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19 Luglio 2022 0 Commenti Vittorio Mortara
genere: Aor
anno: 2022
etichetta: Pride & Joy
Giungono all’atto secondo i rockers tedeschi She Bites. E lo fanno con una cantante nuova di zecca, la bionda Marion Welch, che vanta esperienze con svariati artisti della scena rock e pop tedesca ed internazionale, oltre ad essere praticamente la sosia della connazionale jazz singer Barb Jungr. La creatura del chitarrista dei Lioncage, Lars Konig, affina il songwriting e proclama che il nuovo album possa costituire la colonna sonora ideale per l’estate dei fans di Journey, Survivor ed FM… Al di la di tali esagerate affermazioni, il disco è piuttosto godibile. Marion ha una bella voce. Forse non proprio rock: le sue influenze non si chiamano Ann Wilson, Joan Jett o Lee Aaron, ma piuttosto Annie Lennox, Sharleen Spiteri e, soprattutto, Tina Turner. Proprio per questo l’insieme alla fine risulta piuttosto originale. La base strumentale è garantita dal duo Lioncage Konig/Lucas e dal batterista di esperienza Karsten Kohl. Niente male anche la produzione.
Il primo pezzo, “Eye of the storm” spiazza per il contrasto fra il riffone kraut rock e la linea vocale che più turneriana non si può. Incuriosito da quest’inizio, mi lascio intrigare dalla commistione di AOR e Texas della successiva “Little song” e dalle atmosfere R&B di “Hunter”. La pop “Running” pare provenire dalla colonna sonora di una pellicola ottantiana, mentre “Never ending story” è forse il mio brano preferito: ritmo sostenuto, belle sovrapposizioni dei cori, atmosfera elegante ed un’ottima prova interpretativa della Welch. L’ospite di lusso Dan Reed impreziosisce col suo vocione la ballad “True love”, in perfetto stile Network degli ultimi album. continua
19 Luglio 2022 4 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Hard n' Heavy
anno: 2022
etichetta: Atomic Fire
Nota di redazione : Anche se in ritardo, causa infortunio, il nostro indomito Giorgio ha portato a termine la recensione quindi anche se ci scusiamo per il ritardo, speriamo che lo sforzo sia apprezzato.
Il mio primo approccio con Michael Schenker è stato, giocoforza data l’anagrafe, all’inizio degli anni 80 quando ho conosciuto gli Scorpions e ho acquistato in sequenza gli ultimi tre album che la band di Rudolf Schenker aveva pubblicato, uno di questi era “Lovedrive”, nel quale aveva clamorosamente fatto ritorno il fratello più giovane, che era appena uscito dagli U.F.O., ma neanche il tempo di assaporare il lavoro della sua Flying V assieme al fratello più vecchio, che Michael se ne era già andato per formare quello che, tuttora, è il suo gruppo (marchio?) più longevo, ossia il Michael Schenker Group, con il quale seguiva le orme hard rock degli U.F.O. per trasportarle nell’imperante nwobhm. Quattro decadi dopo, diversi rientri alla corte di Phil Mogg, diverse incarnazioni del Group e diversi gruppi autocelebrativi dopo, ecco tornare il carrozzone del MSG, perchè di questo si tratta, data la quantità abnorme di ospiti famosi chiamati dal biondo chitarrista a rimpinguare le fila del Group vero e proprio.
