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07 Novembre 2022 3 Commenti Francesco Donato
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Negli ultimi anni mettere in piedi superband con musicisti navigati sembra essere diventata più che una consuetudine in casa Frontiers Records. Operazione che ha portato molto spesso a risultati quasi strabilianti, come nel recente lavoro dei Generation Radio, in altri casi (pochi per fortuna) l’amalgama non sempre ha girato come ci si aspettava.
Prima di analizzare dove questo debutto dei Killer Kings si colloca in relazione a quanto detto sopra, andiamo a presentare brevemente la band. Il progetto Killer Kings parte dalle intenzioni di due ottimi musicisti quali Gregory Lynn Hall (noto per la sua militanza nella band di inizio millennio 101 South) e Tristan Avakian (già chitarrista nel favoloso unico album dei Red Down). A completare la formazione il nostro Alessandro Del Vecchio al basso e tastiere e Nicholas Papapicco alla batteria.
L’album parte con la title-track pezzo arioso che vede la partecipazione di Tommy Denander (Radioactive) alle tastiere. I successivi brani “I Will Be Stronger” e “Higher” risultano le prove più convincenti dell’intero album, non a caso scelti come singoli apripista. La percezione che pervade tutto lo scorrere dei quasi 50 minuti di musica è che pur trovandoci di fronte ad un album suonato e arrangiato a dovere, con la stoffa dei musicisti sempre pronta a dar man forte in termini di arrangiamenti e soluzioni non banali, l’intensità brano dopo brano vada lentamente adagiandosi, facendo venir meno quella spontanea verve capace di far la differenza nel decollo dei pezzi.
Seppur in un periodo ricco di furibonde uscite probabilmente sarebbe bastato veramente poco ad un album così per dare il colpo di reni decisivo ed emergere.
03 Novembre 2022 1 Commento Giorgio Barbieri
genere: Prog Rock/ Metal
anno: 2022
etichetta: Autoproduzione
Ma che sorpresa questo primo episodio sulla lunga durata per i siciliani Silver Nightmares, davvero un bel salto avanti rispetto al pur buon Ep “The wandering angel” del 2020, probabilmente perché in questo album il fulcro della band viene definito con l’ingresso in pianta stabile del cantante Michele Vitrano, il quale da un’impronta riconoscibile al sound molto vario della band, il quale affonda le sue radici in quasi tutto lo scibile prog e hard’n’heavy, con sprazzi di aor e rock classico, insomma c’è tanta carne al fuoco e il pericolo può essere quello tanto ricorrente in dischi dove le influenze si sommergono le une alle altre, ossia fare un calderone sonoro, molte volte pretenzioso e avviluppato su se stesso, ma i Silver Nightmares schivano con classe questo ostacolo, ponendo, a mio parere, in primo piano una cosa fondamentale: la forma canzone, e allora cerchiamo di spiegare il contenuto musicale di “Apocalypsis”, album che è un concept basato sulla storia dell’umanità vista con occhi critici.
