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The Loyal Cheaters – Long Run… All Dead! – Recensione

24 Febbraio 2022 4 Commenti Vittorio Mortara

genere: Rock’n’roll
anno: 2022
etichetta: Dead Beat Records

The Loyal Cheaters sono un quartetto italo germanico capitanato dalla ossigenatissima singer Lena McFrison dedito ad uno sguaiato rock’n’roll che deve molto alla tradizione classica di bands come Girlschool, Runaways e Cheap Trick. La proposta è grezza, scarna ed energica, tanto che, a tratti, sconfina in sonorità punkeggianti. La McFrison ha una voce aggressiva e perfettamente adatta all’interpretazione del genere. Il trio di italici musicisti che l’accompagna violenta su ogni pezzo i rispettivi strumenti come se non ci fosse un domani. Ne deriva un sound tanto vintage quanto efficace, grazie anche ad una produzione centrata.

Pronti, via e “Winners never compromise” spara lì un riffone degno dei Bad Religion sul quale Lena innesta un cantato d’altri tempi generando un improponibile ibrido tra il punk e lo street. Più moderna “The devil side”, che strizza vagamente l’occhio a Halestorm e The Pretty Reckless. “Me, myself and I” rialza il ritmo ed il livello energetico. Le chitarre la fanno da padrone ed il chorus ci viene letteralmente urlato in faccia. Il rombo di un motore (probabilmente dell’Alfa 75 che compare nel video di “Surrender”) introduce “Big time outlaw”, song più articolata delle precedenti, in cui la cantante esplora toni sornioni e lascivi prima di sfoderare l’ennesimo ritornello maleducato. Poi è il turno di “Lock up your daughters”, sentito tributo ai maestri Slade ed assolutamente fedele all’originale. “No Saturday nites”, scelta come singolo, naviga in territori Cheap Trick, dove i nostri si destreggiano assolutamente bene. “Money and shame”, così profondamente Ramones, è la mia canzone preferita! Lena la canta alla perfezione e se chiudi gli occhi ti sembra di essere tornato alla fine degli anni 70! “Drama queen” prosegue sul filone vintage rock, avvicinandosi pericolosamente alle Runaways. Dopodichè anche Rick Nielsen & Co. vengono omaggiati dalla cover di “Surrender” in cui la McFrison riesce nella non facile operazione di ricalcare le tonalità del mitico Robin Zander. Bravissima! Si chiude con “(Why should I) share my wine”, rozza e martellante, che chiude il disco esattamente nello stesso modo nel quale si era aperto.

Bisogna dire che questo debutto ha delle ottime credenziali. I ragazzi hanno le idee chiare: riproporre le sonorità delle bands che li hanno influenzati, fregandosene di che cosa vada di moda oggi e divertendosi nel farlo. Va dato atto alla Dead Beat di averli assecondati in questo loro intento anche con una produzione intelligente e versatile. Leggete melodicrock.it ma, di nascosto e nel buio delle vostre camerette, ascoltate vecchi vinili delle Girlschool e delle Runaways, ma anche Donnas ed Hellacopter? Allora correte ad accaparrarvi questo disco! Non ne rimarrete sicuramente delusi!

Ten – Here Be Monster – Recensione

16 Febbraio 2022 7 Commenti Lorenzo Pietra

genere: Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers Records

Ritornano i TEN con il loro quindicesimo album Here Be Monster, distribuiti dalla nostrana Frontiers Records. Si tratterebbe di una prima uscita a cui ne seguirà una prossima a breve tempo dove Hughes ha dichiarato che non saranno album “connessi” tra loro, ma semplicemente dato il numero di canzoni registrate pubblicheranno due lavori divisi.
Il mixaggio è sempre lasciato allo storico Dennis Ward (che è dietro il mixer dal 2011) e la band è la storica con Gary Hughes alla voce, Dann Rosingana/Steve Grocott/John Halliwell alle chitarre, Darrell Treece-Birch alle tastiere, Steve McKenna al basso e l’unica novità è alla batteria, dove troviamo Markus Kullman (Sinner, Glenn Hughes,Voodoo Circle).

