dopo un ascolto di questi Fans of the Dark. La prima è che i ragazzi sono amanti di un certo horror / thriller raffinato e psicanalitico con brani dai titoli che rimandano ad Oscar Wild (The Ghost Of Canterville) e Alfred Hitchcock (Dial Mom for Murder, in italiano “il Delitto Perfetto” e Rear Windows, “La Finestra sul Cortile”).
La seconda… beh… la seconda è la carismatica voce di Alex Falks, che può piacere o meno, ma è indubbio che abbia una personalità non indifferente con quel taglio aperto e soul.
Detto questo non lasciatevi ingannare dalla copertina che farebbe pensare a degli emuli degli Iron Maiden, ma preparatevi invece ad un concentrato di hard rock melodico caratterizzato da un tratto sempre molto godibile che si mescola a scelte che vanno dal diretto e radiofonico in Life Kills per arrivare a brevi stacchi progressive nell’introduttiva e lunghissima (8 Minuti!!!) The Ghost Of Canterville!
Band nata dalla mente del batterista Freddie Allen, già con gli Houston, che assoldato l’amico d’infanzia Alex Falk e chiuso il giro con il chitarrista Oscar Bromvall ed il bassista Robert Majd, ha deciso di dar vita ad un album che butta l’ancora nel più classico dei mari dell’hard rock grazie alla chitarra di Bromvall che si appoggia ad una velata teatralità grazie ai giochi vocali di Falk che con il suo falsetto rende alcuni passaggi nettamente memorabili.
Un album di soli 8 pezzi, anche se va detto che con due brani che girano sugli otto minuti alla fine il minutaggio totale è quello di un lavoro “standard”, tutti in grado di andare a centro grazie ad un pregevole songwriting, una voce carismatica ed una band di contorno che rema nella giusta direzione.
Che vi lasciate ammalliare dalla teatralità di The Ghost of Canterville e Rear Window, dall’hard rock diretto di Escape from Hell o dal ritmo incalzante di Dial Mum For Murder, The Foreigner o The Running Man, o ancora che vi facciate rapire dalle catchy e radiofoniche Life Kills o Zombies in My Class (a dispetto della sua durata di quasi 8 minuti) sicuramente questi Fans of the Dark potrebbero facilmente stupirvi.
Gran bella sorpresa e sicuramente tra le cose più originali che ci lascia in eredità questo 2021… senza contare il valore aggiunto della voce di Alex Falk, assolutamente anacronistica per il genere proposto!
22 Dicembre 2021 2 Commenti Giulio Burato
genere: Melodic Rock/Aor
anno: 2021
etichetta: Frontiers
Prendo (parzialmente) spunto dalle prime righe scritte del mio collega Samuele Mannini nella recensione dei sorprendenti CAP OUTRUN: “Non si può fare uscire una bomba del genere a metà dicembre”.
Non siamo qui ai livelli della band di Chandler Mogel, ma questo “In my dreams” è ugualmente una piacevole sorpresa come ultima (mia) recensione del 2021.
ZELBO è il nuovo progetto ideato dal tastierista norvegese Dag Selboskar, esperto musicista della scena scandinava che ha esordito con i Da Vinci a metà degli anni ’80. Accanto a lui, l’amico di lunga data Ken Ingwersen, un chitarrista che ha iniziato la sua carriera a metà degli anni Ottanta lavorando per Evenrude ed in seguito con Rags e Street Legal, prima di unirsi in modo più permanente alla band di Ken Hensley (Uriah Heep); il cantante Frode Vassel ed il batterista Sturla Nostvik.
L’album ha una chiara matrice A.O.R. scandinava, ampiamente condito da tastiere. I gruppi di riferimento nel settore sono Da Vinci, TNT, Work Of Art e i recenti Houston, giusto per citarne alcuni. Tra le prime canzoni in scaletta, sono presenti anche i primi due singoli “Fortune & Fame” e la bella “Phoenix rising”, quest’ultima molta vicina agli scandinavi Houston (scusate il giro di “città americane”), che rendono già chiari gli intenti musicali dei ragazzi norvegesi. Senza scendere ad una narrazione track by track, segnalo la coinvolgente e progressiva “Head’s down”. A ruota seguono la tastierosa “In my dreams”, “Get up get over it” con l’organo che fa molto PURPLE zone e i richiami ai Survivor presenti in “Waiting for the end”, titolo perfetto per la conclusione dell’anno in corso.
