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Pearls & Flames – Reliance – Recensione

14 Ottobre 2022 2 Commenti Giulio Burato

genere: AOR / WEST COAST
anno: 2022
etichetta: Pride & Joy Music

Marcus Nordenberg, Sven Larsson, Tomas Coox sono tutti ex componenti della band svedese Coastland Ride e ora sono al timone dei Pearls & Flames. La bella voce di Marcus viene affiancata nella stesura delle canzoni e nella co-produzione del sempre presente e poliedrico Tommy Denander. “Reliance” esce tramite l’etichetta Pride & Joy in questo inizio di autunno, o meglio, in questo prolungamento di estate 2022.

L’album ci propone dodici canzoni di puro AOR/West-coast, delicato e di ottima fattura, fresco e con una classe innata di chi lo suona. Un bel gioiello, o prendendo spunto dal loro nome, una bella perla. Le canzoni scivolano all’ascolto con sublime fluidità; prendono spunto da grandi band del passato come Chicago e Toto. A questi ultimi va subito dedicata la splendida “It Never Took Away Your Smile” che non farebbe brutta figura se cantata in un concerto di Steve Lukather e soci, e se vogliamo dirla tutta, non è l’unica canzone. A proposito di classe innata, mi hanno stupito in assoluto “Goodbye” e “[I Don´t Know Who I Am] Anymore”; quest’ultima potesse passare da qualche importante emittente in heavy rotation credo farebbe man bassa di likes. Ma senza girare casualmente per le dodici tratte, mi soffermo anche semplicemente all’iniziale “Can We Find The Love” che ha tutto, ma proprio tutto, per essere l’esempio lampante di come possa essere (ancora) scritta una grande canzone nel 2022. Un songwriting e un arrangiamento da “chapeau”. Le coinvolgenti tastiere e la stesura di “Temple of lies” sono invece da applausi come un gol in serpentina di Messi. Le sorprese però non sono ancora finite. Sentire poi “Love Can Heal Your Heart”, puro miele per i padiglioni auricolari, o la maggiormente ritmica “Secret love” col suo ficcante ritornello, presente anche nella bella “It Won´t Get Better… and it won’t get better” (si nota che mi è rimasto in mente questo It won’t get better”?).
Sono sincero, non avrei mai detto che un album di questo genere musicale mi prendesse bene come “Reliance”. Una sorpresa.

Concludo segnalando la presenza di una canzone strumentale, “Wires And Frames” con le sue venature prog care ai già citati gruppi storici e con la canzone meno incisiva del lotto, ossia “Follow The Road” che ha affinità con qualcosa di già sentito. Piccolo “difetto” in una grande performance musicale.
Per gli amanti del genere e anche no, da comprare senza passare dal via.

Satin – Appetion – Recensione

14 Ottobre 2022 5 Commenti Denis Abello

genere: Aor
anno: 2022
etichetta: Art of Melody - Burning Mind

Quel ruffianaccio di Satin arriva al terzo giro dopo il debutto omonimo del 2014 e l’album It’s About Time del 2017.
Terzo album, tappa importante, che spesso ha segnato la consacrazione o il declino di molti artisti e band. In questo caso, se non di consacrazione vera e propria, si parla sicuramente di un’ottima continuazione nel classico AOR anni’80 zuccheroso, ricco di melodie “ruffiane e piacione” (come piacciono a me) come dal debutto ci ha saputo regalare il norvegese Satin!