Partiamo con un track by track e le note del pianoforte con la chitarra arpeggiata aprono a Fearless, che già dopo un minuto profuma di TEN come non mai. Le chitarre elettriche , la batteria scandita e la voce di Gary Hughes creano un’atmosfera epica, l’assolo di chitarra con le tastiere in primo piano chiudono i primi sette minuti di canzone. Si continua con Chapter And Psalm dove ancora una volta l’accoppiata piano-voce apre al naturale proseguimento della prima traccia, Hurricane ammorbidisce il sound e parte sempre con Gary Hughes che sembra leggere una poesia supportata dalle tastiere fino all’esplosione del ritornello in pieno TEN style, canzone scelta come singolo pienamente azzeccata. Strangers On A Distant Shore inizia sempre con la voce di Gary Hughes che fa da preludio ad un riff di chitarra decisamente più heavy rock, da segnalare il bellissimo assolo, melodico e ispirato. The Dream That Fell To Earth ha come protagonista il drummer Markus Kullman e già dai primi tocchi si sente il l’ottimo lavoro e la precisione, per il resto troviamo il classico sound dei Ten. The Miracle Of Life parte lento col pianoforte per poi partire con un riff molto melodico e senza dubbio uno dei più riusciti dell’album. Immaculate Friends direi senza dubbio che è il brano più interessante del lotto, gran inizio dettato da un intreccio di chitarre e tastiere molto eightes, bellissimo refrain e assolo da manuale. Anything You Want è il pezzo più easy dell’album, quasi un pop molto orecchiabile e col solito ritornello che si infila in testa al primo ascolto. Follow Me Into The Fire parte col Gary Hughes sugli scudi per sfociare in un riff roccioso, il pezzo rimane comunque su linee più rock classico. Si chiude con The Longest Time, la ballad dell’album, con un ritornello riuscitissimo e dolcissimo, sempre sorretto dalle tastiere onnipresenti e dall’assolo non scontato e molto ben eseguito.

CONCLUSIONE:
Grande ritorno per i TEN che con Here Be Monster, il sound rimane invariato ma notiamo un passo avanti nella scrittura e nella produzione delle canzoni, i fan possono prendere l’album ad occhi chiusi. Promosso a pieni voti.

Girish and The Chronicles – Hail To The Heroes – recensione

15 Febbraio 2022 8 Commenti Denis Abello

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers Music Srl

Torna l’hard rock prepotente, sofisticato, heavy ed incazzato degli Indiani Girish and The Chronicles e lo fa esattamente nel loro stile che abbiamo imparato ad amare con il debutto Rock The Highway (2020, qui la recensione), cioè prepotente, sofisticato, heavy ed incazzato! 😀
Se avete amato il loro primo lavoro (come il sottoscritto) smettete pure di leggere e fiondatevi ad ascoltare questo nuovo Hail To The Heroes perchè tutto quello che ci ha fatto balzare sulla sedia di questi clamorosi Hard Rocker d’Oriente è ancora li, a partire dalla splendida voce di Girish Pradhan per arrivare alla corazzata schiacciasassi regalata dalla chitarra in combutta con quella bestia spezzaossa della sezione ritmica… e come avrete capito, anche a questo giro non parliamo di roba soft, ma di un sound sparato in faccia con violenza e forza!

Il tiro quindi resta sempre alto e se state cercando roba che vi aiuti a scaricare i nervi mentre a fine giornata giostrate i vostri pugni verso un inerme ed incolpevole sacco da boxe, allora pezzi come le introduttive Primeval Desire, Children Of The Night e I’m Not The Devil non faranno altro che buttare benzina su un fuoco hard rock vivo e vibrante!
Più radiofoniche le seguenti Love’s Damnation e Clearing The Blue (ottimo il solo di chitarra), così come rimanda a Leppardiani ricordi l’intro (che segue l’intro) di Hail To The Heroes mentre di accenni quasi AOR si macchia Lovers’ Train. Suggestioni anni ’90 per l’hard rock della successiva Shamans Of Time e sulle note suadenti di Heaven’s Crying per poi chiudere con la “casinistica” Rock N’ Roll Fever.

Ormai i Girish and The Chronicles sono una garanzia in quanto a qualità ed il loro hard rock spinto e cazzuto è un trademark ben definito e che personalmente riesce anche a piacere a chi come me solitamente è dedito a roba meno “roboante”.
Dall’India con furore Hard Rock… e la cosa ci piace!