La bio parla di un gruppo che, perlomeno dal vivo, accompagna Michael e tanto per cambiare alla voce chi c’è? Ma certo, proprio lui, Mr.mille gruppi Ronnie Romero, che non sto qui ad elencarvi a quanti progetti ha prestato le sue, ottime, doti vocali, altrimenti nel 2023 non avrei ancora finito di scrivere, ma proprio per il fatto che si tratta di un progetto dove Michael vuole interpreti diversi a secondo del pezzo eseguito, ecco alternarsi altrettanti cantanti eccellenti quali Michael Kiske e Ralf Scheepers a rendere il tutto più appetibile per chi apprezza queste “ammucchiate” in stile Avantasia e più confusionario per chi vi sta scrivendo. Intendiamoci, il livello non è basso e a mio parere, è particolarmente alto in “A king has gone”, dove troviamo alla voce Kiske nel pezzo che è dedicato a Ronnie James Dio e ai Rainbow di “Rising” e qui correggo l’inesattezza presentata dalla bio allegata dall’etichetta, dove si dice che, oltre a Tony Carey, che esegue “Calling Baal” al synth moog, come tributo all’intro di “Tarot woman”, brano d’apertura del capolavoro uscito nel 1976, Schenker avrebbe reclutato la sezione ritmica originale di quell’album, cosa impossibile, dato che sia Jimmy Bain che Cozy Powell hanno lasciato la vita terrena, quindi Bob Daisley e Bobby Rondinelli, che pur hanno fatto parte dei Rainbow, sono due ospiti di lusso, ma c’entrano davvero poco. Detto questo il brano rimane, come struttura e interpretazione, il migliore di “Universal”, certo per evidenti motivi sembra più un pezzo degli Helloween che jammano con i Rainbow dell’epoca, con l’assolo che sembra uscito dalla Stratocaster del Man in Black, ma , direte voi e il resto? continua
14 Luglio 2022 0 Commenti Lorenzo Pietra
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Rock Of Angels
Terzo lavoro in studio per i Devil’s Train , che con questo Ashes & Bones tornano più in forma che mai e con una line up cambiata per due quarti, dove troviamo il veterano Jorg Michael che ha suonato dietro alle pelli per una serie smisurata di gruppi hard rock (Saxon, Running Wild….), la voce e la mente di R.D. Liapakis, il basso esperto di Jens Becker e la chitarra tagliente di Dan Baune che formano un gruppo di tutto rispetto e sfornano un album di ruvido hard rock ai confini col metal tutto guidato sotto l’etichetta greca Rock of Angels.
Le canzoni sono tutte di grande effetto, a partire dal potente hard rock con venature blues The Devil & The Blues, la seguente energia di Girl Of South Dakota col suo suono caldo a tratti metal. Non mancano i momenti più easy listening con You Promised Me Love che strizza l’occhio alla melodia fino ad arrivare a momenti puramente blues con Smell Sex Tonight, dove il sentore Whitesnake si fa più imponente. La title track Ashes & Bones ha il sound dei Black Label Society, con le chitarre ruvide ma sempre potenti, mentre Rock N Roll Voodoo Child è un hard rock molto southern col basso in primo piano dove troviamo nuovamente un tocco un po’ Whitesnake un po’ Heavy. Altra traccia Southern ruvida e sporca è Man With A Gun , col suo riff molto hard rock, l’assolo melodico e dove la voce di Liapakis si fonde perfettamente col pezzo.
IN CONCLUSIONE:
Se amate l’hard rock sanguigno e il Southern con tinte blues non lasciatevi scappare questo album caldo, potente e melodico. Nulla di nuovo ma un disco che è il perfetto continuo dei due predecessori.
08 Luglio 2022 38 Commenti Samuele Mannini
genere: Aor
anno: 2022
etichetta: Bmg/Frontiers
Oramai mi sto specializzando in gatte da pelare e questo Freedom è forse la più difficile che mi sia capitata finora…
Un disco dei Journey è sempre un evento e bisogna prenderlo con la giusta serietà, sarebbe facile lasciarsi andare a frasi mirabolanti e chiuderla li, consapevole che comunque è difficile parlare male degli Dei dell’Aor, ma io non sono il tipo da ascolto superficiale e dalla lode facile ed ho trovato diverse beghe all’ interno di un disco che resta comunque di alto livello.
