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03 Febbraio 2022 0 Commenti Alberto Rozza
genere: MelodicRock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
A dieci anni dall’ultima uscita, torna a far parlare di sé Lana Lane, grande voce femminile made in U.S.A., con un nuovo album solista dalle sfumature melodiche.
Apriamo le danze con “Remember Me” (della quale è stato prodotto anche un videoclip), dalle sonorità molto anni ’80, incredibilmente impressiva, soprattutto nel ritornello orecchiabile e facilmente cantabile. “Under The Big Sky” presenta sempre un’atmosfera molto ovattata e protetta, corroborata dal calore vocale di Lana Lane. Archi e una trama musicale dinamica accompagnano “Really Actually”, dalla strofa dolcissima, abilmente controbilanciata da un refrain cruento e movimentato. Arriviamo al lento “Come Lift Me Up”, suadente e particolarmente sentito, stilisticamente parlando un classico del genere. “Bring It On Home” si dimostra più arrembante, sia dal punto di vista del riff che dal piglio vocale, con un interessante cambio dinamico nella parte finale, mentre “Don’t Disturb The Occupants” risulta un po’ vuota e piatta. La verve blues non si perde, come nella decisa “Lady Mondegreen”, che nuovamente mette in mostra una buonissima forma da parte dei musicisti impiegati nella registrazione dell’album. “Miss California” è un brano puramente female rock, che riporta alla mente tutta la tradizione del genere e rievoca un filone rock molto fortunato e piacevolissimo. Con “Someone Like You” raggiungiamo vette di intensità e convinzione molto alte, forse il brano più riuscito e corposo dell’album, che si fonde nella frenetica ed elettronica “Far From Home”, turbolenta e profonda. Un pianoforte accompagna e introduce la conclusiva title track “Neptune Blue”, una specie di manifesto che racchiude nella conclusione l’intento e lo stile di Lana Lane, che ci consegna un lavoro ottimamente suonato e arrangiato, anche se a tratti leggermente canonico e privo del giusto piglio e del sufficiente azzardo.
01 Febbraio 2022 4 Commenti Denis Abello
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers Music
Sappiamo tutti orami quanto sia prolifico ed ispirato in fase di songwriting il nostro Alessandro Del Vecchio e quindi poco stupisce ritrovarlo dopo un paio di anni dal precedente Native Soul a firmare i pezzi per un nuovo album degli Edge of Forever.
Attenzione però, perchè qui è giusto sottolineare un piccolo dettaglio che va oltre la professionalità e bravura a cui solitamente il nostro Ale ci ha ben abituati, perchè gli Edge of Forever sono prima di tutto il SUO progetto personale e proprio di questa sua personalità quest’album è ben intriso.
Confermata l’ottima e talentuosa band del precedente album con Aldo Lonobile alla chitarra, Marco Di Salvia alla batteria e Nik Mazzucconi al basso e ovviamente Alessando Del Vecchio alla voce e tastiere.
Gli Edge of Forever ripartono musicalmente esattamente da dove avevano interrotto con il precedente lavoro e confermano praticamente quanto di buono avevano cesellato in Native Soul, a partire dalla produzione, passando per l’esecuzione e chiudendo con una serie di brani dal piglio melodic hard rock di gusto e carattere a cui si aggiungiungono ancor più marcatamente le peculiarità intrinseche del carattere del suo Mastermind andando quindi a parare su temi anche delicati, con il suo solito tratto positivo, legati a resilienza (parola ormai comune ai più), vita e rapporto con la natura e la nostra terra in generale.
I pezzi duellano sul classico Melodic Hard Rock di matrice Europea giocato sul talento della band e sulla voce, sempre ottima, di Alessandro Del Vecchio. Citazione a parte per la splendida ballad, unica del lotto proposto, Breath of Life, forse uno dei pezzi più belli usciti dalla penna di Del Vecchio nonché una delle sue più belle interpretazioni vocali.
In ultimo la suite Seminole, composta da quattro brani, profuma di progressive negli intenti ma di splendido melodic hard rock nell’esecuzione, gran classe!
Che resta da dire? Abbiamo personalità, abbiamo una valanga di talento e abbiamo una serie di pezzi orecchiabili ma dal tratto stilistico e lirico profondo! Ascoltatelo!
P.s.: e un punto comunque questo album se lo merita anche per la splendida copertina!