Cruzados – She’s Automatic – Recensione

12 Febbraio 2022 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Deko

La storia dei Cruzados risale a quasi quarant’anni fa, quando la band capitanata dal bassista e principale compositore Tony Marsico cominciò a muovere i primi passi dalle ceneri del gruppo punk The Plugtz, con lui c’erano anche il cantante e chitarrista Tito Larriva e il batterista Chalo Quintana, che presero parte alla prima parte di carriera dei Cruzados, assieme dapprima al chitarrista Steven Hufsteter e poi a Marshall Rohner, che si divisero il compito della lead guitar negli album “Cruzados” del 1985 e “After Dark” del 1987, usciti per la Arista, dopo un discreto successo e la partecipazione alla colonna sonora di “Il duro del Roadhouse” del 1989 con Patrick Swayze, la band inaspettatamente si sciolse e i componenti si divisero in diversi progetti quali Tito e Tarantula per Larriva, Social Distortion per Quintana e T.SO.L. per Rohner, mentre Marsico e Hufsteter fecero una più che buona carriera come session men, ma non sto qui a tediarvi con informazioni che potreste trovare anche su Wikipedia ed arriviamo ai giorni nostri quando Tony Marsico decide di resuscitare il cadavere ormai freddo dei Cruzados, trasformandolo in uno zombie 2.0 che ha mestiere, ma poca anima. Larriva non fa parte di questa riunione, come anche Hufsteter, lasciando presagire che i rapporti non fossero proprio idilliaci con il main man della band, mentre Rohner e Quintana, ai quali è dedicato l’album, non sono più in questa valle di lacrime. “She’s automatic!” si propone bene, a proposito molto centrata la copertina, la formazione che lo suona è di prim’ordine con Ron Young e Loren Molinare, rispettivamente voce e chitarra dei Little Caesar, Mark Tremalgia chitarrista che ha suonato anche con i Bang Tango e Rob Klonel, batterista che ha collaborato anche con Vanessa Paradis (!), ma non è tutto oro quello che luccica e se la traccia è quella dei due album precedenti incentrati su un buon hard blues, non è altrettanto valida l’attitudine con la quale vengono scritti ed eseguiti certi pezzi, insomma, il blues sa di sporco, di palude, di whisky torcibudella e di locali fumosi dove si radunano pericolosi reietti e facili ragazze, qui è un pò tutto troppo perfettino, pulito, ordinato e dispiace perchè molti pezzi centrano il segno, ad esempio “Long black car” che già dalla tematica,  trasporta nei paesaggi texani con i teschi bovini sparsi qua e là, bellissimo e coinvolgente hard blues, l’highlight del disco o “Let me down” e qui sembra di sentire Tyla con i suoi Dogs D’Amour, tanto si muove il piedino su un ritmo irresistibile o anche la title track, dove finalmente si alza un pò il voltaggio e si rivede la grinta di Ron Young, con la slide guitar che fa la parte del leone e seppur anche gli altri brani viaggiano abbastanza spediti, esclusa l’opener “On a Tilt a whirl”, un rock quasi sessantiano debole, non certo il miglior inizio, si ha l’impressione che non ci sia il colpo gobbo, il pezzone quali erano “Motorcycle girl” o “Bed of lies” e molto, a mio parere, è dovuto anche alla prestazione un po’ sottotono di Ron Young, che tanto bene ci ha abituato nei Little Caesar, quanto male perde il confronto con il suo predecessore Tito Larriva. Questo è quello che ho provato ascoltando e riascoltando “She’s automatic!”, uscito lo scorso 28 Gennaio per Deko Records, credetemi, ho avuto molto tempo per assimilare l’album, ma non riesco a metterlo tra quelli che potrebbero ritornare presto nel mio lettore, non mi sento comunque nè di bocciarlo, nè di sconsigliarlo a chi vive di Cinderella anni novanta per “54 Knockouts”, hard blues retto da un riff quasi dissonante e dalla voce alcoolica di Ron , di Eagles per “Sad Sadie”, che si sposta in territori tanti cari alla band di “Desperado”, col suo flavour westcoast acustico, di Lynyrd Skynyrd, grazie a “Across this ghost town”, blues semiacustico che sa tanto di Van Zant e soci e non solo per i cori femminili, di Doors, quando si arriva alla chiusura con ” Rock that boat”,  altro rock blues pieno d’atmosfera dominato dalle svisate di armonica, quasi una versione hard di Manzarek e compagnia lisergica, il giro ritmico è lo stesso di “Roadhouse blues” o addirittura di Stray Cats, ascoltatevi “Wing and a prayer”, un rockabilly elettrificato se si può usare questa definizione, ma non aspettatevi un tornado di energia ed è un peccato…

