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My Darkest Red – Midnight Supremacy – Recensione

09 Ottobre 2024 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Sneakout Records - Burning Minds

I My Darkest Red sono la nuova incarnazione dei Poisonheart, band hard rock bresciana che aveva debuttato nel 2017 per Sneakout/Burning Minds, ma che, con l’arrivo del bassista ex Dreamhunter Andrea Verginella, a completare la band composta anche da Fabio Perini alle voci e alla chitarra ritmica e da Andrea Gusmeri alla chitarra solista, vira più decisamente verso sonorità dark-gothic, pur mantenendo la base hard rock.

Date le premesse, per me, che sono un fan di quella scena, soprattutto inglese, che ha caratterizzato la prima metà degli anni ottanta, questo album arriva come una ventata di aria fresca in un panorama, quello hard’n’heavy attuale, abbastanza stagnante e, seppur i rimandi alle atmosfere create da The Sisters of Mercy, The Cure, Bauhaus e i The Damned di “Phantasmagoria”, siano abbastanza evidenti, la commistione di generi risulta ben fatta, con un piglio sicuramente più hard rock rispetto, ad esempio, ai The 69 Eyes, che hanno anche loro preso a piene mani da quella scena oscura e decadente.

L’inizio con “The house on the hill” può fuorviare e far sembrare che il gothic rock sia solo un lieve contorno per un robusto hard rock, seppur le tematiche siano già ben incentrate su i vecchi film horror, ma da “By the moonlight” si manifesta evidente l’amore per la darkwave, con Fabio Perini che si atteggia un po’ Dave Vanian e un po’ Andrew Eldritch, cosa che succede anche con la successiva “Tears in the snow”, che ricalca nel testo la classica storia d’amore per una donna che cerca conforto dopo una brutta esperienza, con “Black lullabies” si cambia sensibilmente tiro, pur mantenendo un velo di grigiore, il brano si evolve come una semiballad sorretta da un riff potente, con un testo incentrato sulla pazzia del genere umano nei confronti del mondo in cui viviamo, “Eternity” si dipana verso un horror metal che ricorda le cose oramai più easy fatte da Steve Sylvester, sia musicalmente che dal punto di vista delle liriche, “The flame” chiude quella che viene nominata Midnight side, con una tetra nenia che si apre in una semiballad acustica e che racconta l’ennesima storia orrorifica. La Supremacy side si apre, anche se chiaramente nel cd non ci sono due lati, con “The dirty way”, che mantiene il tiro dell’opener, preferendo un solido hard rock ai limiti col metal e lasciando la parte oscura solo per il testo, cosa che, tutto sommato, si protrae anche per le successive quattro canzoni, “Only after midnight”, “From dusk till dawn”, che ha un’andamento decisamente più vigoroso, “Merry-go-round” e “Dark night, fright night” e qui mi preme dire una cosa, è proprio tutto così rose e fiori questo album? Non del tutto e sono proprio le canzoni di questa ipotetica Supremacy side che non decollano del tutto, come quelle decisamente più ispirate della Midnight side, non che siano brutte, forse solo “Only after midnight”, con quel ritornello scontato rimane sottotono, ma il confronto con la prima parte è davvero squilibrato, per fortuna, arriva “Miriam (She wakes up at Midnight)”, che già dal titolo rimanda allo stupendo film gotico con Catherine Deneuve, Susan Sarandon e David Bowie, qui si capisce che i My Darkest Red si trovano decisamente più a proprio agio quando vogliono scrutare nella bruma e portare la loro musica verso quei territori che tanto hanno fatto proseliti in terra d’Albione negli anni ottanta, la canzone è un vero e proprio inno dark-goth con Fabio Perini in gran spolvero e le tastiere orrorifiche di Sonny “STK” Montanari a dettare legge.
Non è sicuramente una novità fare una crossover tra gothic-dark e hard rock, in passato lo hanno già fatti i The Cult, che però arrivavano dal goth, al contrario dei The 69 Eyes e molti altri hanno comunque venato il loro hard rock di oscurità, ad esempio i Bang Tango di “Dancin’ on coals” o gli L.A. Guns di “Hollywood vampires”, ma riuscire a farlo in maniera così ispirata e soprattutto così centrata sulla materia oscura, non è cosa da pochi.