26 Gennaio 2022 1 Commento Yuri Picasso
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Non è codesta la prima volta in cui Frontiers, individuate le abilità di un singolo, lo seduce e lo richiama a se nel suo importante e cospicuo roster talvolta mediante tentazioni soliste, talvolta in una band side project. Erik Kraemer nonostante la sua giovane età è salito alla ribalta per aver collaborato in ambito metal con Timo Tolkki negli Infinite Visions e ancor più recentemente con il progetto Circus of Rock.
Allestita una band completamente italiana, di talento, guidata dall’immancabile Alessandro Delvecchio, vengono commissionate una serie di songs a una moltitudine di collaboratori tra i quali lo stesso Delvecchio, Pete Alpenborg (ex-Arctic Rain), Kristian Fyhr (7th Crystal), Jan Akesson (Infinite & Divine). Canzoni dal taglio Melodic Rock, travalicando sporadicamente i confini metal, a volte avvicinandosi a un AOR muscolare.
Guardando alla lunghezza media dei brani, al di sotto dei 4 minuti, siamo sin da subito consapevoli che non troveremo particolari digressioni strumentali, il tutto indirizzato a mantenere il focus sulla voce di Eric. “Moment For Me” apre le danze, guidata dalla chitarra graffiante che alterna riff e brevi solos accompagnati da un tappeto morbido di tastiere, strumento che sentiremo sempre presente lungo l’airplay. La Title track percorre il medesimo sentiero, mentre con “The King Will Come” tornano alla mente i primissimi Europe. Leggermente poco più metal “Eat Your Heart Out”, sembra scritta sulla scia della penna di Magnus Karlsson forti di una sezione ritmica martellante e incisiva. “Take Me Back To” mostra lungo la strofa strati di Synth e pad, accompagnati da una linea vocale armoniosa, per defluire in un ritornello d’impatto. La Ballad di turno, “How Can I Survive”, scivola via senza aggiungere alcunchè al genere di appartenenza. Tutto qua ?…no, verso la fine Qualcosa che emerge dalla mera sufficienza artistica c’è. “I’m In Love Again” e la semi ballad “Forever” (fino al bridge sembra di ascoltare i Journey di Pineda) mostrano un tema diverso da quello professato lungo tutto il disco ed alzano di qualche punto la votazione finale.
Personalmente non sono un amante di questi progetti; pur sporadicamente trovando spunti e canzoni interessanti coadiuvate da capacità tecniche elevate, questi dischi risultano eccessivamente comparabili tra loro, freddi. Trasudano mestiere, tanto innegabile quanto lo è la mancanza di feeling e di un percorso artistico personale, attenuate da due anni dalla pandemia che talvolta rende difficoltoso incontrarsi. Latita la ricerca di un songwriting coordinato e personale, caratterizzato da elementi propri. In sostanza manca sentimento, cuore, pertanto una propria identità.
Nonostante ciò, tra noi qualcuno apprezzerà e godrà dell’ascolto di “All The Way”.
25 Gennaio 2022 6 Commenti Samuele Mannini
genere: Prog Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Mea Culpa….io di questi Lalu non avevo mai sentito parlare, ma nemmeno per sentito dire, segno vero e proprio che non si finisce mai di imparare ed è proprio questo il divertimento di scrivere su questo sito. Detto ciò, il tastierista Vivien Lalu è in circolazione almeno da vent’anni, oltre ad essere figlio d’arte di due musicisti della scena prog fancese dei seventies; evidentemente l’allattamento ha funzionato alla grande. Alla voce di questo progetto troviamo Damian Wilson che invece mi è assai più noto, sia per le passate collaborazioni con ad esempio: Threshold, Arjen Lucassen (Ayreon) e Rick ed Adam Wakeman, sia perché attualmente è entrato nella formazione degli Arena e dato che sono un gruppo che gradisco molto, non vedo l’ora di sentirlo alla prova anche li. Se date un’ occhiata ai numerosi ospiti che vi partecipano, sono sicuro che noterete il potenziale calibro di questo disco, che infatti si dimostra di assoluto livello.
La classificazione musicale può sicuramente dirsi progressive, i richiami agli Yes o allo splendido disco uscito a nome Anderson Bruford Wakeman Howe (che non potevano usare il nome Yes), sono assolutamente evidenti, ma c’è di più. Nei ‘solchi’ di questo lavoro si vanno a toccare atmosfere sicuramente più moderne tipo qualcosa presente negli Anathema o qualche assonanza agli Opeth di Damnation, fino a qualche rimando al sofisticato pop dei Tears For Fears. Sicuramente un disco non di facile assimilazione, ma molto soddisfacente se approcciato con la giusta apertura mentale.