“Saphiens” è un’inizio d’impatto, ma allo stesso tempo ricercato, con le tastiere e gli arrangiamenti aor/prog a fare da contraltare alle ritmiche toste ed è la partenza del viaggio dell’uomo, con tutte le difficoltà che lo hanno caratterizzato, “Nefertiti” è un brano più magniloquente, pieno di sfaccettature con un assolo centrale davvero ispirato e descrive la storia della regina egizia, sostenitrice del culto di Aton, il disco del sole, grazie ad una delle tante grandi interpretazioni di Michele Vitrano, cantante magari non esplosivo, ma dal pathos e dall’espressività notevoli, “Etemenanki” racconta l’epopea dei Babilonesi con un brano coinvolgente, maestoso, che ben esprime la grandeur di questo popolo, sorretta dalle due voci di Michele e di Monica D’Anna, “Sea of Sikelia” è chiaramente dedicata alla terra dei nostri, la Sicilia, tributo irruento sostenuto da un hard rock corposo e immediato, “Scorn of time” ha un’approccio quasi psichedelico settantiano ed anche la chitarra ci porta a quel tempo, il tutto rende l’idea della domanda principale che si fanno i Silver Nightmares mentre assistono allo scorrere del tempo, sperando in un’esistenza migliore, continua
31 Ottobre 2022 4 Commenti Samuele Mannini
genere: Prog Rock
anno: 2022
etichetta: Self released
Formatisi nel 1985, i The Quest sono diventati famosi per la prima volta quando hanno vinto la Yamaha Band Competition nel Regno Unito nel 1987, vincendo il premio “Best Band” alla finale internazionale al Budokan di Tokyo. Nel 1993 pubblicarono il loro album di debutto “Do You Believe” su Now & Then Records, seguito dall’acclamato “Change” nel 1996 (che fu nominato come “Best Prog Album” da Frontiers Magazine). Sono stati in tournée in numerose occasioni durante questo periodo, a supporto di band quali: It Bites, FM e Magnum.
Questa è la storia in pillole dei The Quest; chi segue queste pagine, saprà probabilmente della mia passione per le sonorità prog e neo-prog e di quanto adori quando queste atmosfere si fondono con il rock melodico e con il metal. La prova è l’aver inserito l’album Change nella nostra rubrica dedicata alle Gemme Sepolte (QUI la recensione), figuratevi quindi la mia emozione quando sono venuto a sapere dell’uscita di nuovo materiale dopo ben 26 anni da quello che ritengo un piccolo capolavoro. Molto eccitato ho scritto al gentilissimo Steve Murray che ha acconsentito a mandarmi il file audio per ascoltarlo e farne una recensione. La formazione del gruppo è pressoché inalterata, unico cambiamento è che il basso è passato nelle mani dello stesso Steve e tutti e tutti i componenti del gruppo suonano come sempre a livelli eccelsi.
Veniamo al dunque quindi. Dopo 10 secondi di canzone ero già in estasi mistica, sembrava quasi che il tempo non fosse passato le atmosfere eteree dell’inizio rimandano al volo indietro a Change e ci guidano nello svolgimento del brano che seppur diviso in capitoli come da tradizione prog dura ben 20 minuti. Il primo capitolo è un vero trip tra atmosfere sognanti inframezzate da stacchi potenti e tecnici sempre sorretti dalla magnifica interpretazione vocale di Steve. Il Secondo capitolo è più oscuro e martellante e si stempera solo a tratti in una atmosfera più riflessiva nella seconda parte. Il terzo capitolo è un interludio pieno di speranza. Il Quarto è invece più onirico ed etereo e ci guida verso i conclusivi due in un crescendo emotivo fino al rilassato e speranzoso epilogo. Il viaggio all’interno del concept basato sull’amore tra genitori e figli è veramente appassionante e ricco di dettagli che coinvolgono l’ascoltatore in un tripudio di commozione e trepidazione.
Descrivere a parole una canzone (beh per modo di dire visto che dura 20 minuti) come questa è impresa ardua, ma sono sicuro che chi ama queste sonorità ne sarà subito rapito. Da parte mia dico che era ora di ascoltare ancora grande musica dai The Quest e spero in una edizione in formato fisico al più presto, auspicando di non dover aspettare altri anni per ascoltare nuovo materiale. Tenete dunque d’occhio i servizi di streaming perché l’uscita è prevista nel mese di Novembre.
Recensione aggiornata con il video completo dell’ep su YouTube.