Le delicate “Beautiful Flyaway” e “Small town girl”, sono due cioccolatini da gustare davanti all’albero di Natale, anche se la palma di dolce natalizio va alla ballad “Wild young and free”, dalla bella prestazione vocale di Frode Vassel.
“In my dreams”, e nella realtà, auguro ai cari lettori, Buon Natale e felice 2022.
21 Dicembre 2021 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Metalpolis
Ultima chicca da recuperare del 2021: a maggio è uscito il quinto album di studio dei Sergeant Steel, la band austriaca più importante di questo periodo, che propone un sanissimo e conturbante hard rock.
Insolita partenza con la turbolenta “Fight Fire With Fire”, dall’intro immersiva e dalla ritmica quadrata, che da subito delinea le linee generali dello stile della band, ovvero voce graffiante e parte strumentale molto compatta. Si passa alla successiva “Backseat Lover”, dalla trama molto funky, un ottimo esempio di come si possano mischiare generi e influenze diverse per ottenere un grande prodotto finale. Con “Dance Into The Light” viaggiamo su orizzonti più rock’n’roll, con un groove molto tradizionale e canonico, che comunque riesce a spingere al punto giusto e a rendere l’ascolto molto gradevole nel complesso. Arriviamo alla lente e introspettiva “Brotherhood”, brano dolce e dall’accentuatissima carica emotiva, corale, che dimostra ancora una volta la grande varietà espressiva dei Sergeant Steel. “Voodoo Queen” riaccende la miccia, sprigionando una potenza esecutiva devastante, con il suo tappeto ritmico martellante e il ritornello che immediatamente rimane impresso nella mente dell’ascoltatore. Strizziamo l’occhio agli anni ’80 con “Body Language”, pezzone hard rock tosto e diretto, per un palato nostalgico, che comunque, grazie ai suoi stacchi, risulta gradevole e divertente. Giungiamo alle atmosfere misteriose e oscure dell’ironica “Pain In My Ass”, gradevole intramezzo che leggero e malizioso si riversa nella successiva “Hunter”, decisamente più aggressiva, dalla dinamica improbabile e dalle cadenze ben definite. “The Time Will Come” disorienta inizialmente, per poi rapire dolcemente l’attenzione dell’ascoltatore, una ballata suadente e riuscita in ogni sua sfaccettature. Arriviamo a “Nightmare”, brano classico per forma e resa, una conclusione degna di un lavoro di ottima fattura, perfettamente aderente al genere e alla band, che non può far altro che confermare le sensazioni positive sull’operato di questa interessantissima compagine austriaca, pronta e matura per proseguire fieramente la propria carriera.
21 Dicembre 2021 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: GMR Music
Per gli instancabili dell’heavy rock, un’uscita interessante è rappresentata dall’album di debutto degli svedesi Steel Rhino, band solista del batterista ex– Dirty Passion Mikael Rosengren.
Partenza che non smentisce le impressioni generali sull’album: “Rhino Attack” possiede una ritmica serrata, semplice ma efficace, un tappeto suadente e martellante in pieno stile heavy. Arriviamo alla successiva “Arrival”, che strizza l’occhio alle sonorità vocali di Accept/Udo, che della sua linearità fa il proprio punto di forza, rivelandosi coinvolgente e tutto sommato orecchiabile. Dai toni più rockeggianti, “Lovin Easy” presenta una bellissima intensità, soprattutto nel ritornello che si imprime senza troppe difficoltà nella memoria dell’ascoltatore. Arriviamo alla title track “Steel Rhino”, brano emblematico e caratterizzante per la band e per il suo stile, ovvero una dimostrazione concreta di cosa siano gli Steel Rhino. Senza troppi arzigogoli, soprattutto nel reparto chitarre, ci imbattiamo nella potentissima “Bells Of Midnight”, oscura e pestata al punto giusto. Aumentano i battiti con “Fire And Ice”, una bella e piacevolissima cavalcata metallara, sempre condita da un ritornello sempre particolarmente azzeccato e corale, vero punto a favore del pezzo e dell’album complessivamente parlando. “Ghost From The Past” prosegue sull’onda della traccia precedente, con una bellissima trama musicale farcita da una gradevole parte vocale, sempre azzeccata e coinvolgente. Epica e solenne, arriva il turno di “Sands Of Time”, quadrata e titanica, che cede il passo a “Life We Choose”, sempre tonante e dall’atmosfera crudele e tagliente. “Boom Boom” non strabilia particolarmente e apre le porte alla conclusiva “New Tomorrow”, un vero e proprio inno, solare, arioso, una degna traccia finale per un album senza troppe pretese, che ancora una volta certifica la regola del “less is more” e comunque risulta molto fruibile e globalmente piacevole.