One Man Band in cui Satin fa tutto, e per tutto intendo proprio TUTTO, dalla stesura dei pezzi, al cantarci e suonarci sopra tutti gli strumenti fino ad arrivare alla produzione e mastering… ed il bello è che fa tutto questo ad un livello sempre alto! Mitico!!! Il risultato è un concentrato di personalità che si fatica a ritrovare oggi giorno in altre produzioni che puntano sulle coordinate sonore di questo Appetition! Coordinate che per chi non conoscesse il nostro norvegese giocano praticamente sempre su melodie ultra carchy, ritornelli che più orecchiabili non si può, cori e coretti a profusione, con la mielosa e personale voce di Satin a confezionare un pacchetto suonato e prodotto inoltre in maniera impeccabile!
Fermi gente, perchè so già cosa state pensando! Questo è il classico disco dalla presa facile che ascolti una volta, ti stampa il mezzo sorrisetto e al secondo giro siamo già a noia… e invece no! Perché sotto quella patina piaciona c’è uno studio dei pezzi ed un uso degli strumenti che emerge ascolto dopo ascolto mantenendo viva l’attenzione su questo Appetion! continua

Wildness – Resurrection – Recensione

13 Ottobre 2022 24 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers

Tornano dopo due anni gli svedesi Wildness che dopo la chiusura della label Aor Heaven si accasano presso la nostrana Frontiers. Stessa formazione e stesso mood anche per questa release che segue il tracciato del precedente Ultimate Demise, sempre in bilico tra potenza e melodia, tra energia ed orecchiabilità. Il mio apprezzamento alla voce di Erik Forsberg che con la sua timbrica possente si sposa alla perfezione alle cavalcate ‘metallose’ di alcuni brani riuscendo a mantenere la voce calda e sensuale dove la canzone lo richiede.

Certo il canovaccio sonoro non si discosta per nulla dal loro tipico sound e se questo può essere un limite per chi cerca la novità ad ogni costo, garantisce invece una certezza per gli amati del sound scandinavo più votati al rock duro, il perfetto ibrido tra gli Europe, i Talisman ed i Pretty Maids.

Tra le canzoni che mi sono più piaciute segnalo la martellante Release The Beast, il mid tempo tastieroso di Tragedy con il suo ritornello ultra catchy ed il sensuale lento Dawn Of Forever. Meritevoli, inoltre, l’ ottantiana Love resurrection e la conclusiva ed epica Eternity Will Never Fall. Il disco non mostra assolutamente cali di tensione e scorre piacevole e ‘piacioso’ nella sua alternanza tra brani più serrati e più easy. Una nota sul suono della batteria che in questo episodio mi da meno l’idea dell’effetto fustino ed è più presente e realistica contribuendo ad irrobustire il sound globale.

Per concludere quindi un disco qualitativamente in linea col predecessore, che non mancherà di piacere agli affezionati di queste sonorità ai quali consiglio caldamente l’acquisto.

Queensrÿche – Digital Noise Alliance – Recensione

13 Ottobre 2022 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Heavy/Prog metal
anno: 2022
etichetta: Century Media

No, non parlerò dei Queensrÿche come fanno quasi tutti, non parlerò dell’abbandono di Chris DeGarmo, di Geoff Tate e di quello più recente di Scott Rockenfield, non mi metto a piangere sul latte versato, il passato, pur glorioso, è passato e non tornerà, quindi, usciamo da questo circolo vizioso e parliamo di quello che fanno i Queensrÿche adesso, in fondo che colpa ne hanno i due unici membri originali rimasti se Chris ha voluto fare il pilota d’aereo e se, scazzi a parte, Geoff ha preferito fare cose più alternative?

