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24 Ottobre 2024 1 Commento Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Escape Music
In uscita, per tutti gli amanti del sound hard rock anni ‘80, il nuovo lavoro dei Daytona, superband di volti noti nell’ambiente, che propone brani tosti e genuini, dallo stile pregevole.
Addentriamoci nel mondo Daytona: “Welcome To The New World” è un manifesto coerente del loro stile, un’ottima apertura che ci fa capire la natura della musica proposta. “Kelly” presenta una pasta sonora scarna e non particolarmente impattante, sfociando senza grandi rimpianti in “Through The Storm”, più riflessiva e coinvolgente, dalla buonissima intensità emotiva. Sempre sulla stessa linea dei brani precedenti troviamo “Downtown”, cadenzata, dalle atmosfere oscure e crudeli. “Time Won’t Wait” ci risveglia sensazioni malinconiche e uggiose, giocando molto sulla dinamica strumentale, dando così prova di una buonissima tecnica individuale da parte della band. Senza allontanarci molto dal mood dell’album, troviamo “Looks Like Rain”, non molto originale e a tratti un po’ scontata, così come la successiva “Town Of Many Faces”, sfortunatamente non molto accattivante. Con “Slave To The Rhythm” qualcosa si muove, avvicinando il sound della compagine svedese a qualcosa di più americano, senza mai eccedere in originalità, ma limitandosi a dare sfoggio di grande quadratura e tecnica. Arriviamo alla title track, “Garder La Flamme”, brano molto articolato, dalle molteplici sfaccettature, pregevole e finalmente frizzante. Cala il silenzio sulle note di “Where Did We Lose The Love”, sempre orientato verso un hard rock melodico ben riconoscibile.
Nel complesso ci troviamo di fronte ad un lavoro ben eseguito e prodotto, ma che pecca molto per originalità e dinamica, risultando a volte ridondante e monotono, nonostante la presenza di alcuni spunti tecnici interessanti.
22 Ottobre 2024 0 Commenti Denis Abello
genere: Melodic rock
anno: 2024
etichetta: Indipendente
I Moonpark, band originaria della Repubblica Ceca, sono nati come tante altre realtà dalla comune passione per il melodic rock / hard rock di alcuni musicisti che, sin dagli esordi, hanno saputo combinare influenze classiche e contemporanee. Fondati nei primi anni 2000 da Jiri Doležel (chitarrista) e Michal Koláček (cantante), i Moonpark hanno iniziato a farsi strada nel panorama europeo grazie a un sound che mescola melodie accattivanti e riff emozionanti nel più classico stile del melodic rock di matrice Europea.
“Good Spirit” è infatti un album che mescola rock melodico e hard rock, supportato da una produzione precisa e pulita. Il disco è stato curato dal produttore americano Derek Saxenmeyer che gli ha donato una qualità sonora pulita e ben bilanciata.
Le canzoni variano dalle più energiche, come “Dancing In A Lie” e “Blinding Fire”, a quelle più malinconiche e riflessive, come “Light In The Morning” e “When We Were Young”. La title track “Good Spirit” è probabilmente il cuore del disco, con la sua combinazione di melodie accattivanti e una forte energia.
Uno degli elementi di spicco dell’album è il lavoro di chitarra di Jiri Doležel, che spazia tra riff potenti e ritmi più delicati. Nei brani più veloci, come “Rock ‘n’ Roll Train”, la sua chitarra impone un ritmo trascinante, mentre in tracce più emozionali, come “Kiss Me” e “When We Were Young”, emergono arpeggi delicati e assoli melodici. La sua abilità nel bilanciare tecnica e sentimento contribuisce a dare coerenza al progetto.
La voce di Michal Koláček, sebbene solida, in alcuni brani risulta un po’ monotona e priva di quella carica emotiva che ci si aspetterebbe da alcune delle tracce più intense. Cito ad esempio “No Way Back”, dove la sua interpretazione risulta piuttosto statica. Questo porta a rendere alcuni momenti di questo Good Spirit meno coinvolgenti di quello che potrebbero essere.