Infine, se avete notato, ho scritto anche dei testi, cosa che è difficile fare se non si ha in mano un supporto fisico, cosa che oramai è difficile succeda, ma di questo devo ringraziare Stefano Gottardi, Boss della Burning Minds ed è anche per questo motivo che non ho scritto la recensione prima dell’uscita del disco, volevo dare più informazioni possibili, dare visibilità maggiore ad una band che, a mio parere, merita davvero e credo proprio di esserci riuscito. Grazie a questo si sa anche che la band ha curato gli arrangiamenti e l’artwork, ha prodotto l’album assieme a Oscar Burato e che quest’ultimo lo ha registrato e mixato ai Sonic Bang Studios di Isorella in provincia di Brescia, mentre la bella e tenebrosa dark lady in copertina e sul cd si chiama Nicoleta Nikita, tutte informazioni che, normalmente, non si riescono ad avere, soprattutto quando si ha a che fare con degli scarni files di streaming e personalmente tendo ad essere poco attratto da chi non vuole fornire lo stretto necessario per una recensione fatta come si deve, ma tant’è, il trend è questo purtroppo…

Fate – Reconnect ‘N Ignite – Recensione

04 Ottobre 2024 1 Commento Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Dopo 11 anni dall’ultima testimonianza, torna in scena sotto Frontiers il moniker danese di culto Fate. Nel rivedere il loro percorso artistico da quando Hank Sherman nel 1984 dipartì dai Merciful Fate per avvicinarsi a sonorità mainstream, ad oggi, possiamo riconoscere due identità distinte e riuscite lungo la loro carriera. La prima fase rispecchiava il tipico sound Melodic Rock/AOR proveniente dal freddo nord Europa: tastiere + Synth predominanti, ricerca del ritornello a presa rapida il tutto trainato dal frontman Jeff Lox Limbo (ai tempi definito il David Lee Roth di Danimarca). Con ‘Scratch and Sniff’ (1990) si virò verso un sound Hard & Heavy trascinato dall’ecclettico e dotato Mattias “IA” Eklundh alle 6 corde e fronteggiato dalle vocals alte e potenti di Peer Johansson. Un cambio netto, riuscito, proseguito con l’ottimo ‘V’ (2006), primo disco della reunion, dove alla chitarra trovavamo Soren Hoff. Della Line Up originale oggi abbiamo il solo bassista Peter Steincke, accompagnato dal rientrante Johansson dietro al microfono.
Il sound guidato dal chitarrista deus ex machina Torben Enevoldsen (Fatal Force, Section A – qui alla terza prova in studio) rimane orientato a un Heavy dai tratti teutonici e saltuariamente sconfinanti nell’epic.
Sarà colpa delle personali e forse elevate aspettative, ma dopo ripetuti ascolti stento a memorizzare molti dei passaggi strumentali e vocali della scaletta di questo ‘Reconnect’ N Ignite’; se la forma stilistica segue lo stile del capace Enevoldsen, il songwriting a più riprese appare eccessivamente di maniera e a tratti sterile.
Oltre le mie sindacabili opinioni, prendete a musa i Pretty Maids più Heavy o gli ultimi Bonfire, mancando quella perizia in grado di elevare il full length a pienamente convincente.
Le canzoni meglio riuscite sono quelle che si avvicinano per imprinting heavy e melodico allo stile degli album del 1990 e del 2006, dove si riscontra l’attitudine catchy per sviluppo di melodie ariose e cori consoni.
Posso citarvi tra le mie preferite l’opener “Around The Sun” e la doppietta posta verso il finale “When It’s Over” e “Children of a Lesser God”, up-tempo conditi da soli azzeccati e strutture armoniche efficaci.
Auspicavo un ritorno più convinto e deciso alle sonorità legate alla voce di Peer Johansson, fautore di una buona prova nonostante emerga una comprensibile difficoltà anagrafica ad esprimere la grinta che un tempo solcava le sue linee.
Un passo indietro rispetto a ‘If Not For The Devil’ (2013) che mostrava una maggiore e globale coesione unite a un songwriting più ispirato.
Consigliato ai completisti del genere e agli amanti delle belle grafiche di copertina.