Le canzoni sono tutte molto articolate, francamente una analisi track by track potrebbe risultare tediosa, con l’ulteriore rischio di non riuscire comunque a rendere bene l’idea. Mi prenderò dunque la libertà di scegliere le mie favorite ed analizzarle al volo, tanto per farsi una idea di massima. L’opener Reset The Preset, serve subito a chiarire dove si andrà a parare col sound mentre Wilson ci delizia immediatamente con la sua performance vocale, rendendo il brano ancor più evocativo. La title track Paint The Sky, è presente in due versioni: la prima con ospite Steve Walsh, la seconda solo strumentale con alle pelli Simon Phillips; credo che altre parole siano superflue e che vada ascoltata ed apprezzata in entrambe le fatture. Witness To The World, è delicata ed armoniosa ed ha il gran pregio di restare comunque sempre accessibile ed orecchiabile. Il taglio prog pop, di Lost In Conversation, è semplicemente delizioso e vediamo un po’ se vi ricorda il gruppo che ho citato sopra o sono stato semplicemente suggestionato dall’ imminente uscita del loro nuovo disco. Cito per ultima Standing At The Gates Of Hell, che comincia con atmosfere cupe e ‘Opethiane’ per districarsi in una parte degna dei Crimson King.
Il disco è veramente bello e merita sicuramente un ascolto, mentre coloro che sono in astinenza da prog. metteranno sicuramente la mano al portafogli, perché nel suo ambito siamo già davanti ad un candidato serio a disco dell’anno. Nota finale sull’artwork, assolutamente attinente e poetico ed al giorno d’oggi non è cosa da poco.
21 Gennaio 2022 1 Commento Yuri Picasso
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Confermata la line up dei precedenti Legacy (2015) e Gravity (2018), il combo inglese procede lungo la strada tracciata da questi album e inizializzata ben 50 anni fa quando i fratelli Troy fondarono la band. L’esordio col botto arrivò soltanto nel 1981 col celebre “Time Tells No Lies”, combinando come tutti sappiamo l’allora nascente NWOBHM con l’Hard Melodico vellutato dall’uso dei tasti d’avorio.
Negli anni il loro sound è rimasto immutato alla sorgente pur portando novità figlie dell’epoca del momento. Sanctuary (2009) rimane a mio opinabile giudizio il loro miglior disco di sempre capace di sorprendere ed esaltare senza cadere in trame commerciali, spingendo sul fattore grinta condita da melodie immediate e non banali.
Fatte le dovute premesse, non ci resta che spingere Play. “Cry For The Nations” mostra la carta d’identità del gruppo, amalgamando l’essenziale giro di piano a chitarre graffianti e linee vocali precise e penetranti. Si prosegue con la diretta “Ain’t No Rock ‘N’ Roll In Heaven”, la dimostrazione di come il solito giro in fondo non stanca mai, rimembra mille e nessuna canzone al medesimo tempo. Alla Rainbowiana “Non Omnis Moriar” segue la seventies “Long Time Coming”; la ballad “Sacrifice”, pur mostrando imprevedibilità, non scalfisce cicatrici intrinseche di sentimento .
Lo spirito istintivo e battagliero che guidava “Sanctuary” si è ammorbidito negli anni a favore di una riscoperta del sound delle origini, amalgamandolo con influenze ora ricollegabili al sound dei primi Journey (“Wheels In Motion”, il miglior pezzo del lotto), ora gospel (“Find Our Way Back Home”). Chiude l’epica “The Devil Never Changes”, mettendo in mostra l’abilità della coppia Tino Troy-Andy Burges alla 6 corde.
Non un capolavoro, tuttavia cospicuo di sfumature questo “Katharsis” si lascia apprezzare e scoprire un poco di più ad ogni ulteriore ascolto, conforme alla bibbia dei fratelli Troy.