15 Dicembre 2021 18 Commenti Samuele Mannini
genere: prog/melodic rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers
Questi Cap Outrun mi hanno fregato. Non si può fare uscire una bomba del genere a metà dicembre, quando oramai avevo già chiuso la mia top ten dell’anno e scombussolare così le mie solide certezze. Avevo ascoltato distrattamente la title track mentre recensivo un altro disco e fatalmente quelle atmosfere alla Night Flight Orchestra non avevano fatto breccia nel mio cuore, quindi oramai ero tranquillo. Quando successivamente, accingendomi a recensirlo ho avuto modo di ascoltarlo con la dovuta perizia….. succede che sto ancora cercando la mia mascella caduta chissà dove. Quindi prima di apprestarmi ad analizzarlo in profondità vi do un consiglio, mettetevi a vostro agio, caricate il cd e preparatevi all’estasi. Ho sentito gente che gli paragona agli ACT, qualcuno ci sente i Rush e se proprio volete ci potete sentire anche ispirazioni provenienti dai Caligula’s Horse meno duri, ma per me che adoro queste commistioni sonore tra progressive e melodic rock/aor, la band che prepotentemente salta alla memoria sono i The Quest e credetemi, ho aspettato un disco del genere dal 1996 data dell’uscita di Change ( Recensione QUI).
Tutto quello che conosco della band viene dalle scarne note che accompagnano il promo. I Cap Outrun nascono nel 2007 da una idea di Andrée Theander (chitarre) ed Erik Wiss (tastiere), mentre studiavano musica e produzione sonora in Svezia. La band ha pubblicato un EP autoprodotto dal titolo “Influence Grind” (che vi consiglio di ascoltare su You Tube perché merita) nel 2008. Dopo un lungo periodo di pausa Andrée ed Erik hanno deciso di resuscitare la band, con una line-up ora integrata da: Chandler Mogel (Outloud) alla voce, Carl Tudén alla batteria (ex-Creye) e Linus Abrahamson al basso (ex-Constancia).
Quello che questi ragazzi sono riusciti a fare è semplicemente meraviglioso, sono infatti riusciti a mischiare parti strumentali estremamente complesse, articolate ed intelligenti con ritornelli super Catchy tipici della migliore tradizione scandinava e mentre i The Quest esplorano il lato più malinconico di queste sonorità, i Cap Outrun si rivolgono verso una direzione più spensierata e luminosa, non che in certe canzoni manchi l’introspezione, ma è tutto visto con un occhio, passatemi il termine, più ottimista. Ascoltate l’opener Crazy Enough per farvi una idea di quello che vi aspetterà, struttura funkeggiante ed articolata con ritornello al fulmicotone. Della title track ho già detto, melodic rock di impronta scandinava, carino, ma forse il pezzo più scontato del disco. Le vere meraviglie cominciano ad arrivare adesso, la pianistica Disaster Mindset, mischia il prog ad atmosfere intime e delicate, In The Shade Of The Masquerade è veramente The Questiana, ascoltate le aperture e le arie di questa canzone e se non provate una profonda emozione mi dispiace molto per voi. Shadow On The Wall è un gioiellino di più di nove minuti che racchiude il genio di questo combo, giri progressive mediati da inserti vocali preziosi ed il solito ritornello fulminante, 10 e lode. Our Brightest Day, è più riflessiva e soffusa mentre My Destination esplora il lato fusion esplodendo in un ritornello bomba. Estremamente originale la jazzata Run Before We Walk, mentre il prog si fonde ad atmosfere bluesy in As Long As You Believe. Chiude la strumentale Dopamine Overflow, un vero e proprio orgasmo per chi ama queste sonorità e lo dice uno che gli strumentali di solito non li digerisce.
Che dire…. Sono veramente contento di essermi occupato di questo disco, che mi piace in tutto e per tutto. La produzione è soddisfacente pur essendo moderna e Dio solo sa cosa sarebbe potuto essere se affidata ai producer di un tempo, ma è proprio per andare a scovare il pelo nell’uovo di un disco praticamente perfetto che cresce sempre più ad ogni ascolto. In tre giorni oramai l’ho ascoltato 10 volte….beh dai finisco qui e premo play per l’undicesima volta.