Wake The Nations – Heartageddon – Recensione

28 Settembre 2024 0 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Inverse

In una burrascosa settimana di metà settembre a Lampedusa, mi trovo a scrivere, visto il maltempo estivo, le righe di questa ‘particolare’ recensione  di “Heartageddon”, terzo capitolo discografico dei WTN, uscito per Inverse Records, è composto da ben tredici tracce.
Il preludio atmosferico iniziale fa da perfetto contraltare al secondo singolo della band finlandese “Bulletproof” ambientato in una splendida cornice innevata. La bella canzone in stile W.e.t. è una combinazione di tastiere e chitarre cariche di energia, pronte a sciogliere ghiacci nordici e silenzi lampedusani.
Passando di spiaggia in spiaggia, abbino una coppia di canzoni ad ogni singola sosta al mare, apportando alla recensione un aspetto vacanziero o da puntata di “Kilimangiaro”.
Iniziamo il tour musicale.
Posta nei pressi dell‘aeroporto, in cala Maluk, dal nome quasi evocativo dei nativi americani, suona egregiamente la marcia di “I Can Take It All” che prepara la carica, manco a farlo di proposito, de “Cowboyz & Call Girlz”, moderna e ben orchestrata, entrambe infarcite da una potente base di basso e chitarre.
Nella poco pubblicizzata cala Galera, quale miglior colonna sonora se non il primo singolo dal titolo “Alive”? Uscito al primo maggio, ha in dote un bel giro di chitarra e un video quanto meno particolare. A seguire, perfetto appare il titolo “The shadows”; la canzone ricorda il mood dei One Desire per struttura e presenze di tastiere; bello l’assolo.
Terza tappa, la più suggestiva e rinomata, la spiaggia dei Conigli, dove, se fosse possibile, sarebbe spettacolare guardare il tramonto con un sottofondo come “Crossroads”, sognante anche nel testo, e la “Wheel of fortune” che qui non servirebbe visto il luogo paradisiaco (un po’ troppo affollato).
Quarta ed ultima tappa al settimo giorno, cala Pulcino, impervia e non accessibile dalle strade, a cui affianco cronologicamente la canzone “Seven”, con un’anima glam dal ritornello di facile presa tra Crashdiet e Crazy Lixx, e la semi acustica “Street of fire”.
Il tour turistico-musicale termina; la varietà delle spiagge e dei paesaggi in pochi chilometri di isola si sposano alla perfezione con la proposta eterogenea dei Wake the Nations che toccano diverse sfumature del hard melodico scandinavo.

p.s. dedicato A. una persona che silenziosamente ha influenzato una vacanza.

Hydra – ReHydration – Recensione

27 Settembre 2024 1 Commento Francesco Donato

genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Pride&Joy

Giungono alla loro seconda prova gli svedesi Hydra, con questo “ReHydration” che arriva a due anni di distanza dal convincente “Point Break” del 2022. Dall’esordio di due anni fa, che io stesso ho recensito su queste pagine, la formazione rimane invariata. Henrik Hedström (già First Signal ed Angelica) a guidare il tutto accompagnato da Daniel Flores (Find Me, First Signal, ecc) alla batteria, Jonny Trobro (First Signal, Find Me) al basso e Andi Kravljaca (Aeon Zen, Seventh Wonder) alla voce.

L’album segna il passaggio di consegne dalla Frontiers Records alla Pride & Joy Music, condizione che a livello di produzione sposta pochissimo rispetto all’esordio. Anticipato dal singolo “We Belong”, pezzo che apre anche il disco, “ReHydration” non delude le aspettative.

Se con “Point Break” il combo svedese aveva fatto ben parlare di sé, con questo secondo lavoro la band aggiunge un pizzico di maturità compositiva. I pezzi risultano bel suonati e ben arrangiati, si lasciano ricordare in fretta, aggrappati tutti al più classico Westcoast AOR melodico. Il disco procede con l’ottima “Marionette” e con il midtime “Still The Same”, due pezzi legati da un filo invisibile al precedente album che alla lunga degli ascolti risulteranno le mie songs preferite. “Eye Of The Storm” , “Made-Up Stories” e “Clown Without a Circus” rappresentano il cuore pulsante del disco, tre ottimi esempi di AOR nordico, ben curati negli arrangiamenti e nel “tiro”. “Two Of a Kind” è un altro interessante midtime seguito a ruota da “I Remeber” altra prova altamente convincente. Il disco sembrerebbe calare leggermente sul finale con “Out In the Cold”, ma arriva a risvegliarci la splendida “Love Remains”. Chiude il disco la dolce ballad “Me minus You”.

Nulla da dire, disco che convince e che potrebbe entrare persino in Top Ten.