Questo “Digital noise alliance” è il sedicesimo album in studio del gruppo di Bellevue, se comprendiamo anche “Take cover” del 2007 composto solamente di rifacimenti e ci consegna una band che ha superato, perlomeno a livello di line up, l’ennesimo problema, inserendo l’ex Kamelot Casey Grillo alla batteria in pianta stabile e richiamando Mike Stone al posto del defezionario Parker Lundgren; così, con una formazione apparentemente stabile, è stato rilasciato il disco che, a mio parere, ci consegna una band più coesa e conscia, con il risultato che le incertezze, sia a livello musicale, che a livello di band, evidenziate durante il precedente “The verdict” diventano un lontano ricordo e riportano i Queensrÿche allo stesso piano del bellissimo “Condition hüman” del 2015. Se in molti pensavano ad un ritorno alle origini metalliche nel momento in cui Todd LaTorre entrò nella band ed in parte questo si realizzò con “Queensrÿche” del 2013, quegli stessi fan, io compreso, si dovettero ricredere quando l’influenza a livello compositivo di LaTorre, che, ricordiamo, aveva sostituito anche Midnight nei Crimson Glory, si è manifestata facendo capire che non era solo un rimpiazzo o un pedissequo emulatore, ma un artista con idee valide che ha composto assieme a tutti gli altri questo album, dove la consapevolezza è la principale base sulla quale si poggiano tutte le canzoni, è chiaro che il metal è il fondamento di “Digital noise alliance”, ma lo è nella maniera in cui lo intendono da sempre i Queensrÿche, con soluzioni non ordinarie, con saliscendi di umori continui, con sprazzi di classe cristallina che accostano al prog e con testi che non lasciano mai lo spazio al “true”, ma che anche stavolta scavano nell’animo umano e ne interpretano gli stati con elegante espressività, leggetevi il testo di “Lost in sorrow” e mi darete ragione. Dobbiamo proprio parlare del livello tecnico della band? continua

A-Z ( A thru Z) – A-Z – Recensione

12 Ottobre 2022 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Metal Blade

Dopo i King Of Mercia ecco un altro supergruppo con membri dei Fates Warning, in questo caso Ray Alder e Mark Zonder.

Dai nomi coinvolti, dal logo alla Asia e dalle entusiastiche recensioni e pareri che ho letto in giro, sinceramente mi aspettavo di più. Soprattutto la presenza di Vivian Lalu, già autore quest’anno di un disco che probabilmente entrerà nella mia top ten, mi ha incoraggiato ulteriormente a fare mio questo cd aspettandomi il disco dell’anno, ma invece no… Sicuramente un buon disco, ma personalmente nulla di trascendentale. Non è che voglia fare il bastian contrario in tutti i modi e ovviamente questa è la mia opinione personale, ma visto che ho comprato il cd ed oramai l’ho ascoltato diverse volte ho tratto le mie conclusioni e ve le riporto cercando di argomentarle al meglio.

Quello che mi ha lasciato più perplesso è l’assenza di una vera linea sonora che attraversi il disco. Ovvero, c’è si tanta roba, ma forse è pure troppa e lo spaziare tra generi diversi rende l’album un po’ indigesto e più difficilmente fruibile. Chi mi conosce sa che sicuramente non sono spaventato dalla commistione tra hard rock, prog, aor etc.. ma quello che sento qui mi pare un po’ forzato e non completamente naturale. Altro problema (almeno per me) è la voce di Ray Alder che non mi dà più l’idea di avere lo spunto di un tempo e mi pare si accontenti di ‘vivacchiare’ sullo stesso registro un po’ troppo monocorde. Quello che ne risulta è alla fine un disco con qualche bella canzone e suonato veramente bene, ma che a dispetto delle potenzialità non decolla mai definitivamente.

Le canzoni che ho più gradito sono probabilmente quelle con l’impronta più prog e tra esse c’è sicuramente The Far Side of the Horizon, dove dopo un intro serrato alla Symphony X la trama si sviluppa molto progressiva e delicata mettendo in mostra tutte le abilità degli strumentisti. Rise Again è un lento ricercato e melodico che ha qualche assonanza dei Journey, mentre probabilmente la canzone che mi è piaciuta di più è il puro progressive di Run Away, dove mi sembra di scorgere la quadratura del cerchio o perlomeno è così che mi sarei aspettato tutto il disco. Cito anche Borrowed Time, canzone varia e tecnica, ma con un ritornello veramente accattivante.