13 Dicembre 2021 3 Commenti Max Giorgi
genere: Melodic Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers
Gentili lettrici e lettori di www.melodicrock.it, il nome Jim Peterick, non può che suscitare nella persona che sta scrivendo questa recensione, ed in tutto il popolo che ama la musica (e non solo il melodic rock), fortissime emozioni. Nella sua lunghissima carriera ha saputo creare perle di rara bellezza. Già nella seconda metà degli anni ’60, entra nelle chart americane con gli Ides of March, poi consegna alla storia una delle più grandi band di melodic rock/AOR, i SURVIVOR. Arrivando fino ai tempi più recenti con i Pride of Lions. Centinaia di collaborazioni e canzoni scritte, suonate e prodotte. Insomma, possiamo tranquillamente definirlo un’ icona del rock business. Ma la sua voglia di creare non si è esaurita nemmeno in questi anni: ed ecco prendere corpo il progetto “World Stages”, una specie di all stars band, in cui i più grandi artisti (soprattutto, ma non esclusivamente, della scena americana ed in particolar modo dell’Illinois) di Hard Rock, Melodic Rock, AOR ed affini vengono coinvolti nell’interpretare brani “confezionati” apposta dal grande Jim, per loro. Come potrete comprendere dal titolo, in questo capitolo la fanno da padrone le donne. Non solo grandi voci ma anche grandi musicisti come Jennifer Batten (guitars, M. Jackson), Linda Mc Donald (drums, The Iron Maidens), Mindi Abair (Sax) e Sina (drums). In questa moltitudine femminile, vengono concesse anche alcune “quote azzurre”, due nomi su tutti Mike Aquino (Pride of Lions) ed uno dei miei chitarristi preferiti, Joel Hoekstra (Whitesnake).
Diciamo che con tutte queste premesse, mi sono messo all’ascolto con grandi aspettative. Apre le danze la title track “Tigress” con un’ intro decisamente tribale e la chitarra della Batten sugli scudi. Canta Kate French (ex Chastain) che svolge benissimo il suo compito, mettendo in evidenza tutta la forza ed epicità della sua voce. Brano sicuramente interessante, degno di nota il duello musicale a suon di note tra Batten ed Abigail Stanshmidt (violino). Secondo brano e si arriva alle vette che solo il grande Jim può raggiungere. “Prom Night in Pontiac” cantata dalla bravissima Chloe Lowery è il tipico brano melodic rock con qualche rimando quà e là al country rock, che coinvolge immediatamente chi ascolta. Ok! Diciamo che chi ben comincia è a metà dell’opera. Forse…….
Ora al microfono troviamo l’inglesina Chez Kane, per molti una delle rivelazioni di quest’anno. Per molti ma non per il sottoscritto. Purtroppo la sua voce non mi piace per niente, ed anche in questo caso, non mi fa gustare “A Cappella” che è sicuramente il brano più “ruffiano” e commerciale del disco, ma che non riesce assolutamente a convincermi. Forse con un altra interprete avrei avuto impressioni differenti. L’ombra dei primi Survivor fa capolino dietro alle note di “Living for the Moment” cantata da Cathy Richardson. Anche in questo caso, nonostante la buona prova vocale, il brano non decolla (malgrado una grande Mc Donald). Il livello si rialza con la prova di Rosa Laricchiuta (roster Frontiers) in “Agaist the Grain”, un brano hard rock che ci rimanda allo stile di scrittura di Pride of Lions memoria.
A quanto pare la caratteristica di questo lavoro è di avere un po’ di alti e bassi a livello di songwritin. Ed in questo ottovolante tocchiamo nuovamente alte vette con la ballad “Strong Against the Wind” interpretata egregiamente da Kate Franch che torna ad esibire tutta la sua grinta. E poi giù il cappello, per la grandissima prestazione di Joel Hoeckstra. Gran brano!!!!!
Si ripresenta nuovamente, Cathy Richardson con l’hard rock di “Full Moon Crazy” ma questa volta la canzone non coinvolge più di tanto, e sarà una caratteristica che accomunerà anche altri brani di questo Tigress. Fermi tutti! Il momento che aspettavo è arrivato. E’ il momento di Janet Gardner!! Penso che le presentazioni siano superflue. Basta dire solo un nome: Vixen!!! Il brano che interpreta, “Lazarus Heart”, non lascia il segno, si sente spesso che la voce della cinquantanovenne, natia dell’Alaska è messa a dura prova. Ma comunque nei toni medi la bellezza, il calore ed il fascino della sua voce rimangono quelli di un tempo! Taller (cantata da Leslie Hunt), The best in Us ( Cathy Richarson – Kimi Hayes) e Dear Life ( Lindsay Kent) passano decisamente inosservate.