20 Gennaio 2022 7 Commenti Vittorio Mortara
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Napalm Records
Accidenti, mi sto rendendo conto di apprezzare parecchio tutto quello che arriva dalla Germania! Le auto, la birra, la cucina, il gluwein, le bionde e la musica! Un po’in tutti i generi c’è qualche tedesco che mi piace un sacco. Sarà forse che la mia “educazione musicale” è cominciata con gli Scorpions? Oppure nelle mie vene, oltre a litri di barbera, scorre anche qualche boccale di ottima lager? Tutta questa premessa per dirvi che adoro i Kissin’ Dynamite! Questi ormai non più giovanissimi ragazzoni germanici suonano insieme dai tempi delle scuole superiori. Il loro stile parte dal metal quintessenziale degli Accept guarnito con lo sfarzo delle band che erano solite suonare al Rainbow ed al Wiskhey A Go Go a fine anni 80, spolverato qua e là con l’ironia dissacrante dei conterranei Rammstein e mantecato con un pizzico di hard rock mitteleuropeo alla Gotthard. E la ricetta da luogo a bella musica. Leggera e spensierata, in grado di smuovere buone quantità di adrenalina nel fruitore che, alla fine dell’ascolto, si ritrova con una smorfia di soddisfazione stampata sulla faccia. Intendiamoci, nessuno dei 7 dischi dei Kissin’ è un capolavoro assoluto, ma tutti e 7 ti lasciano quella stessa sensazione di grande soddisfazione. Sarà per l’ottimo lavoro delle chitarre, in grado di creare un wall of sound energico e melodico allo stesso tempo. Sarà per i cori, tamarrissimi, ma capaci di lasciare segni indelebili nella corteccia cerebrale di chi ascolta. Sarà per i suoni puliti e perfettamente calibrati. Sarà per la voce di Hannes, flessibile ed adatta a tutti i risvolti.
“Not the end of the road” è prodotto dallo stesso Braun in collaborazione con Jacob Hansen. La title track è un manifesto dell Kissin’ Dynamite sound: riff scarno, giusto supporto delle keys, tempo spedito, cantato lineare e un ritornello che più facile non si può! E dopo essere partiti così bene, la successiva “What goes up” non può fallire il colpo. E il riffone funkeggiante che la apre mette subito in chiaro che non è così: parte un mid tempo alla Firehouse che non fa prigionieri con quei na-na-na e quel chorus diretto come un pugno in faccia. “Only the dead” è la canzone che i Bon Jovi non riescono più a scrivere ormai da un pezzo. “Good life” è un brano promozionale per una campagna di raccolta fondi a favore della lotta ai tumori infantili, e vede la partecipazione di Guernica Mancini delle Thundermother e di Charlotte Wessels e Alea der Bescheidene dei Saltatio Mortis . Musicalmente si tratta di un brano piuttosto leggero, corale e dalla carica positiva, perfettamente in linea con le proprie finalità. Con “Yoko Ono” viene fuori la vena goliardica (vedere il video per credere) giocata tramite una ottima orchestrazione delle linee vocali, controcanti e allusiva voce femminile. Gran pezzo! “Coming home” è una delle mie preferite, così rilassata ma così emozionante, soprattutto a livello del crescendo che porta al refrain e dell’ottimo lavoro dei due axemen. Il ritmo si alza sulla seguente “All for halleluja”, granitica come un pezzo dei maestri Accept modernizzato dai suoni di oggi. Ed aumenta ancor più su “No one dies a virgin”, scoppiettante up tempo progettato per fare sfracelli dal vivo. Pausa acustica con la gradevole ballad Gotthardiana “Gone for good” che dà modo ad Hannes di sfoderare l’ennesima buona prova interpretativa. “Rock you like a hurricane” fa capolino nel riff tagliente di “Defeat it” e, in generale, tutta la struttura del brano paga tributo ai maestri di Hannover! Super! In “Voodoo spell” la band dimostra di aver appreso correttamente la lezione di Desmon Child su come creare un potenziale hit coinvolgente ed immediato. Ed infine arriva il lento più bello: la romantica “Scars” ci fa adagiare su un morbido tappeto di acustica e ci riscalda con una calda coperta intessuta di vocals romantiche ed archi.
Non siete ancora corsi a comprarvi una copia di “Not the end of the road”? Beh che aspettate? Fatelo subito! Questo è il miglior disco di una band di livello superiore. Ben composto, ben suonato, ben prodotto. Consigliato ai nostalgici come ai neofiti. Ai fans degli Scorpions e dei Bon Jovi, ma anche a quelli degli Eclipse. Perché a questi ultimi i Kissin’ Dynamite non hanno niente da invidiare. Anzi! Godono di una produzione migliore e di una maggiore attitudine al divertimento. Bravi ragazzi! La strada per voi non è sicuramente finita!
19 Gennaio 2022 38 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Recensione difficile questa per me, particolarmente difficile e se avete letto la recensione di Time To Burn nella nostra sezione classici (Link Qui),forse potrete capire il perché. I Giant sono un gruppo che adoro e immancabilmente la memoria va a certe sonorità ed atmosfere, che ahimè in questo disco sono presenti in quantità assai minima e mi permetto di dire pure artificiosa.