Heartwind – III – Recensione

20 Settembre 2024 2 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

Giungono al terzo album gli svedesi Heartwind qui presenti con tre membri originali ed una serie si ospiti che si alternano alla voce e ai vari strumenti.

Nati nel 2017 a Stoccolma la band propone dieci brani abbastanza diversi tra di loro nei quali si possono sentire influenze di hard rock classico mischiato al metal da classifica di metà anni ‘80 per toccare in alcuni casi l’AOR di matrice scandinava. La differenza di vocalità e di stili tra i vari singer che si avvicendano dietro al microfono fa si che questa varietà si noti ancora di più. La tagliente Warrior interpretata da Jakob Samuel (The Poodles) apre le danze ma non risulterà essere certo il pezzo più convincente del disco. Tracce dei Deep Purple dell’epoca Salves And Masters si avvertono nella pomposa Facing The Night valorizzata dalla bella prova di Robert Van Der Zwan (Remedy) ma è con la seguente Struck By Love (Matti Alfonzetti) che i ragazzi mettono a segno il primo pezzo davvero interessante del lotto. Swedish AOR per la piacevole Now Is The Night (Andreas Novak – House Of Shakira) mentre nelle seguenti One Reason e Cry For Love (Rick Altzi – Gathering of Kings) si avverte spiccatamente l’influenza dei Whitesnake dell’epoca 1987 tanto da rasentare quasi il plagio. Nuovo cambio di cantante ed ennesima trasformazione della band. Blink Of An Eye e Brothers entrambe interpretate da Thomas Vikström (Candlemass/Therion ) sono vicine ai primi Europe. Non poteva mancare la quota rosa a mischiare ulteriormente le carte e quindi ecco arrivare Nina Söderquist (vincitrice del talent West End Star nel 2008) che con la sua Cryng In The Rain mi riporta spaventosamente alla mente All’alba Sorgerò del film di animazione Frozen! Chiusura affidata a Matt Marinellli (Borealis) con Rocking Heroes che senza infamia ne lode conclude un album un po’ confusionario che se proprio volessimo dare un’accezione positiva potremmo definire “eterogeneo”.

 

Skyeye – New Horizons – Recensione

20 Settembre 2024 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Heavy Metal
anno: 2024
etichetta: Reaper Entertainment

Gli Skyeye sono un gruppo dedito ad un ortodosso heavy metal, proveniente dalla vicina Slovenia, attivo da oramai dieci anni e che ha combattuto strenuamente per ritagliarsi una fetta di notorietà nel panorama metallico, riuscendo ad avere un contratto con la volenterosa Reaper Entertainment, un’etichetta che non è sicuramente nota per adagiarsi sugli allori e cercare sempre nomi nuovi ed interessanti e con la quale la band della ex Jugoslavia ha già pubblicato ‘Soldiers of light’ nel 2021, dopo l’esordio autoprodotto ‘Digital god’ del 2018.

Questo ‘New horizons’ è il terzo album per gli Skyeye, ma non sembrerebbe proprio, e mi spiego, a parte i suoni decisamente moderni, i quasi sessanta (!) minuti di durata del disco, sono davvero duri da mandare giù, a causa di un eccessivo appiattimento delle soluzioni sonore e di songwriting, non sembra nemmeno che i ragazzi sloveni abbiano la voglia di osare, di colpire nel segno, sembrano adagiarsi su soluzioni scontate, sembrano navigare in un mare calmo, senza sussulti, in modo che, se si dovesse scatenare una tempesta, loro si salvino nel loro porto sicuro.
Cosa altro si può dire di canzoni che ricalcano gli stilemi speed power degli Helloween e degli Accept (The descenders), senza lo speed, ma sempre degli stessi mostri sacri (Fight!), dei Metal Church, ma con rimandi ai vocalizzi di Andi Deris (Far beyond), dell’orgoglio Manowariano (The voice from the silver mountain), e a poco servono i momenti iniziali di “Saraswati”, dopo poco si ritorna nell’ordinario simile al brano di apertura, men che meno per la galoppata Maideniana di “Nightfall” e per la sempliciotta “Forgotten nation”, almeno la suite “1917”, che parla come si può ben intuire degli eventi della prima guerra mondiale e dei conflitti avvenuti sulle sponde dell’Isonzo, preceduta dall’intro “The emerald river”, da uno scossone ad un panorama sinceramente piattino.