Ma ora è giunto il momento di “Walk Like Royalty” (Kimi Hayes). In assoluto il brano più ispirato del disco. Le melodie dei Survivor si mescolano a parti orchestrali che ci rimandano ai teatri di Broadway. Kimi, ci mette tutto il suo talento per far scorrere dei brividi sulla nostra dura pelle da rockers (e ci riesce benissimo). E mentre ascolto questo brano penso a come sarebbe stato bello sentirlo cantare da Jimi Jamison (quanto ci manchi………). Non me ne vogliate, ma per me questo lavoro finisce quì . Gli ultimi brani non mi hanno per nulla convinto. Anzi no, ancora una menzione la merita “Brave is Beautiful” ( Leslie Hunt), una dolce ballad che tocca il cuore, con una bellissima chicca finale: il solo di sax di Mindi Abair che mi porta alla memoria i grandissimi Boulevard!!!!
Come concludere questa recensione? Beh, io sono di parte, amo alla follia questo uomo. Se ho dedicato tutta la mia vita alla musica è anche merito suo. Ora devo pensare a che voto dare a questo “Tigress”. Nel mio cuore direi 100. Ma se cerco di analizzare con la mente sgombra dai sentimenti, questo è un lavoro con molti alti ma anche con diversi bassi. Forse 16 canzoni sono troppe per garantire una qualità alta, costante. E forse può anche capitare di non avere sempre l’ispirazione al massimo. E forse…….. di ciance ne ho fatte fin troppe. Ed allora sapete che vi dico? A prescindere dai numeri è un disco di Jim Peterick…..VA ASCOLTATO!!!!!!!!!!
We Rock.
09 Dicembre 2021 3 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Frontiers
Sta per finire l’anno, ma qualche gradevole sorpresa ci si prospetta anche nel periodo natalizio. Una di queste, a mio avviso, potrebbero essere proprio i Land of Gypsies.
Questo ennesimo progetto targato Frontiers, vede coinvolti il vocalist Terry Ilous (XYZ, Great White) e Fabrizio Grossi (Supersonic Blues Machine), coadiuvati dal chitarrista Serge Simic, dal batterista Tony Morra ed Eric Ragno all’ hammond. Come è facile intuire dai protagonisti il disco mira ad esplorare le vaste lande dell’hard blues ad ampio spettro, sapientemente guidate da un gusto per la melodia fresco e gradevole. Ovviamente nulla di innovativo, ma anzi una volontà di andare ad interpretare una solida tradizione musicale aggiungendovi un tocco di personalità, che certamente non fa difetto a musicisti di questa caratura.
I primi due singoli indicano la via. Believe, mi ricorda molto un disco da me recensito all’inizio dell’anno ovvero i Mother Road (QUI il link), tante atmosfere Badlands e tanto feeling. Shattered è più tirata e pur non cambiando matrice sonora, ha un ritornello veramente accattivante. Trouble e Give Me Love, mischiano alle atmosfere Usa inconfondibili tocchi british a la Thunder, fornendo due mid tempo gradevoli e ritmati. Somewhere Down The Line ha le potenzialità del singolo, grazie alla sua struttura lineare ed efficace e ai preziosi inserti di hammond. Rescue Me ha le stigmate della power ballad emozionale e l’interpretazione di Terry Ilous si erge alla grande in quella nostalgica atmosfera da primi Whitesnake , che pervade il pezzo. Ordinary Man scorre via senza lasciare tracce, anche se il ritornello è abbastanza catchy. Run Away è invece particolare: innesta un ritornello super easy (e mi saprete dire se non vi viene in mente Torn di Natalie Imbruglia), su un riff lento e pacato, mi sentirei di definirlo bluesy pop, ma gusti a parte il pezzo funziona. Long Summer Days è più Tyketto oriented che blues, ma la canzone è davvero molto gradevole. Si chiude di nuovo con il classico canovaccio Badlands/Whitesnake di Rambling Man e Get It Right, pezzi ordinari, ma piacevoli e canticchiabili.
In sostanza un buon disco, chi non cerca cose strane, ma un buon hard blues che accompagni i suoi momenti di relax, troverà qui pane per i propri denti. La voce di Terry è sempre in palla e all’altezza della situazione, la perizia ed il gusto degli strumentisti unite a melodie azzeccate, faranno il resto.