In definitiva comunque “Good Spirit” si distingue come un album ben prodotto e coeso, capace di soddisfare gli appassionati di rock melodico unito ad una spruzzata di vigoroso hard rock. Band e album interessanti, come si direbbe… Buona la prima aspettando il colpaccio con il prossimo giro.
21 Ottobre 2024 1 Commento Alberto Rozza
genere: Progressive Metal
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Uscita esplosiva per questa ultima parte del 2024: il supergruppo italiano progressive metal DGM arriva alle nostre orecchie con un nuovo album tutto da scoprire.
Una lieve e suadente chitarra acustica ci apre le porte dell’universo DGM: “Promises” si presenta così, con un’innata eleganza, una dinamica importante e una tecnica strepitosa, declinata attraverso tutti gli strumenti consueti e meno. Arriviamo così alla titanica “The Great Unknown”, che segue la filosofia strumentale della band e che ci permette di apprezzare appieno le doti vocali di Marco Basile, in un crescendo di emozione e di virtuosismo. Pienamente aderente al genere progressive, “The Wake” ci impressiona per complessità e trame oscure, un rollercoaster di sensazioni sempre più coinvolgenti. “Solitude” stupisce per dinamica e per gusto, un condensato di tecnica votata alla sensibilità, dalla coralità e dall’armonia complessiva veramente pregevole. Arriviamo alla folle “From Ashes”, movimentata e pestata, molto metallara e tirata, capace di far battere il piede durante l’ascolto e contemporaneamente lasciare a bocca aperta l’ascoltatore per un’esecuzione assurda. Giungiamo a “Final Call”, variegata e spietata, un piacere per le orecchie e un enigma per la mente: come si può rendere così godibile un tale labirinto musicale? “Blank Pages” può definirsi un lento, una ballata, un classico brano per rendere l’ascolto più dinamico e rilassante, una sorta di momento relax prima del colossale finale (che non si fa attendere): arriviamo dunque a “… Of Endless Echoes”, quasi una title track, quasi 15 minuti di pura poesia in musica, dalle variazioni e dai colpi di scena esagerati, un vero e proprio compendio di progressive metal.
In conclusione, ci troviamo di fronte a una delle migliori sorprese discografiche del 2024 (o riconferma, a voi la scelta): un lavoro maturo, eseguito in modo eccellente, tecnicamente sopraffino ma allo stesso tempo piacevole; interessante sarà inoltre ascoltare e vedere live la riproposizione di queste deliziosissime tracce.
21 Ottobre 2024 2 Commenti Paolo Paganini
genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Alzi la mano chi tra gli amanti dell’’AOR non conosce il nome di Tommy Denander, polistrumentista, produttore, compositore che calca ormai la scena musicale mondiale da decenni collaborando con i più svariati artisti, passando da Alice Cooper ai Deep Purple, da Anastacia a Tina Turner, oltre ad una serie di progetti che lo vedono coinvolto in prima persona tra i quali annoveriamo anche i qui presenti Radioactive giunti ormai al sesto album da studio. Come accaduto in precedenza Tommy si avvale della collaborazione di una nutrita schiera di ospiti tutti con un curriculum da paura.
L’album è praticamente un tributo ai Toto sia nelle sonorità che nella struttura delle composizioni, con qualche inserimento qua e la di Journey, Def Leppard e Foreigner. Il disco suona compatto e la maestria e la cura con cui tutte le canzoni sono confezionate è davvero qualcosa di impressionante. Nulla è fuori posto, nessun assolo non all’altezza tutto perfetto. Ma c’è un ma… eh si altrimenti non si spiegherebbe il voto finale. La verità è che pochi dei brani in scaletta prendono davvero il cuore dell’ascoltatore. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad una copia dei Toto ma senz’anima. Alcuni brani più diretti come Sentimental, Shame On You, Sahme On Me o Hard Times To Fall In Love riescono a fare centro già dal primo ascolto mentre altri quali In A Perfect World, Reset o Midnight Train sembrano una vera e propria clonazione della band si Steve Lukater. Ci stiamo lamentano del brodo grasso? Si forse è così e sicuramente molti di voi non saranno d’accordo con le mie considerazioni ma la sensazione che si ha è proprio quella di trovarci davanti ad un mero esercizio stilistico. Proprio per quanto detto sopra non me la sono sentita di andare oltre al voto che trovate in fondo alla recensione.