I punti di forza di questo disco sono sicuramente la voce a la Dickinson di Jan Leščanec e gli intrecci dei chitarristi Urban Železnik e Mare Kavčnik, la sezione ritmica, pur martellante (fin troppo), non fa niente di eclatante e se il contesto classico, può essere un bene in certi frangenti, qui, diventa davvero un freno, anche se i due chitarristi trovano in diversi frangenti, delle soluzioni meno scontate e quindi, più interessanti.
Non me la sento di bocciarli comunque, il vigore ce lo mettono di sicuro, ma nemmeno di promuoverli a pieni voti, quindi, sperando in un auspicabile salto di qualità futuro, li rimando, come si faceva una volta, a Settembre…

Steelcity – Reverence – Recensione

20 Settembre 2024 1 Commento Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Per gli amanti dell’hard rock a stelle e strisce, in uscita il nuovo lavoro degli Steelcity, dal sapore nostalgico e caratteristico.

Partenza lanciata con “ I Ain’t Dreamin’ Bout You”, corale e tambureggiante, dalla grandissima carica, che subito ci immerge perfettamente nell’atmosfera musicale degli Steelcity. “Hammer’s Fallin’” presenta una ritmica tosta, pregevole nella dinamica, di grandissimo impatto. Suadente e tagliente, “No Angel” ci riporta agli anni d’oro dell’hard rock, facendoci scoprire le molteplici influenze passate della band. “Dizzy” si orienta sugli stessi piani dei precedenti brani, con una verve interessante e ritmiche serrate e sempre ben cadenzate. Non particolarmente intrigante scorre rapidamente “Walk Away”, canonica per struttura e suggestioni, lasciando presto spazio a “B.A.N.K.”, anch’essa poco convincente come la precedente. “Midnight Dancer” svolta totalmente: grandissima ritmica, parti soliste accattivanti e impatto devastante, che la porta ad essere la vera sorpresa dell’album. Atmosfere cupe e spietate sulle note di “Broken”, non particolarmente vivace e convincente, al contrario della dinamicissima “Losing Control”, molto coinvolgente e ben eseguita. “Blinded” presenta tutte le caratteristiche di un brano hard ‘n’ heavy, facendosi apprezzare appunto per questo suo gusto nostalgico. Concludiamo l’ascolto con “The Journey”, una ballata soave che ci porta a terminare un album tutto sommato ben pensato ed eseguito, nonostante alcuni brani siano assolutamente ordinari, forse troppo legati a un canone da cui spesso si fatica a sganciarsi.

Eclipse – Megalomanium II – Recensione

19 Settembre 2024 0 Commenti Paolo Paganini

genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Ad un anno di distanze arriva il secondo atto dell’album Megalomanium che aveva visto il suo prologo nel 2023 con il primo capitolo. Le coordinate stilistiche non cambiano di una virgola come era ovvio aspettarsi da una band come gli Eclipse da sempre fedeli ad un robusto AOR di matrice scandinava. La qualità a cui i quattro ci hanno ormai abituato negli anni è sempre molto alta e anche in quest’ultima occasione non tradiscono le aspettative. La roboante Apocalypse Blues apre le danze seguita dall’altrettanto trascinante The Spark due brani nati per dare il meglio in sede live. L’asticella si inizia ad alzare grazie all’antemica Falling Into My Knees che cattura grazie ad un ritornello tutto cori di grandissimo impatto. La componente melodica e di facile presa si esalta sulle note di All I Want, brillante AOR allo stato puro e sulla più robusta Still My Hero. La sognante power ballad Dive Into You tocca livelli di assoluta eccellenza avvicinandosi alla perfezione compositiva. Si cambia registro con le epiche note di Until The War Is Over mentre la metallica Divide_Conquer risulta forse il pezzo meno convincente del lotto. I nostri impiegano veramente poco per riprendersi e con la successiva Peieces piazzano l’ennesimo pezzaccio che vi si stamperà in testa sin dal primo ascolto. A molti potrebbe bastare così ma non ad Erik & Co i quali ci regalano un’ulteriore gemma di AOR con la stratosferica To Say Goodbye. Chiusura affidata alla pomposa One In A Million che sancisce la definitiva consacrazione degli Eclipse come una delle migliori realtà del panorama melodic rock mondiale.

Un album suonato, cantato e prodotto in maniera eccellente da avere a tutti i costi e che si candida ad entrare a pieno diritto nella top 5 di fine anno.