26 Ottobre 2022 3 Commenti Vittorio Mortara
genere: Street Metal
anno: 2022
etichetta: Napalm Records
Chi sono i The New Roses? E che musica fanno? Beh, sono quattro ex-ragazzi giunti al quinto album in studio, hanno suonato in tour con grossi nomi, dagli ZZ Top agli Accept, maturando un’ottima coesione ed una altrettanto valida attitudine a comporre buoni pezzi. Ah, dimenticavo! Sono tedeschi ed in patria si sono piazzati sempre piuttosto bene nelle varie classifiche, esibendosi pure alla finale di Champions nel 2015 a Berlino. Cosa suonano? Beh, prendete la propensione dei connazionali Kissin’ Dynamite a fare canzoni ruffiane e tamarreggianti, sporcatela con un po’ dello street rock’n’roll dei Quireboys e ne avrete un’idea abbastanza precisa. Se poi ci mettete l’appoggio di una “major specializzata” come Napalm Records a garantire una produzione di buon livello, il risultato non può che essere apprezzabile.
“My kind of crazy” parte secco con un hard’n’roll diretto e dal coro appiccicoso. Godibilissimo il flavour southern di “Playin’ with fire”, mentre il lento dolceamaro “All I need is you” sa pizzicare le giuste corde dell’emozione. “The usual suspects” è il perfetto singolo da cantare a squarciagola ai concerti. “Warpaint” concede qualcosa al modernismo, fin troppo dura e cattiva. Mid tempo spaccaossa e ritornello anthemico: ecco a voi “In the dead of night”, altro pezzo che vi ritroverete a canticchiare già al secondo ascolto. Così come la ballata acustica “True love” vi farà sempre correre qualche brivido lungo la schiena. continua
26 Ottobre 2022 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard n' Heavy
anno: 2022
etichetta: Roar! Rock Of Angels Records
In uscita il nuovo album dei teutonici Mad Max, super band che festeggia i 40 anni di attività con un nuovo lavoro gustoso, ricco di spunti e grandi ospiti.
Apre in grande stile l’intensa “Too Hot To Handle”, ben strutturata e dalle atmosfere nostalgicamente hard rock. Si sale di livello con la poderosa “Days Of Passion”, brano intenso e dalla trama coinvolgente, tagliente e oscuro, complessivamente riuscito e di grande impatto. “Woman Like That” è un pezzone scanzonato, corale e tutto sommato piacevole, in linea con lo stile della band e senza grandi eccessi di originalità. Toni più caldi e accomodanti per “Best Part Of Me”, classico esempio di hard rock sentimentale, un cliché impossibile da evitare in un album di questo tipo, come la successiva “Rock Solid”, leggermente più lenta e contemplativa, ma certamente sentita e struggente. Si torna a martellare con “This Stage Is For You”, buonissimo pezzo arrembante e dal sapore retrò. Non ci scostiamo molto dall’andazzo dell’intero lavoro con “When It Stops”, gradevole, energico, leggermente banale. Arriviamo a “Stormchild Rising”, strumentalmente più heavy, inaspettato, che apre nuove prospettive all’ascoltatore, facendolo piombare in una dimensione non ancora esplorata dalle tracce precedenti. “Heroes Never Die” è il pezzo semi – lento intenso e serio che ancora mancava all’appello: musicalmente convincente, vocalmente corale e coinvolgente, non delude le aspettative. “Miss Sacrifice” è una chicca molto interessante, che esprime le grandi capacità della band e che ci conduce alla conclusiva “Freedom”, breve e acustica, giusto modo per congedarci dai Mad Max, che ci consegnano un buonissimo lavoro di studio, onesto, canonico e che incuriosisce anche per il risvolto che potrebbe avere nei live.
25 Ottobre 2022 2 Commenti Yuri Picasso
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2022
etichetta: RMB Records
Una Carriera in agrodolce. Così si può sintetizzare la storia artistica (almeno fino ad ora) di Micheal Bormann.