Lascio a chi tra di voi avrà voglia di ascoltare questo cd se considerarlo un capolavoro da avere a tutti i costi e o se derubricarlo a uno dei tanti ottimi progetti del buon Denander.
15 Ottobre 2024 3 Commenti Yuri Picasso
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Tornano con cadenza regolare da oramai oltre dieci anni gli House of Lords, capitanati dall’inossidabile James Christian, voce e basso, e da una restante line-up ad oggi solida, cristallizzata dall’ingresso di Mark Mangold alle tastiere (già presente sull’ottimo ‘Saints and Sinners’ del 2022, qui la nostra review).
‘Full Tilt Overdrive’ rappresenta l’episodio più heavy nella nutrita discografia targata HOL, con un Jimi Bell in assoluto spolvero, non tralasciando la matrice Pomp tipica della band americana.
L’opener “Crowded Room” tinge le coordinate dure tramite un vigoroso up tempo orecchiabile.
Se “Bad Karma” suona eccessivamente ruffiana, convince maggiormente il melodic rock di “Cry Of The Wicked” funzionale all’economia del disco.
La title track rappresenta una scheggia melodica impazzita, con quell’uscita di tastiere che tanto ricorda lo stile di Greg Giuffria.
La sudista “Taking The Fall” rappresenta un ottimo intermezzo con un coro vagamente gospel che aggiunge appeal e difformità;
“You’re Cursed” funge da “copia e ricorda” rispetto al sound sviluppato dai tempi dell’ottimo ‘World Upside Down’ (2006).
L’episodio più moderno, marchiato da riff di chitarra a cavallo tra il new metal e l’alternative, si intitola “Not The Enemy”, pienamente promosso.
Con le tastiere di Mangold protagoniste ci avviciniamo al territorio ballad con la cadenzata “Don’t Wanna Say Goodbye”, radiofriendly, semplice e d’impatto se non fosse per il testo del ritornello abusato negli anni.
A non dimenticare le linee vocali drammatiche tipiche ottantiane abbiamo “Still Believe”, consona e non eccessivamente convenzionale per via di parti soliste ispirate che possiamo gustare lungo l’intero airplay.
Subito dopo la notturna e superba “State of Emergency”, una sorta di Whitesnake di 1987 in salsa AOR, uno degli highlights del disco.
Chi ha estrema familiarità con le uscite degli HOL noterà una certa ridondanza in merito alle soluzioni stilistiche adottate, contrapposte a un songwriting convincente, solido e a tratti divertente.
Questo potrebbe essere l’unico difetto a volerne trovare uno, unito a un suono di batteria a tratti non convincente.
Rimanendo alle parole di James Christian, sperando che la salute rimanga dalla sua visto la battaglia che ha iniziato a combattere contro una forma di cancro, c’è la volontà di portare il disco in sede live. Incrociamo le dita.
15 Ottobre 2024 0 Commenti Paolo Paganini
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Libero Corp
Cosa più unica che rara trovare sulle nostre pagine la recensione di un cantautore italiano che scrive e suona i propri brani per dipiù cantando nella nostra lingua. E’ il caso del debut album di Thomas Libero giovane e talentuoso musicista padovano che come racconta lui stesso sulla sua pagina facebook riesce finalmente a concretizzare un progetto nato nel 2018 e passato attraverso mille vicissitudini. Il genere proposto mi ricorda molto l’hard rock italiano di metà anni ’90 che vide protagonisti gruppi come Animali Rari, Dhamm, Rats, Nikki, Filippo Malatesta e pochi altri. Band che riscossero un discreto successo mescolando elementi del cantautorato rock italiano alle melodie dell’hard rock americano e che cercarono di cavalcare l’ultima onda dell’hard rock da classifica che in quegli anni era già stato travolto nel resto del mondo dal ciclone grunge. Punto di forza del disco sono sicuramente le melodie di facile presa ed i testi nei quali ognuno di noi potrà sicuramente ritrovarsi almeno in parte. Lungo le dodici tracce che compongono l’album possiamo trovare brani più riflessivi ed intimi come In Questa Città, o la menestrellesca La Mia Guerra che mi ha ricordato molto il Filippo Malatesta dell’epoca La Figlia Del Re per passare a pezzi come Disordine Dei Mille Perché, vicina allo stile dei Dhamm e alla toccante balata Eri Tu per arrivare al puro rock di Lasciatemi Stare, Questa Storia La Scrivo Io, Nella Notte e la conclusiva Favole.