Cercherò di scindere per quanto possibile la questione emotiva da quella puramente tecnica e spero, mi saranno perdonate eventuali derive filosofiche, ma dopotutto per me la musica è sentimento e quindi l’obiettività a volte si trova a soccombere.
Per quanto riguarda l’operazione nostalgia, beh mi sento di dire bocciata senza appello. Qui oramai di Giant oltre la sezione ritmica è rimasto ben poco, come del resto era già successo in Promised Land. Quello che non riesco a concepire, ammettendo che possa trattarsi di un mio limite mentale, è il perché si tenti di riesumare nomi gloriosi del passato pur non essendoci le minime condizioni per farlo. Mi spiego meglio, i Giant dei primi due capolavori, ma seppur in maniera minore anche il terzo, erano caratterizzati dal songwriting, l’interpretazione e gli arrangiamenti di Dann Huff (e nei primi due anche di Alan Pasqua), se togliamo questo al potenziale sound dei Giant cosa resta? Poco più del nulla cosmico. Che senso ha dunque, riproporre dopo una valanga di anni una band alla quale manca la vera e propria essenza? Dopotutto, non è che se prendi una Panda la tingi di rosso e ci appiccichi un cavallino sopra, diventa una Ferrari per pura magia o solo per il fatto di essere entrambe italiane. continua
13 Gennaio 2022 4 Commenti Vittorio Mortara
genere: Aor
anno: 2022
etichetta: Pride & Joy
Mikael Erlandsson e la sua nuova creatura arrivano con questo “Zenith” alla terza prova in studio in 3 anni, precisi come un orologio svedese! Formazione praticamente invariata rispetto al precedente “Angel’s gate” e formula riproposta assolutamente identica. E meno male, visto che i nostri suonano un AOR classicissimo e straordinariamente orecchiabile che si ascolta e riascolta con piacere.
A partire dall’iniziale “Emergency”, sorta di Helloween song edulcorata, spedita e godibile nel refrain, con Jona Tee degli H.E.A.T. ospite al piano. Segue l’AOR radiofonico di “Evangeline” imperniato sulla melodia azzeccatissima del refrain. E subito dopo un’altra gemma di melodic rock a titolo “Love is a fighter”, al tempo stesso maschia e di facile presa. “Nightingale” mostra qualche segno di atipicità, ricordando in qualche passaggio i Ten, forse per i ritmi da ballata celtica. Si torna sui binari con “Never say die”, grazie al riffing di chitarra e tastiere rifacentesi agli Europe di fine ’80 e ad un chorus piuttosto anthemico. Un bel lento canonico, fortemente radicato negli anni 80, “Heaven can wait” tocca con delicatezza le corde dell’emozione, seguto dalla classica Autumn’s Child song “Angel of danger” che trasuda swedish AOR da ogni nota. “High on love” è un po’ insipida, mentre “Croudpleaser” parte come un inaspettato rockaccio quintessenziale per poi deliziarci con intermezzi arpeggiati di grande effetto. Rocciosa anche “Don’t wanna”, ispirata al rock americano con un refrain ripetitivo e contagioso ed un solo di chitarra bluesato. Mi ricorda vagamente la sigla di “Friends”… Il disco si chiude con la splendida “Damaged good”, canzone semiacustica che potrebbe essere stata estratta dal repertorio dei migliori King of Hearts o degli indimenticati Company of Strangers.
Che dire di “Zenith”? Difficile trovare una nota fuori posto. Composizioni non originalissime ma comunque di livello. Musicisti di grande esperienza. Produzione firmata Erlandsson/ Åkesson pulita ed adeguata al genere. A me è piaciuto cominciare l’anno con questo disco, quindi mi va di consigliarlo a tutti. Come ho già detto in occasione dell’uscita del suo predecessore, gli Autumn’s Child sono una garanzia, così come lo erano i Last Autumn’s Dream. Continuate così ragazzi. Almeno avremo la certezza che un lavoro di qualità all’anno potremo ascoltarlo! Buon 2022!
13 Gennaio 2022 7 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: STEAMHAMMER / SPV
Anni intensi gli ultimi due per il nome Magnum. La pandemia di Covid-19 ha limitato drasticamente la quantità di concerti per Clarkin e Catley (a tal proposito, ricordo una querelle non da poco sull’annullamento dei concerti live), ciò non ha però impedito ai due veterani, contornati da una formazione rimasta stabile, di registrare prima The Serpent Rings nel 2020, e poi nel 2021 di dare alle stampe una sorta di compilation intitolata Dance Of The Black Tattoo, contenente registrazioni dal vivo, avanzi di studio e alcuni remix, probabilmente pubblicati per mantenere il nome commercialmente attivo.