Amorphis – Halo – Recensione

11 Febbraio 2022 11 Commenti Samuele Mannini

genere:
anno: 2022
etichetta: Atomic Fire

Doverosa premessa. Non siamo andati fuori di testa, né tantomeno è nostra intenzione cambiare la linea editoriale del sito. La spiegazione della presenza di questa recensione è in realtà abbastanza semplice. Vista la dismissione di MelodicMetal.it ed in attesa di una ristrutturazione del sito, che possa contenere uno spazio per i dischi fuori dai classici canoni di MelodicRock.it, mi sembrava un peccato trascurare una uscita del genere, visto che poi eravamo in possesso del promo. Mi sono chiesto: perché ignorare un così bel disco? Visto che alcune etichette nemmeno si degnano di inviare i promo. Poi… parliamoci chiaro, so benissimo che sotto lo strato di lustrini e coretti, in molti dei nostri lettori si nasconde un lato ‘oscuro’, quindi data anche la presenza di atmosfere melodiche e di stampo prog e di una voce, che quando si esprime in ‘pulito’, è melodica ed evocativa, ho deciso di scrivere e pubblicare questa recensione; mi prenderò di conseguenza tutti i rischi e gli eventuali epiteti.

Non starò qui a parlare dei testi imperniati sul Kalevala o della svolta sempre più melodica che caratterizza una carriera ormai trentennale, non ho, né la capacità, né la conoscenza approfondita della storia della band, per addentrarmi neanche nelle polemiche che hanno caratterizzato la progressiva riduzione del cantato growl, ma una cosa la posso dire, le atmosfere che gli Amorphis riescono a creare mi rapiscono e fanno fremere la mia anima. La loro musica sempre in bilico tra aggressività e melodia, l’alternanza tra i il growl e le aperture vocali chiare e limpide, i passaggi progressive oltre a fraseggi hard rock innestati nelle atmosfere più cupe, tipiche del metal nordeuropeo più estremo, formano un irresistibile richiamo per le mie orecchie.

Basta ascoltare il singolo The Moon, per avere una idea più chiara, dopo una apertura tastieristica folkeggiante ed una strofa in growl, ecco che il bridge ed il ritornello a voce piena mostrano tutti i contrasti che ho sopra enunciato rendendo il pezzo irresistibile. Citerò qualche brano, così tanto per rendere l’idea. Le atmosfere seventies stemperano l’opener Northwards, dando quel tocco di imprevedibilità che tanto mi piace in una band. The Dark Sky è più canonica e ritmata, ma quel giro di chitarra, da quel tocco di classe che rende il brano accessibile anche ha chi non ha le orecchie educate a questo genere, ma ha comunque una mente aperta. War bilancia aggressività ed atmosfere doom con un tocco di melodia orientaleggiante. La title track Halo brilla per il suo ritornello sognate con tanto di voce femminile nel finale ad aumentare il lato onirico. Sognante e delicata My Name Is Night, con ospite vocale Petronella Nettermalm, che da vita ad un duetto soave ed epico.

Insomma, l’accessibilità di questo disco potrebbe essere la chiave per andare indietro a scoprire le altre perle della band. Chi ha un passato di ascoltatore di metal ed è amante del prog, son sicuro non avrà difficoltà a trovare spunti interessanti e goduriosi. Dopotutto, la musica dovrebbe essere un ponte per far incontrare culture diverse. Gli Amorphis ci offrono l’occasione di espandere la nostra comprensione sul panorama rock e metal con uno spettro più ampio.

Lionville – So Close To Heaven – Recensione

09 Febbraio 2022 14 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor/Melodic Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers

Con un disco così è tutto semplice. Canzoni scritte divinamente, strumentisti ineccepibili per tecnica e buon gusto, con la ciliegina finale di una voce magnifica e perfetta per il genere. Non è facile trovare un’amalgama così felice arrivati al quinto disco, non si notano infatti segni di cedimento in nessun campo, anzi! Viste le mie ENORMI aspettative dopo Magic Is Alive ( del quale avevo scritto due righe al volo sulla pagina di Rock Of Ages, visto che allora non avevo il piacere di scrivere su questo sito), avevo quasi paura di restare deluso ed invece, dopo un paio di ascolti, l’album mi ha conquistato e convinto.