Nel complesso possiamo sicuramente parlare di un buon lavoro penalizzato da una produzione un po’ troppo plafonata che soffoca sia a livello vocale che strumentale lo slancio che Thomas riesce a dare alle proprie composizioni. Come dice lo stesso autore “ora è tempo di finire questa storia e aprire un nuovo capitolo”. Le premesse per un futuro brillante ci sono tutte. Aspettiamo con ansia il nuovo materiale che verrà e che saremo bel lieti di recensire.
13 Ottobre 2024 3 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: AFM
Dopo aver cantato per qualche anno col mio gruppo di amici la cover di “Sleeping My Day Away”, ogni nuovo disco dei D-A-D è, per chi vi scrive, un momento di trepidante curiosità e “Speed Of Darkness” segna anche un momento significativo per i D-A-D, un’opera di hard rock di alta qualità, piena di entusiasmo e divertente da ascoltare. La band, con una storia di quarant’anni alle spalle, mostra una maturità artistica che traspare in ogni traccia, offrendo un mix di riflessione e energia rock’n’roll. Questo album non solo celebra la loro carriera ma promette di aggiungere un nuovo capitolo emozionante al loro già impressionante repertorio.
“God Prays To Man”, la traccia che apre l’album, è un chiaro omaggio al rock classico, con un riff che ricorda i grandi del genere e i rimandi ai AC/DC sono sin troppo evidenti, anche se integrati con variegati tocchi blues. I singoli, “1st, 2nd & 3rd” dai ritmi serrati e le atmosfere ‘sculettanti’ e “The Ghost” dove le atmosfere sono più ammiccanti e vicine all’ autocitazione, hanno già riscosso successo tra i fan, fungendo da ottimo antipasto per il full-length. La title track, “Speed Of Darkness”, al contrario delle aspettative generate dal titolo, ci offre un mid-tempo accattivante che mette in risalto il marchio di fabbrica della band in modo assolutamente non scontato. Il mood generale dell’album è un mix tra classe e sapienza arrangiatoria. .”Head Over Heels”, ad esempio, segue questa direzione, dimostrando come i D-A-D siano capaci di reinventarsi pur rimanendo fedeli al proprio stile ed anche se magari la tendenza dell’ album è su pezzi un po’ meno tirati ed immediati che in passato, è un segnale evolutivo che a me non dispiace per nulla.
‘I D-A-D sono più che una band, sono un esperimento sociale’, come affermato dal bassista Stig Pedersen. Sono la prova che la musica può unire e può evolvere resistendo alla prova del tempo. Celebrare quarant’anni di carriera è un traguardo che poche band riescono a raggiungere senza interruzioni, e i D-A-D lo hanno fatto mantenendo la loro integrità e la loro passione per la musica.
L’album dei D-A-D è un esempio lampante di come la musica possa evolversi e rimanere rilevante attraverso i decenni. La band ha dimostrato una capacità unica di rinnovarsi, mantenendo un legame forte con i fan storici e allo stesso tempo tentando di conquistare il cuore delle nuove generazioni. Il loro stile, che fonde energia e passione, è un esempio nel mondo del rock, e la loro abilità nel trasmettere emozioni attraverso la musica è indiscutibile. Nonostante due/tre brani meno incisivi, l’album è comunque una testimonianza della loro arte senza tempo e merita di essere ascoltato ed inserito nelle vostre collezioni.