Intanto, quindici canzoni sono oggettivamente tante, almeno un paio si potevano risparmiare, in quanto non all’altezza delle altre. La pecca più grossa però è il missaggio di diversi brani che risulta caotico e pregiudica spesso il completo godimento delle canzoni. Ora decidete voi se appartenete al partito di: meglio una bella canzone che suona malino o una canzoni così così con suoni magnifici, ma insomma, stiamo parlando dei Journey ed io certo non mi aspettavo una produzione così carente da gente che da cinquant’ anni calca studi di registrazione e palcoscenici su scala mondiale. Faccio delle ipotesi: probabilmente il fatto che il disco sia stato composto e suonato in separate sedi e poi assemblato non ha aiutato, inoltre mi è parso di notare una eccessiva attenzione al dettaglio e ad inserimenti di piccole parti strumentali ed intrecci forzati che probabilmente, hanno fatto perdere il quadro d’insieme della canzone appesantendola eccessivamente, rendendo il tutto ingombrante ed impastato. Queste le mie personalissime impressioni sul sound finale, certi difetti risultano meno evidenti se il disco viene riprodotto su un impianto hi-fi di medio livello, ma scordatevi di ascoltare questo disco su una cassa bluetooth o su un dispositivo mobile… sarebbe un massacro. continua
08 Luglio 2022 2 Commenti Yuri Picasso
genere: Melodic Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Non il solito disco. Non la solita zuppa trita che il genere ha offerto noi nell’ultimo decennio.
In questa band troviamo l’ex Winger Cenk Eroglu accompagnato dai figli Efe e Reis Ali (rispettivamente chitarra/tasti d’avori e batteria), il singer John Bisaha (The Babys) e special guest quali Pat Mastelotto (Mr Mister) e Ray Coburn (Honeymoon Suite). Durante un’intervista Eroglu ha espresso che parte del materiale qui presente è stato composto tra il 1984 e il 1998 definendo l’incontro col singer risolutivo ed essenziale per completare e pubblicare quei demo.
Un disco Melodic Rock, raramente hard, distante dal classic AOR, intriso da una soffice e costante vela malinconica ancor meglio plasmata dal timbro di Bisaha.
Si parte con la Title track, il pezzo maggiormente hard del lotto, posto giustamente in partenza per caricare il livello di adrenalina. Da “Reason to Die” si presetano le keys, mai invadenti ne vere protagoniste (eccezione fatta per un paio di intro) lungo l’airplay, le quali aiutano l’ascoltatore ad addentrarsi in un sentiero di colori tenui, denso di pensieri rilassanti e nostalgici. “Scar” possiede un arrangiamento easy, moderno, dove possiamo apprezzare le doti canore di John Bisaha. “Too Late” parte come una ballad ottantiana per poi svilupparsi in un mid tempo notturno dal ritornello assolutamente riuscito. Spazio alla solare e incoraggiante “100 Thousand Years”, impreziosita da tasti d’avorio delicati. La ballad “Never Again” mi riporta alla mente il modus operandi di Stan Meissner e della scuola canadese in generale. Suona datata, anacronistica, proprio per questo l’ho apprezzata molto. Verso la fine troviamo il rock di “Cry Me a River” e l’elettroacustica “Get Away” (Che bell’assolo !), buona compagnia durante un giro in auto in solitaria lungo l’Aurelia (quella ho a disposizione in Liguria 🙂 ).
Fate attenzione al lavoro di Eroglu alla 6 corde; senza strafare aggiunge bontà a ogni brano rendendo ancor più centrato l’obiettivo finale. Promuovo questo ‘Perfect Storm’; ha una sua identità, vuole comunicare un’unica gamma di sensazioni, e tramite canzoni che si muovono tra l’onesto e il pregiato risulta idoneo al proprio intento.
08 Luglio 2022 5 Commenti Vittorio Mortara
genere: Melodic Rock / AOR
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Ragazzi, ma quanto è facile recensire un disco di Michael Palace? A cominciare dalla formazione: il ragazzo svedese di origini lituane suona tutti gli strumenti, canta, registra, mixa e produce. Alla Frontiers non resta che stampare i CD! Assolutamente semplice è anche raccontarvi della musica che fa: AOR vecchia scuola, con massicce dosi di tastiere ed i refrain al centro dell’attenzione. Musica piacevole e suonata con perizia. Non una canzone alla quale si possa muovere una critica seria. Disco dell’anno, quindi? Beh, questo no. E’ vero che nessuna canzone presta il fianco a particolari critiche, ma altrettanto vero è che nessun pezzo fa esaltare l’ascoltatore per originalità o virtuosismi o carica adrenalinica. Insomma è un disco da ascoltare in rilassatezza e positività. Ti fa compagnia per un’oretta e, alla fine, ti ricordi pure qualche ritornello. Tanto che ti riproponi di riascoltarlo quanto prima.