Find Me – Nightbound – Recensione

13 Settembre 2024 6 Commenti Paolo Paganini

genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Leggendo il corposo curriculum di Robbie LeBlanc non si può non notare come i Find Me ricoprano un ruolo molto importante nella sua lunga carriera. Affiancato come sempre del fedelissimo Daniel Flores i “ragazzi” danno alla luce un album di fresco AOR a tinte westcoastiane, probabilmente il migliore della loro discografia. A fare da apripista troviamo il singolo di lancio Never Be Alone, un brano dal ritmo sostenuto ma pieno zeppo di melodia sulla quale la voce potente e pulita di Robbie si adatta alla perfezione. Di tutto rispetto anche il lavoro chitarristico affidato ad Andi Kravljaca e la sezione ritmica guidata da Flores e Trobro.

Con I See You In Everyone si inaugura una serie ininterrotta di canzoni dal refrain di facile presa che ci porteranno fino alla fine dell’album senza mai avvertire un vero e proprio calo. Questa caratteristica però risulta alla fine anche il punto debole del disco. I brani sembrano troppo uguali tra di loro con la voce di Robbie che si appoggia sempre comodamente sullo stesso registro per cui ad ogni traccia ti viene da pensare: “ma non l’ho già sentita prima?” Manca sicuramente una potenziale hit d’altri tempi o una ballatona di qualità che ci faccia saltare sulla sedia e che stemperi l’uniformità delle undici tracce che, alla alla lunga, potrebbero altrimenti un po’ annoiare.

Complessivamente possiamo comunque dire che Nightbound sia un onesto disco di AOR, fatto con sapienza e mestiere, da ascoltare piacevolmente in macchina senza troppe pretese, magari nel tragitto che ci porta da casa al lavoro, per cominciare bene la giornata.

 

Danger Zone – Shut Up! – Recensione

12 Settembre 2024 7 Commenti Paolo Paganini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

Graditissimo ritorno della storica band italiana capitanata dal chitarrista Roberto Priori affiancato dagli altri due membri fondatori Paolo Palmieri alla batteria e Giacomo Gigantelli alla voce. Le travagliate vicissitudini di questa formazione hanno inizio addirittura nei primi anni ’80 quando l’hard rock era nel suo massimo splendore ed emergere se si era italiani costituiva un’impresa pressoché impossibile. Forti di una encomiabile determinazione i ragazzi arrivarono ad un soffio dallo sfondare nel mercato americano ma una serie di sfortunate traversie e soprattutto l’uragano grunge che si abbatté sul mercato musicale negli anni ’90 ne soffocò definitivamente ogni velleità. I ragazzi non si sono però persi d’animo e nel 2011 sono tornati a fare musica pubblicando da allora ben quattro album (Line Of Fire – 2011, Undyng – 2012, Closer To Heaven – 2016 e Don’t Count On Heroes – 2019).

A sei anni di distanza ecco arrivare fresco fresco questo Shut Up!, carico di pezzi di ottima caratura. L’hard rock classico la fa da padrone nelle undici tracce di cui si compone e nelle quali l’abilità alla sei corde di Roberto Priori costituisce il valore aggiunto trascinante per questo disco. La formula proposta è quella di un robusto hard rock guidato dalla ruvida e caratteristica ugola di Giacono Gigantelli, impreziosito dagli assoli di grandissima qualità di Roberto Priori (sempre sugli scudi), sorretto da una sezione sempre precisa e impreziosito dai calibrati inserti di tastiere di Pier Mazzini.

L’hard rock italiano continua dunque a dimostrare la sua vitalità e capacità di rinnovarsi, mantenendo sempre quella passione e quel sound distintivo che lo caratterizzano. La traccia “I’ll Make It Right” sembra raccogliere l’essenza di un genere che non smette mai catturare l’attenzione con i suoi riferimenti a Generation Radio, Revolution Saint e Nitrate, mentre “Faithless Ways” richiama l’energia cruda dei primi lavori dei Firehouse. È evidente che ci sia una dedizione alla qualità e un desiderio di sperimentare, come dimostrato dalle tracce vivaci “I Like It” e “Evil”, e dalla coinvolgente “Hurt”.

Questo disco rappresenta non solo un ritorno alle radici per molti fan dell’hard rock melodico, ma anche un passo avanti verso nuovi orizzonti musicali. Speriamo che questa ondata di creatività e talento continui a fiorire e a regalarci musica di qualità per molti anni a venire. Bentornati Ragazzi!