11 Ottobre 2024 6 Commenti Denis Abello
genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers Music Srl
I Fans of the Dark sono una band svedese nata dall’idea del batterista e compositore Freddie Allen nel 2020. Il progetto ha preso forma con l’intento di riportare in vita l’energia e le sonorità del rock melodico e dell’AOR degli anni ’80 e ’90, unendo atmosfere nostalgiche a una produzione moderna e accattivante. Dopo aver coinvolto il talentuoso cantante Alex Falk, la band ha rapidamente guadagnato attenzione nella scena musicale underground grazie a un sound ricco di influenze classiche ma con un’identità forte e personale.
Nel 2021, i Fans of the Dark pubblicano il loro omonimo album di debutto (qui la recensione), a cui fa seguito nel 2022 l’album di pari livello Suburbia (qui la recensione).
L’album Video, terza fatica dei Fans of the Dark, è ancora una volta un tributo nostalgico agli anni ’80 e ’90, e come nei precedenti lavori lo fa rivisitando intelligentemente quel periodo con un sound moderno. Novità di questo lavoro è la “perdita” del lato forse più diretto e grezzo che caratterizzava il precedente lavoro a favore di un sound molto più radiofonico e fortemente anni’80.
La produzione è curata in ogni dettaglio, richiamando il meglio dell’AOR e del melodic rock più seminale riuscendo al contempo a mantenere un’identità valida e riconoscibile. I Fans of the Dark portano l’ascoltatore in un viaggio fatto di atmosfere dense di ricordi, con suoni vintage intrecciati a elementi attuali.
Ancora una volta, oltre all’ottimo songwriting di Allen, un ruolo chiave lo gioca la voce di Alex Falk, che si erge insieme ai pezzi come uno dei protagonisti dell’album. Falk dimostra una grande versatilità, passando da un approccio potente ed energico nei pezzi più rock come “Let’s Go Rent A Video” e “Savage Streets”, a interpretazioni più emotive e introspettive in ballate come “Christine” e “Tomorrow Is Another Day”. La sua voce dal timbro cristallino e la capacità di spaziare tra alti e bassi con disinvoltura aggiunge profondità con interpretazioni che arricchiscono il tessuto emotivo dell’album.
Dal punto di vista musicale, ogni traccia presenta arrangiamenti ricchi e stratificati, con chitarre potenti e tastiere avvolgenti che creano un’atmosfera cinematografica. In pezzi come “The Neon Phantom”, le sonorità più cupe e drammatiche rievocano il sound dei Queensrÿche, mentre brani come “The Wall” richiamano l’epicità di Def Leppard, grazie ai cori grandiosi e alle chitarre decise. “Find Your Love” abbraccia un mood più spensierato e glam, con influenze tra Bon Jovi e Poison, e un ritornello facilmente memorizzabile che risplende per la sua energia positiva.
L’album spazia tra atmosfere più cupe e brani più leggeri con grande abilità. “In The Bay Of Blood” si distingue per il suo sound sinistro e i riff pesanti che richiamano Dio e i primi Iron Maiden, mentre “The Dagger Of Tunis” introduce elementi esotici e progressivi, simili a quelli esplorati da band come Asia o Kansas.
In definitiva, Video è un album che riesce a bilanciare perfettamente la nostalgia degli anni ’80 con un sound moderno, capace di attrarre nuovi fan senza tradire le radici del genere. Grazie alla produzione curata, alle influenze ben dosate e alla voce carismatica di Alex Falk, i Fans of the Dark ancora una volta creano un’opera che rende omaggio al passato, ma suona attuale e credibile.