Ad orecchio, direi che la direzione artistica è andata a ripescare  le sonorità più vicine ai primi due lavori, irrobustendo un po’ i suoni rendendo così l’approccio leggermente meno pop, ma in fondo son dettagli. Il trademark sonoro dei Lionville è sempre ben presente in tutti i dischi, seppur declinato in maniera leggermente diversa. Undici canzoni, senza cali di tensione e con diversi picchi di qualità melodica straordinari, che restano impresse nella mente dopo pochi ascolti e che ti trovi a canticchiare senza pensarci, questo è indubbiamente indice della qualità dei refrain che Stefano Lionetti riesce a generare a raffica.

Si parte col botto. In This Time, è presente alla voce l’ospite deluxe Robbie LaBlanc ed il tripudio di intrecci vocali cattura immediatamente l’ascoltatore. Il singolo Cross My Heart, racchiude tutta la magia di questo gruppo, una melodia assassina che ti si spara subito in mente, puro melodic rock d’autore. The World Is On Fire è piu’ rockeggiante senza perdere in melodia, mentre Can’t Live Without Your Love è la classica mega ballad che, ai miei tempi, avremmo definito ‘strappamutanda’ ed il solo di sax ,non fa che aumentare questa sensazione. Altro potenziale singolo è la ritmata True Believer. We Are One richiama un po’ le sonorità dei Boulevard ed ha quel tocco pop discreto ed azzeccato. Il ritmo si rialza immediatamente con la cavalcata survivoriana di Only The Brave, anthemica ed efficace. Angel Without Wings ha il tipico marchio di fabbrica Lionville e ci traghetta tranquillamente verso lo scintillante mid-tempo I’ll be Waiting Tonight,  le cui sonorità, occhieggiano a tratti, al Mitch Malloy del debutto. Arrow Through My Heart è un vero tuffo negli eighties; scritta da Richard Marx, Fee Waybill e Bruce Gaitsch ed edita nella raccolta “Stories To Tell: Greatest Hits And More”, ci mostra che la classe non è acqua e se vi capiterà di ascoltare l’originale, vedrete che gli allievi hanno superato il maestro. La title track So Close To Heaven chiude infine il disco, una canzone dalle venature più pop rock ed ancora un tocco di sax che, almeno a me, ha sempre fatto impazzire.

In sostanza, mi permetto di contraddire il titolo del disco, qui non siamo So Close To Heaven, ci siamo dentro fino al collo. Mano ai portafogli quindi! Son soldi spesi bene.

Degreed – Are you ready – Recensione

07 Febbraio 2022 6 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers

Robin Eriksson torna in sella alla sua band dopo l’esperienza solista dell’anno scorso a nome di Robin Red (Qui la recensione).
In uscita il giorno 11/02/22 tramite Frontiers, il sesto album dei Degreed si intitola “Are you ready” ? A tale domanda rispondiamo “sì, siamo pronti” tanto più che siamo pure in leggero anticipo nella pubblicazione della recensione.

Preannunciato dal singolo e primo titolo in scaletta “Into the fire” che ci riporta subito alla linea tracciata dai ragazzi svedesi nei ben 17 anni di carriera musicale. Una linea ben riconoscibile e costruita su una buona dose di tastiere, di riff moderni e infarcita da una saporita linea melodica. Bel singolo. Sprazzi e richiami evidenti, pure nel titolo, ai grandi Harem Scarem nella catchy “Higher”, una delle mie preferite del lotto. Sterzata netta in chiave moderna per “Feed the lie”; riff importante e batteria incalzante aprono la terza traccia per poi modulare verso un ritornello più adagiato. Il titolo “Radio” è un chiaro intento a cantare e a battere le mani alla cadenza dettata dalla batteria. Buon lavoro anche nell’intermezzo strumentale. Una suadente chitarra prende la scena dell’interessante title-track prima che questa diventi quasi heavy nella successiva “Burning”. Secondo singolo “Falling” di chiara matrice made in Degreed. Bello il ritornello della successiva “Lost in paradise” appoggiato su una ricca e sapiente base di tastiere come pure per “Turn back” dalla costruzione più soffusa ma fatta con classe cristallina. Lo stile dei connazionali H.e.a.t è presente nella struttura di “We will win” mentre il capitolo finale aspetta a “Desire”, una canzone che meritava una posizione in scaletta più apprezzabile in quanto è decisamente sopra alla media per idea compositiva. Gran pezzo. All’appello manca una ballad.