Insomma, il disco è gradevole e con gli ascolti cresce, ma probabilmente avevo aspettative troppo alte che non sono state completamente soddisfatte, il dibattito è aperto….

 

Santa Cruz – The Return Of The Kings – Recensione

11 Ottobre 2022 2 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: M – Theory Audio

Tornano, rinascono ancora una volta, i finlandesi Santa Cruz: nuova formazione e nuovo approccio per una band nata con diversi obiettivi, sviati in passato da una travagliata storia di gruppo.

Sonorità e ritmiche tostissime introducono “Here Comes The Revolution”, che già dal titolo ci immerge nella rivoluzione sonora della band, più oscura e metal in queste prime tracce rispetto ai primi lavori, quasi a strizzare l’occhio ad atmosfere più groove/southern metal. Continuiamo sulla stessa lunghezza d’onda con “Take Me To America”, dall’intro testualmente molto mansoniano, non molto originale e globalmente un po’ banale. Arriviamo a “Under The Gun”, molto più gradevole, spigliata e strumentalmente suadente, un ottimo singolo, d’impatto e dalla grande carica energetica e tecnica. “Disarm” è il classico pezzone lento, ballad intensa e scontata in un album di questa fattura. Con “Standing My Ground” torniamo alle vibrazioni dei brani precedenti, ovvero ritmiche crude e brutali, il tutto in un pezzo di durata inferiore ai 3 minuti, come la successiva “Shot”, rapida, molto metallara, ma nella sua interezza convincente e riuscita. “Another Round” si aggira su atmosfere molto intriganti, molto ben congegnato, decisamente un picco positivo all’interno di questo lavoro. Con “Gunshot” si rientra nella solita formula hard rock, incrementando la ripetitività e il senso di già ascoltato. Rilassata e contemplativa, “1000 Cigarettes” può considerarsi una traccia fruibile a un pubblico ampio, gradevole, limpida, come la successiva “Would You Believe It”, anch’essa simile e discordante rispetto alla prima parte dell’album. “Stay” è più una coda breve che un brano e va a chiudere questo lavoro strano, fatto di alti e bassi, di ripetizioni e novità, che necessita ancora molto probabilmente di una stabilizzazione sia stilistica che interna ai nuovi Santa Cruz.

The Dead Deasis – Radiance – Recensione

07 Ottobre 2022 2 Commenti Francesco Donato

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: SPV/Steamhammer

A distanza di un solo anno dal precedente “Holy Ground” tornano roboanti i Dead Deasis, band che aveva suscitato parecchio interesse in quell’occasione proprio per l’avvicendamento alla voce tra due grandi personaggi quali John Corabi e Glenn Hughes. Il caro vecchio Glenn si conferma al microfono e al basso anche in questo “Radiance” (uscito il 30 Settembre per SPV/Steamhammer) accompagnato in questo sesto capitolo del progetto Dead Deasis da David Lowy e Doug Aldrich alle chitarre e dal ritorno di Brian Tichy alla batteria.

Puntando subito al cuore dell’album dopo svariati ascolti, possiamo dire che il filo conduttore di Radiance risieda proprio nell’alchimia creata da questi quattro vecchi marpioni dell’hard rock, capaci di portare in dote riffs semplici, lineari ma superbamente magnetici sui quali l’eleganza canora di Hughes poggia con estrema maestria. I pezzi in sé non brillano di luce propria, non c’è un pezzo che a fine ascolto si farà ricordare più di un altro, ma sicuramente è un album che complessivamente regalerà grande gioia agli storici estimatori di Glenn Hughes e agli amanti di certe sonorità hard seventies. Dall’opener “Face Your Fear” ai due singoli scelti come apripista “Shine On” e “Radiance” quanto detto sopra non lascia spazio a sbavature o cali di qualità.