In, The Monster Roars, i Magnum non esplorano certo nuovi sentieri musicali , ma in fondo perché dovrebbero? Clarkin, che è unico autore e produttore, ha oramai ritagliato un sound specifico ed estremamente riconoscibile. Quando inizia il disco si capisce subito dove si andrà a parare e certo non è da un gruppo di veterani come loro, che sia lecito aspettarsi stravolgimenti e modernità. Il Magnum mood è quello, maestoso, con suoni ricchi, ridondanti e pieno di spunti che non temono di occhiare alle atmosfere del proprio retaggio british. Sulla ispirazione e la riuscita delle canzoni invece, possiamo sicuramente dire di non trovarci ai livelli delle pietre miliari della band, ma dopotutto era anche ovvio e comunque, va detto che, tra alti e bassi, gli standard qualitativi dei Magnum si sono sempre dimostrati adeguati. L’ascolto del disco scivola via piacevole e dopo tre o quattro volte, cominciano ad emergere sia le debolezze sia i punti di forza di The Monster Roars. Le debolezze sono senza dubbio riconducibili ad una certa monotonicità dei brani, ovvero non ci sono pezzi clamorosi o pezzi tirati che scuotano l’ascolto, che nei punti di minor ispirazione artistica, procede un po’ per inerzia. I punti forti sono invece i pezzi ricchi di pathos ed i mid tempo, riuscendo ancora ad esaltare le doti vocali di Bob Catley che, almeno in studio, riesce benissimo a stare al passo con le interpretazioni degli anni d’oro.
Interessante la combinazione tra i primi due pezzi, la articolata e quasi ‘prog’ title track e Remember, probabilmente la canzone più riuscita del lotto, che richiama molto le atmosfere dei Magnum di epoca classica. Notevole anche No Steppin’ Stones, allegra e piena di inserimenti di fiati. Ovviamente i Magnum hanno sempre brillato nei pezzi più lenti e Walk The Silent Hours, è un esempio meravigliosamente orchestrato ed in linea con le loro migliori cose degli ultimi tempi. Citazione finale per il pezzo conclusivo Can’t Buy Yourself A Heaven, ricco di emozioni e con sonorità quai Styx che mi allietano non poco i timpani.
in sostanza un disco piacevole da ascoltare e che sicuramente farà molto piacere ai fans del gruppo, che vi troveranno tutti gli ingredienti fondamentali della band. Peccato infine per la copertina, di sicuro i Magnum ci hanno fatto vedere di meglio in passato.
11 Gennaio 2022 1 Commento Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Sneakout Records / Burning Mind
Uscita interessante per il made in Italy con l’album di debutto dei 5ive Years Gone, che propongono un interessante hard rock dalle sonorità classiche.
Si parte con la buona “Mary Jane”, molto suadente e canonica, che subito mette in mostra lo stile della band, sia nella parte strumentale che in quella vocale. Si passa a “The Way You’re Pleased”, anch’essa molto rilassata e dal ritornello cantabile. La semplicità e la linearità dei riff risulta essere molto godibile, come in “All I Know”, molto godibile e perfettamente aderente al genere. “Never Be The Same” aumenta i giri e le sonorità si “ingrassano”, con una menzione d’onore per la parte di solo di chitarra. Sempre sull’onda dei classiconi troviamo “Outta My Head”, un po’ blueseggiante e dal sapore molto americano, dal portamento molto scanzonato. Delicata, “Scars Of Love” penetra nel cuore dell’ascoltatore, grazie alla buona trama vocale e a una parte strumentale tradizionale ma efficace. “Don’t Shoot Me” è un brano movimentato, insolito, molto anni ’80, una sorpresa molto positiva che sposta su nuovi orizzonti i 5ive Years Gone, come nella successiva “Promise”, molto più piena e cadenzata rispetto alla maggior parte delle tracce dell’album. “Get Us Right” ritorna nei ranghi, con semplicità e convinzione, riversandosi nell’emotività travolgente del lento “In The Heat Of The Night”, piacevolissimo e dalla trama perfettamente cesellata. Con “Song 4 U”, altra ballata praticamente acustica, si chiude questo ottimo esordio, che non può far altro che ben sperare per il futuro della band.
Nota finale per l’ottimo artwork della copertina.