06 Dicembre 2021 0 Commenti Denis Abello
genere: AOR / westcoast
anno: 2021
etichetta: Art of Melody Music / Burning Minds
Torna il Danese Michael Kratz, che forte del buon successo del suo precendente album solista Live Your Life, che faceva seguito al suo debutto Cross That Line del 2012 uscito per Sony e ristampato in seguito da Burning Minds all’interno del triplo CD Live Your Live, si gioca il bis con questo album dall’impronunciabile titolo TAFKATNO… e diciamolo subito e togliamoci sto dente, ma che ca@@o vuol dire TAFKATNO???
Ho passato un bel po’ di notti a cercare di dare un significato più o meno plausibile a questo assurdo nome per poi scoprire che è semplicemente l’acronimo di “The Album Formerly Known As The Next One”… niente… io Kratz lo Amo, anche se le mazzate il merito del nome in questo caso sarebbero da attribuire ad un certo Jørgen Kleon Jeppesen!
Svelato quindi l’arcano che ci ha tenuti svegli per notti e notti possiamo almeno dire che a dispetto di un nome come questo tutto il resto che di buono Kratz ci aveva regalato con il suo precedente lavoro solista qui viene ampiamente confermato e forse anche meglio confezionato.
Resta ben salda sulla nave la truppa che ha portato in porto il precedente album e quindi oltre a Kratz ritroviamo qui la sua spalla destra Kasper Viinberg (mixing, polistrumentista dell’album e coautore di diversi brani) e dietro in sala di regia la nostrana Burning Minds / Art of Melody Music a cui si aggiungono una serie di artisti di gran livello come Christian Warburg (Paul Young), Bruce Gaitsch (King Of Hearts, Madonna, Peter Cetera, Chicago, Elton John, Joe Cocker, Lionville), Torben Lysholm (Pangea, Mysterell, Acacia Avenue), Davide Gilardino & Luca Carlomagno (Mindfeels) e Janey Clewer (Peter Cetera, Bill Champlin, Michael Bolton, Michael Sembello tra gli altri).
Mettiamo in chiaro prima di partire ad analizzare i brani del disco un’altra cosa, anche la voce di Kratz è ancora li a far bella presenza di se (e ci mancherebbe altro!). Se avete conosciuto i precedenti album sapete a cosa mi riferisco e se ve li siete persi provo a spiegarvelo. Quella di Kratz è sicuramente una voce a dir poco particolare, che non concede mezze misure, o si Ama o si Odia, e io la Amo grazie a quel suo tratto assolutamente caratteristico e unico in questo genere!
… e parlando di note? Tranquilli anche qui, se avete apprezzato il precedente lavoro del Danese, tirate pure un bel sospiro di sollievo perchè i colpi sparati da questo TAFKATNO mirano dritti dritti nello stesso territorio AOR / Westcoast dal tratto intimista di Live your Life, e anzi, sotto certi aspetti questo TAFTKANO risulta anche meglio bilanciato e più consistente nel suo incedere con un Kratz che regala un songwriting più pulito e omogeneo, ma forte sempre di splendidi e curati arrangiamenti come da sua abitudine.
La particolare Too Close To The Edge con il suo nanannananananow ci introduce nuovamente nel fantasioso mondo musicale di Kratz. Scelte stilistiche mai banali e di un certo livello, cura per i particolari e produzione di qualità alzano l’asticella. Non esistono pezzi che meritano lo “skip” in questo lavoro ma sicuramente vanno menzionati come highlights i brani più lenti del lotto con la splendida ed intimista Without your love, graziata da un intermezzo in puro stile ultimi Toto, l’altro lento Let’s Do Something Good che gode di un arrangiamento e di una chitarra acustica in sottofondo da pelle d’oca e infine la grazia al limite del pop di 10 minutes (00:37 – 00:47). Notevole e meritevole di una nota a se inoltre quello che ho trovato essere il brano più radiofonico del lotto, How Can a Man.
Che dire in conclusione, a questo nuovo giro Michael Kratz stupisce ancora, e per fortuna non solo per l’assurdità del nome dell’album, ma soprattutto per la conferma di un Artista maturo e garanzia per chi è in cerca di quel westcoast sporcato di AOR cromato e ricercato. Un bell’album da serata con davanti un bicchiere di vino, quello buono mi raccomando… e decidete voi se in solitaria o in compagnia, tanto questo album saprà essere compagno perfetto nel primo caso e amico delicato nel secondo! Buon ascolto!