Se proprio vogliamo scovare un punto di riflessione, occorre metter davanti un paragone (inevitabile!) con la precedente gestione Corabi. La sensazione è che in questo Radiance (dubbio in verità presente anche nel precedente “Holy Ground”) si perda un pizzico di rabbia e di quella fumosità che la voce di Corabi sapeva regalare, il tutto appannaggio dell’eleganza cristallina di Hughes. Radiance resta un ottimo album, probabilmente di gran mestiere come i suoi musicisti, ma solido e pratico nel farsi capire senza mezze misure.

The Cult – Under The Midnight Sun – Recensione

07 Ottobre 2022 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Rock
anno: 2022
etichetta: Black Hill Records

Ritrovare i The Cult è un pò come ritrovare dei vecchi amici con i quali sei stato bene e hai condiviso dei bei momenti della tua vita e credo proprio di parlare per molti di voi che state leggendo queste righe e nonostante siate degli estimatori della branca più easy e leggera della musica rock, non penso che, almeno una volta nella vostra vita non abbiate canticchiato “Rain”, “Lil devil” o “Fire woman”, magari non ve ne vantate con gli altri, ma al fascino oscuro e al tempo stesso lascivo di queste canzoni, non si può resistere; ma perché sto rivangando nel passato della band di Ian Astbury e Billy Duffy? Semplice, perchè l’undicesimo album dei rockers inglesi va a riscoprire un po’ di quel misticismo che permeava i loro esordi, quando più che rivolgersi a Led Zeppelin e Ac/Dc, i The Cult si tuffavano nella darkwave, sia a livello compositivo, sia per l’immaginario, ma non temete se, al contrario di me, non vi interessa l’argomento, non siamo di fronte ad un album puramente nostalgico e neanche ad una riproposizione anacronistica di “Love” o addirittura “Dreamtime”, ma piuttosto ad una visione del soggetto 2.0, cosa della quale non posso che esser contento.

Pur nella sua breve durata, solo poco più di trentasette minuti, in “Under the midnight sun” ci sono molte atmosfere cangianti, molti espressioni musicali che quasi sembrano colorarsi a secondo del momento, cosa che i nostri hanno (quasi) sempre fatto, con risultati magari alterni, come il deludente album autointitolato del 1994, ma con altri decisamente più riusciti , ad esempio “Love”, “Electric”, “Sonic temple” o anche il penultimo “Hidden city”; l’apertura di “Mirror” sembra quasi una traghettata tranquilla verso lidi sicuri, senza che si alzi il vento e si increspino le onde, cosa che incomincia ad intravedersi nel secondo brano e anche secondo singolo pubblicato “A cut inside”, il cui video psichedelico che potete vedere in calce alla recensione, ben rappresenta un brano dall’incedere esaltante con atmosfere post rock ben incastrate nel telaio dark, il tutto con l’anima hard rock che oramai i The Cult esprimono fin dal 1987, anno della pubblicazione del già citato “Electric”, questa cosa si ripropone anche in “Vendetta X”, anche se in forma più semplice, in linea con certo rock gotico di più facile ascolto e da qui vorrei parlare del lavoro chitarristico di Billy Duffy, che, come al solito riesce a trovare quei giri vorticosi che lo caratterizzano a fronte anche di un assolo di gusto e non invadente, come in tutto l’album, cosa che depone a favore di un disco che, come già detto dura solo trentasette minuti, un po’ troppo poco per giustificare la spesa alla quale sia le case discografiche, che lo stato, leggi IVA, ci impongono, quindi siamo di fronte ad un album fatto di luci artistiche ed ombre di confezione? continua

Perfect Plan – Brace For Impact – Recensione

06 Ottobre 2022 6 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers

Arriva a 4 anni dal debutto la prova del fuoco (a rimanere in tema col layout della cover) per gli svedesi Perfect Plan; il terzo disco è una disamina fondamentale per una band che ha saputo attirare l’attenzione su sé stessa in un’epoca in cui l’accessibilità a pubblicare un disco è inversamente proporzionale alle possibilità di venderlo fisicamente, visti i costi di produzione radenti il minimo storico e la possibilità odierna di streammare legalmente. Difficile emergere quando la quantità abbonda, regola applicabile in tutti i temi portanti della vita.