Conclusioni:
Persi alcuni tratti AOR presenti nel precedente “Lost generation”, i Degreed tornano a cavalcare il loro sound tutto tastiere e chitarre di stampo moderno. Are you ready? Sì, all’acquisto di questo bell’album dall’apprezzato scatto fotografico in copertina.

Manic Sinners – King Of The Badlands – Recensione

07 Febbraio 2022 4 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers

In uscita in questo inizio di anno roboante il debut album della band rumena Manic Sinners “King Of The Badlands”, debutto interessante per questo power trio talentuoso e dalle credenziali sbalorditive.

Il lavoro parte immediatamente con una traccia potentissima e caratteristica dello stile della band: “Drifters Union” (del quale è possibile trovare anche un videoclip su YouTube) galoppa dal primo secondo, intenso, musicalmente compatto ed esaltante, arricchito da una voce decisa, cesellata e azzeccatissima. Passiamo a “King Of The Badlands”, la title track che ci colpisce con un uno – due letale: oscura, cupa e dalla trama musicale godibilissima, grazie al grande forma e alla grande dote tecnica dei componenti del gruppo. In terza posizione ci imbattiamo in “Anastasia”, introspettiva e dal sapore magico, dolce e melodica, rilassa le atmosfere attestandosi come un vero e proprio inno d’amore. “Ball And Chain” è un pezzo delicato e malinconico, riflessivo e coinvolgente, che colpisce per la decisa interpretazione vocale e per la particolarità di alcune atmosfere musicali. Torniamo a martellare con “Under The Gun”, dal riff tagliente e spezzettato, dalle sonorità cruente, molto più metallaro e crudo ma sempre allineato con le caratteristiche della band. Passata la strumentale e virtuosa “Out Of Blood”, arriva l’agrodolce “Carousel”, dalla ritmica arrembante venata di qualcosa di indecifrabilmente emotivo, un brano piacevole che lascia molto dal punto di vista puramente sensazionale. “Nobody Moves” torna su sonorità più contemporanee, abbandonando per un attimo l’hard rock puro e orientandosi verso qualcosa di più metal, ma mantenendo altissimo il livello compositivo e soprattutto strumentale, sempre ricco di grandi spunti ed eseguito in modo azzeccatissimo. “Play To Lose” è un brano intenso e tutto sommato canonico, sempre in linea con il genere e che non aggiunge molto a quanto di buono sfornato dalla band. Secondo strumentale con “Crimson Queen”, questa volta più orientato su orizzonti delicati e di vaga ispirazione statunitense, che lasciano spazio alla solare e ariosa “A Million Miles”, corposa e vocalmente molto dinamica. Chiusura affidata alla gagliardissima e danzante “Down In Flames”: pezzone tosto e perfetto per tirare le somme di un album elegante, suonato in modo coerente, tecnicamente di livello, con sprazzi di originalità rari in questo periodo e che complessivamente porta sotto i riflettori una band pronta in tutto e per tutto a palchi importanti.