Si prenda ad esempio l’iniziale “Fifteen minutes”, anthemica e corroborante. Ma anche la successiva “Westbound”, un pezzo di classico AOR all’americana, ben ritmato e dal ritornello furbetto. “Too old for this” ci porta indietro di trent’anni buoni e quello stacchetto all’altezza del solo qualche brividino ce lo fa provare… La hard “Money can kill” mi ricorda un po’, con le dovute proporzioni, Zebra e China Rain. Il lento “The driver” flirta con il pop ed il country, mentre “Time crisis” mi ricorda alcune vecchie cose di Kane Roberts, soprattutto per l’intonazione di Michael. continua
07 Luglio 2022 12 Commenti Giulio Burato
genere: Aor
anno: 2022
etichetta: self released
Prima mia recensione di una band spagnola. Era dal 2019, in cui uscii il bellissimo EP intitolato “Starting all over”, che attendevo un album completo dalla band di Murcia; ed è proprio dalle canzoni che lo compongono che si articola questo “Back in the game”, titolo con chiari intenti del rimettersi in careggiata, dopo diversi anni e diversi ottimi singoli, qui presenti.
Questo album è infatti ricco di grandi canzoni; fossero uscite sotto il nome altisonante di qualche band storica del rock, ora farebbero a botte nelle classifiche di mezzo mondo.
Non esagero infatti nel dire che questi musicisti ci sanno proprio fare, per idee e melodie, sempre azzeccate e ficcanti.
Si parte con una delle perle di questa band che si rifà in buona parte ad un AOR “muscolare”; “Starting alla over” è una canzone semplicemente perfetta con un ritornello che sale, e ancora sale a toccare il cielo. Non da meno la seconda traccia “Perfect Rhyme” devota ai primissimi Bon Jovi con quel giro di piano che tanto li ricorda. La purezza e freschezza di “Nothing left for us” mi porta a pensare ad un mix tra Alias e Nelson, un paragone prestigioso che la band spagnola dimostra di meritare; bel lavoro alle chitarre. Non finiscono però le sorprese; la quarta traccia, una ballad, fa impallidire la concorrenza; piano bonjoviano in sottofondo con un crescendo che va a braccetto con la pelle d’oca. Ebbene sì, “Something about you” è un vero gioiello! Carica ed energica “All for love”, mentre “I am the one” ha note di chitarra care ai Van Halen; quest’ultima canzone chiude le canzoni già presenti nell’ EP del 2019. continua
06 Luglio 2022 3 Commenti Vittorio Mortara
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Escape
Il morbo che ti fa prendere i tuoi assi per mescolarli a piacere al fine di ottenere cosiddetti “supergruppi” pare abbia colpito, oltre alla nostra Frontiers, anche la Escape music. Si dice abbiano presentato Steve Mann a Chris Ousey e tra i due sia scattata subito la scintilla che, dal nulla, ha dato origine a questo platter… Ne prendiamo atto e ci poniamo serenamente all’ascolto. Premesso che Chris ha un posticino speciale nel mio cuore, ho sempre la netta convinzione che non riesca ad esprimere il meglio di sé stesso lontano dalla nave madre Heartland. E non si smentisce neppure in questo caso. L’abbinamento con la famiglia Mann (ci sono anche Angela al basso e Jason ai cori) ha dato vita ad un lavoro dal livello fortemente altalenante: i pezzi più Heartland sono molto gradevoli, melodici e credibili, mentre i brani più hard, dall’influenza vagamente NWOBHM, risultano un tantino ostici e non riescono, a mio giudizio, a graffiare.
E così la rocciosa “The flag”non è sicuramente il miglior opener di tutti i tempi, nonostante l’intro atmosferica ed un Chris in ottima forma. Il dualismo dell’album salta subito all’orecchio quando passi alla successiva “And so it begins”, hard al punto giusto ma con una splendida linea melodica che ti acchiappa da subito. “Brave new world” non è una cover dei Maiden ma un pezzo di hard rock spedito che ricorda alcune vecchie cose di Aldo Nova. Originale e piacevole “I’ll tell you when to stop”, saltellante funky’n’roll infarcito di controcanti. Mi aggrada anche la semiballad “Broken”, sulla quale fanno capolino le esperienze di Mann con il McAuley Shenker Group. continua
05 Luglio 2022 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Modern rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
In questa calda estate, in uscita il nuovo progetto rock del prolifico cantante e compositore spagnolo Isra Ramos, pronto a scrivere una nuova pagina del metal iberico.