Il meraviglioso singolo “In And Out Of Love” tratto dal debutto aveva spianato il cammino a Kent Hilli e compagni, i quali confermarono la bontà della proposta con una serie di cover famose, riarrangiate e accompagnate da video suggestivi (“Stay”, “That Was Yesterday”, “Show Me The Way”) e dal secondo lavoro a nome ‘Time For a Miracle’, qualche punto superiore al debutto. Con queste premesse e aspettative piuttosto alte ci prestiamo ad ascoltare ‘Brace For Impact’. continua

Higway Sentinels – The Waiting Fire – Recensione

06 Ottobre 2022 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Louder than loud

Quando si ha a che fare con progetti di questo tipo, mi scorre sempre un brivido lungo la schiena e un dubbio mi prende: siamo di fronte al solito mischione di ospiti buttati dentro per attirare l’attenzione e senza alcun coinvolgimento, soprattutto emotivo? Beh, potrei dire in parte, perché una parvenza di gruppo gli Highway Sentinels sembra che ce l’abbiano, visto che l’idea è nata da due amici di vecchia data, ossia Jimmy Waldo, tastierista fondatore degli Alcatrazz e dei New England, oltre che collaboratore di Quiet Riot, Vinnie Vincent, Blackthorne, Graham Bonnet Band, Pretty Maids, W.A.S.P., The Skull, The Scream, e Steven Rosen, chitarrista, produttore di un oscuro demo delle Driven Steel nel 1994 assieme allo stesso Jimmy e giornalista che ha avuto a che fare con nomignoli tipo Led Zeppelin e Van Halen.

A quanto pare i due artisti hanno deciso di circondarsi di chitarristi solisti diversi, a seconda del tipo di canzone, ma di creare comunque una sorta di band, reclutando alla voce David Reece, il quale non credo che abbia bisogno di molte presentazioni, bastano due nomi: Bangalore Choir e Accept, al basso Don Van Stavern, attuale bassista dei Riot V, ex S.A.Slayer e collaboratore dello stesso Waldo negli ultimi due album degli Alcatrazz e alla batteria, quel mostro di bravura che è Mark Zonder, batterista storico di due leggende quali Warlord e Fates Warning ed ora negli A-Z assieme all’ex compagno nei Fates Warning, Ray Alder e la cosa sa molto di supergruppo, quindi, è così? Sì. È necessario questo spiegamento di forze? No, perchè la musica degli Highway Sentinels è quell’hard rock in bilico con l’heavy metal che fece la fortuna, tanto per dare un’idea, del MSG primo periodo, ossia quello meno melodico, quello che, in modo molto ruffiano, strizzava l’occhio sia ai 70s che alla nwobhm e quindi non è certo circondandosi di musicisti di alto spessore che “The waiting fire” può fare il salto di qualità, le composizioni sono di livello normale, nè scarse, nè ottime, in parole povere avrebbero potuto essere suonate anche da completi sconosciuti e molto probabilmente avremmo ottenuto lo stesso effetto. Si sente che le canzoni risalgono al passato, alcune di queste come “Afterlife” e “We won’t be forgotten” derivano dal periodo di Jimmy Waldo con i Blackthorne, mentre “Victim of the night” era stata scritta da David per il debutto dei Bangalore Choir, ma non venne inserita, tuttavia questo non è un male, nonostante la presenza di chitarristi enormi quali Joe Satriani e Paul Gilbert, i pezzi scivolano via snelli e senza molti fronzoli, anche la piuttosto lunga “Tortured soul”, dall’incedere quasi doom non fa eccezione, anche perché se chiudete gli occhi vi sembra di essere di fronte ai Candlemass, magari quelli con Mats Levén alla voce. continua