Zadra – Guiding Star – Recensione

05 Febbraio 2022 0 Commenti Vittorio Mortara

genere: Aor
anno: 2022
etichetta: Frontiers

August Zadra: cantante chitarrista della scena losangelina, membro dei Waiting For Monday e della band di Dennis De Young, collaboratore di nomi di rilievo della scena hard e AOR come J.S. Soto, Robin Zander e Jim Peterik. Produzione affidata al nostro Alessandro Del Vecchio, canzoni scritte con Soto. Insomma, ho voluto dal primo istante questo disco da recensire. Viste le premesse, pensavo proprio che potesse spaccare. Ma ascoltando l’opener “Come toghether” ho avuto già i primi dubbi in proposito: canzoncina ben suonata ma con poco mordente nel suo scimmiottare lo stile Styx/De Young in maniera anche poco convinta e convincente… Ahia… Proseguo l’ascolto e, fortunatamente, “Nothing more to say”, contrariamente al titolo, qualcos’altro da dire ce l’ha: dopo una partenza d’atmosfera, il brano si sviluppa come una semiballad AOR altamente ottantiana. La voce di August dipana bene le varie sezioni accompagnandoci in un discreto crescedo fino a sfociare nel bel coro. Buono il lavoro alla sei corde. Chitarrone alla Firehouse aprono “Ship of fools”, la canzone più convincente e coinvolgente dell’intero lavoro. Assolutamente centrato l’appiccicoso refrain e presentissime le backing vocals di JSS. Ben confezionata la ritmata “Come back to me”, strumentalmente più raffinata ma, forse anche per questo, meno incisiva. Si torna su frangenti più hard con “Escape the rain”. Io quel ritornello ho l’impressione di averlo già sentito… Ma non ricordo dove! Poi uno struggente arpeggio di acustica dell’ospite Jimmy Lehay ci trasporta nelle atmosfere folkeggianti del lento “A matter of yesterday”, carino ma un po’ troppo pomposo per i miei gusti. Nota di merito per il bellissimo assolo. “I’ll meet you in heaven” sfodera di nuovo gli artigli dell’AOR classico e graffia forte con le hooklines ruffiane gestite ottimamente dal cantante/chitarrista appoggiato ancora una volta dal veterano Jeff. Bella e nostalgica. “Take my hand” l’ho trovata un po’ troppo arzigogolata, anche se impreziosita dall’assolo di keys dell’amico De Young. Ho apprezzato moltissimo, invece, “Dream of you” nel suo fondere atmosfere alla Toto con una maggiore immediatezza nella linea vocale. “Won’t let your love take me down” mi ricorda qualcosa dei migliori Dokken, soprattutto a livello della tonalità usata da August. Non male. Si chiude con un altro pezzo, “Rise from the fire”, classico ma con qualche coro styxoso di troppo.

Cosa concludere su quest’album? Difficile dare un giudizio. I musicisti sono bravi. La produzione di Alessandro è al di sopra di ogni sospetto. La voce di Zadra è gradevole e la sua interpretazione buona. Secondo me manca qualcosa a livello di composizione. I pezzi non hanno una carica dirompente, e, alla fine, ti lasciano un po’ di amaro in bocca proprio perché le forze dispiegate sono ingenti e le potenzialità assolutamente elevate. Si tratta comunque di un disco gradevole che consiglio a tutti di ascoltare, ma dopo i Kissin’ Dynamite sono diventato adrenalina dipendente e in “Guiding star” non ne ho trovata abbastanza.

City Of Lights – Before The Sun Sets – Recensione

04 Febbraio 2022 11 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers

Il progetto City Of Lights, nasce dalla collaborazione del chitarrista e songwriter Neil Austin ed il vocalist greco Manos Fatsis (Odyssey Desperado e Hideaway). Neil Austin era alla ricerca di un vocalist che fosse adatto alle sue composizioni ispirate dalle classiche sonorità hard rock degli anni ’80 e alla nuova ondata delle attuali band AOR. Dopo aver ascoltato il lavoro di Fatsis su Don’t Miss The Sunset degli Odyssey Desperado e il debutto omonimo degli Hideaway,  i due si sono messi in contatto tramite Facebook ed insieme hanno iniziato a lavorare per rifinire le canzoni e alla stesura definitiva di questo album. La sezione ritmica è infine composta dai fratelli Eriksson dei Degreed.

Premetto che ero abbastanza curioso di ascoltare nuovamente il vocalist greco in azione. Il suo timbro vocale pieno e robusto, mi appassionò non poco negli Hideway, ma purtroppo, il risultato su questo disco non mi pare all’altezza dei suoi lavori precedenti. Il disco procede abbastanza anonimo e derivativo senza catturare l’attenzione in modo particolare, non posso dire che sia brutto o mal suonato, solo che fatica a far emergere canzoni che venga voglia di ascoltare più e più volte. Molti brani sanno di già sentito, ma contrariamente ad altri gruppi anch’essi derivativi la sensazione di freddezza resta prevalente durante l’ascolto. Nel marasma delle tante uscite dell’anno, temo che sarà un disco destinato a scorrere via senza lasciare tracce particolari ed anche la artwork, seppur gradevole, ha quel che di già visto. Hearts On Fire, melodica e potente, Heat Of The Night, che ricorda Tears in The Night dei Valentine, non solo nell’assonanza del titolo e la conclusiva title track Before The Sun Sets, articolata e romantica, sono a mio giudizio, le canzoni che meritano una citazione particolare.

In fondo è il primo disco e se non si squaglieranno alle prime difficoltà, potrebbero anche esserci notevoli margini di miglioramento. Provaci ancora Manos!