Sonorità elettroniche e atmosfere misteriose accompagnano l’opening track “Atreyu”, a combinare il metal e il pop, risultando complessivamente un brano riuscito e compatto. “The Nowhere Man” continua sulla stessa linea del pezzo precedente, con un mix tutto sommato azzeccato di modernità e fraseggi metal. L’elettronica, i virtuosismi chitarristici e la dolcezza del pianoforte si fondono perfettamente in “Blind Love”, pezzo sentimentale e godibile che convince sin dal primo ascolto. “The Sinner” presenta una trama più canonica, sempre influenzata dalle sonorità dei grandi del genere, ma senza mai osare qualcosa in più. Usciamo per un attimo dal mood dell’album per godere della leggera “Snow White (At The End Of The World)”, popeggiante e melodica, che in alcuni passaggi ricorda altre grandi cavalcate contemporanee. “Evergarden” (con la collaborazione di Ronnie Romero) torna nello stile dei brani precedenti, sempre arrembando e ammiccando ad alcune componenti musicali tipiche dei Muse (influenza facilmente riconoscibile in tutto il lavoro). Passa veloce e lieta la dolce “Fiona”, sentimentale e profonda canzone d’amore, che apre le porte alla sfrenata “Together”, pestata e tagliente, sempre sul filo del rasoio tra il metal e il pop, tra moderno e il passato.
Poco resta da dire sull’accoppiata “Atomic Heart” e “Invincible”, sempre profondamente emotive, sempre con un ampio uso dell’elettronica, a fortificare le tesi sul “marchio di fabbrica” di Isra Ramos in questo album. Le danze si chiudono con la title track “Hope”, breve brano acustico chitarra e voce, che ci consegna un lavoro sicuramente convinto, dalle caratteristiche ben delineate e perseguite fino in fondo, ma che a tratti paga troppo la vicinanza con le band dalle quali l’autore ha attinto sonorità e stilemi.
05 Luglio 2022 7 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Progressive Metal / Melodic Metal
anno: 2022
etichetta: Frontiers Music
C’è molto di più che la sola incredibile vocalità di Tommy Karevik dietro al successo della band svedese Seventh Wonder, ma un conubio tra tecnica strumentale ed eccellente musicalità che si sviluppano attraverso un songwriting sempre ricercato e levigato, che sa essere allo stesso tempo granitico e leggero, arioso e metallico, semplice ma complesso.
Il loro nuovo studio album, The Testament (giugno 2022, Frontiers Music), rimane fedele allo stile musicale storico di questa formazione, che vuole suonare come un progressive metal dai tratti possenti, ma ricco di melodia e di ariosità, al punto di sfociare nel sound più rock melodico in ogni suo rallentamento. Aspetto (quest’ultimo riguardante la melodicità) che è sì aiutato dalla voce elegante, precisa, calda e avvolgente di Karevik, ma che ha nella cura del dettaglio tecnico e melodico che fuoriesce dal tocco preciso sulle corde del chitarrista Johan Liefvendahl uno dei suoi punti di forza. Grandi riff, passaggi più soffici e levigati, assoli di pregievole fattura, si distaccano – per poi riunirsi e tornare un tutt’uno – con le parti di tastiere sinfoniche del sempre elegante Andreas Söderin, autore di un tappeto sonoro ancora una volta di primissimo ordine, che regala colore e stile con ognuna delle sue trame musicali. E se si parla di perizia dei musicisti, è inevitabile parlare del roboante, vario e a tratti selvaggio drumming di Stefan Norgren, completato dal groove sempre preciso e attento di Andreas Blomqvist al basso, che è messo in risalto in ognuno dei suoi cambi di ritmo da una produzione in studio molto ben tarata, e di grande dinamismo sonoro.
continua