11 Ottobre 2024 1 Commento Vittorio Mortara
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: self released
Sono passati oltre dieci anni dal debutto autointitolato del 2013. Nel mentre si sono susseguiti diversi platter con formazione sempre piuttosto rimaneggiata, nella quale si sono date il cambio deiverse stelle più o meno luminose del firmamento hard rock presente e passato. Quello che, invece, è cambiato pochino è il sound dei nostri, sempre legato a doppio maglio alla tradizione rockettara stradaiola, grezza e priva di fronzoli, di fine 70/inizio 80. Si sentono influenze pesanti di AC/DC e root rock americano. I pezzi sono tutti di breve durata. Il tratto distintivo consta nei riff taglienti di Aldrich sui quali si stendono le melodie vocali della graffiante voce di John Corabi. Dunque, facciamo una premessa: questo genere di musica è un po’ una sorta di sabbie mobili. Se ci rimani invischiato rischi grosso che le tue canzoni sappiano un po’ troppo di sentito e risentito, senza che i pezzi aderiscano irreversibilmente alla corteccia cerebrale di chi ascolta. Poche bands sono riuscite a creare un proprio tratto distintivo che permetta loro di svettare fra le altre ed essere riconosciute al primo ascolto. Purtroppo, secondo me, i Daisies non fanno parte di questo ristretto novero. Metteteci anche che la voce di Corabi a me non va giù dai tempi dei Motley ed il quadretto è completato. Che poi il singolo/title track sia un po’ più catchy (ma sarebbe meglio dire digeribile), che “I wanna be your bitch”, “I’m gonna ride” e “Take a long ride” possano risultare gradevoli ai fans dei fratelli Young e che la grungie “Back to zero” possa essere apprezzata dagli estimatori dell’infame disco dei Crue, non riescono però a salvare il lavoro dall’insufficienza.
Chi vi scrive ritiene che questo “Light’em up” non aggiunga assolutamente niente a quanto già prodotto dal gruppo. Acquisto consigliato solo a chi vuole avere tutto della band o dei singoli musicisti.
11 Ottobre 2024 1 Commento Denis Abello
genere: AOR - Prog Rock
anno: 2024
etichetta: Escape Music
Cosa aspettarsi da una band AOR con venature prog che si chiama Keys? Riff graffianti di chitarra e batterie pestate? Direi proprio di no! Direi che da un progetto che si chiama Keys e che nasce dall’idea di Mark Mangold, tastierista leggendario noto per aver fondato i seminali American Tears oltre che per gli splendidi Drive She Said senza dimenticare il suo lavoro con artisti come Michael Bolton e Cher, dove si va a parare sia ben chiaro… una profusione estrema di tastiere.
Jake E, ex frontman di Amaranthe e attualmente con i Cyhra si unisce in questi Keys! Insieme i due hanno creato un album che fonde il rock classico con suoni completamente elettronici cercando di dare vita ad un’esperienza unica, particolare e nostalgica.
Mark Mangold porta il suo inconfondibile tocco sulle tastiere, trasformandole nel fulcro di ogni brano. Il suo stile utilizza arrangiamenti sofisticati e epici assoli di tastiera che rimpiazzano le tradizionali chitarre. Oltre a questo lato, Jake E offre una performance vocale che è un omaggio agli anni ’80, con la sua voce graffiante e melodica che sa emozionare e dare energia alle tracce più dinamiche.
L’album The Grand Seduction, secondo lavoro a nome Keys, si apre con la traccia omonima, un pezzo di 9 minuti che fonde melodie epiche miste a incursioni di Hammond. A seguire canzoni come “All I Need” e “Shining Sails”, che ci riportano all’arena rock era. Tuttavia la totale dipendenza da strumenti sintetizzati, soprattutto nella sezione ritmica, penalizza il risultato sonoro finale del tutto.
Il brano “Vortex” emerge come uno dei momenti migliori, con il suo ritornello potente e l’atmosfera epica, mentre tracce come “Skin and Bones” e “Turn to Dust” si spostano sul pop elettronico e il synthwave, creando un’interessante fusione tra passato e futuro. Valida e apprezzabile anche la presenza di diverse ballads, anche se va detto che potrebbero anche portare ad un effetto finale fin troppo edulcorato, effetto già enfatizzato dalla massiccia presenza delle tastiere.
In sintesi, The Grand Seduction è un album che si lascia ascoltare e tenta un approccio differente all’AOR. Gioca a favore l’esperienza dei musicisti coinvolti. Inutile sottolineare che questo è un album volutamente orientato a chi ama ed ha amato le tastiere tipiche degli anni ’80 e a cui non dispiace un approccio elettronico. La presenza di molti suoni sintetizzati lo porta invece ad essere evitato da chi è alla ricerca di un sound grezzo, diretto e assolutamente autentico.