Sono passati quasi 20 anni dall’amara e conflittuale dipartita dalla sua creatura (Jaded Heart) e se da una parte il biondo crinito gode di stima e simpatia nel settore perché ha contribuito a mantenere viva la fiamma quando questa giorno dopo giorno si affievoliva (seconda metà anni 90) collaborando a tutti gli effetti a dischi ancora oggi godibilissimi e di valore, dall’altro lato non è mai riuscito a entusiasmare appieno con i suoi lavori solisti portando via ai recensori una sufficienza o poco più accompagnata da una metaforica pacca sulle spalle. La formula in questo secondo capitolo dei SUOI Micheal Bormann’s Jaded Hard (e il genitivo sassone del moniker ha un impressionante valore rafforzativo) non si discosta di molto dall’opera prima. Hard Rock melodico e canonico, consolidato, caratterizzato da un paio di picchi, un crocevia tra lo stile americano/europeo con un paio di inevitabili velature teutoniche. continua
24 Ottobre 2022 0 Commenti Giulio Burato
genere: Rock/Hard Rock
anno: 2020/2022
etichetta: Big Shot / Cargo
“Il nostro album di debutto è uscito poco prima che il COVID colpisse. Eravamo a metà di un Tour con Phil X, quando improvvisamente il mondo si è chiuso e quindi non siamo stati in grado di promuovere il disco quanto avremmo voluto. Pensavamo che quest’album avesse molto da dare, quindi abbiamo deciso di chiamare alcuni dei nostri amici in tutto il mondo per chiedere se sarebbero stati interessati a partecipare. Non mi aspettavo che la risposta fosse così epica, ed ora con le canzoni remixate e rimasterizzate e con l’aggiunta di alcuni nomi tosti, questo disco suona come avrebbe dovuto fare già da subito: grande, potente ed emozionante! Ci prepara bene per il nostro secondo studio album all’inizio del prossimo anno”.
Le parole del cantante/chitarrista del gruppo, Angelo Tristan, descrivono al meglio il significato della ristampa, con tanto di nuovo titolo, del primo album dei Collateral, già recensito nel nostro sito da Stefano Gottardi il 28/05/2020 (QUI la recensione).
“Re-wired” è stato sapientemente rimasterizzato e remixato; i suoni sono più limpidi e la qualità complessiva all’ascolto risulta di livello. È stato aggiunto l’inedito singolo, rilasciato il 07/10/2022, intitolato “Sin in the city” posto a fine scaletta. La cosa che rende la release maggiormente appetibile è il fatto che le canzoni sono state rifatte con la collaborazione di una serie di ospiti illustri. Da Rudy Sarzo a Jeff Scott Soto, da Kee Marcello e Sari Schorr, solo per citarne alcuni.
Per chi avesse, credo in tanti, mancato la prima uscita discografica, qui ci sono tutti gli ingredienti per provare ad ascoltare la sua “ri-cablatura”.
19 Ottobre 2022 6 Commenti Yuri Picasso
genere: Melodic Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Mese di Ottobre bollente in tema di uscite Melodic (Hard) Rock/AOR. Nomi altisonanti appartenenti alla casta dei vecchi Leoni come House of Lords, Stryper, Skid Row, Jaded Heart, e ulteriori nuove leve, più giovani, alla ricerca di conferme e aumento di consensi dettati da buoni lavori editi in precedenza. Due nomi su tutti quali Perfect Plan e Chez Kane.
La cantante inglese ha suscitato simpatia ed un considerevole interesse col debutto di Marzo dell’anno scorso, grazie al riuscito connubio artistico formato con Danny Rexon (Crazy Lixx) adornato dalla propria presenza scenica da rocker della porta accanto. Piacevolmente Semplice. Team d’azione giustamente confermato nel sequel qui recensito dal titolo ‘Powerzone’; susciterà opinioni contrastanti, dovute alle aspettative alte dell’ascoltatore e ad alcune scelte artistiche e di ‘facciata’ perlomeno opinabili.
I 3 singoli ad oggi evocano emozioni contrastanti; “I Just Want You” e “When We’re Young In Love” rappresentano i canonici pezzi melodic rock odierni, scanzonati, scritti per rimanere impressi dal primo ascolto. “Love Gone Wild” è l’highlight del disco, up-tempo con la cantante protagonista di una prova perfetta dietro al microfono altalenando tra il pulito e il roco; impreziosito dal sax di Jesse Molloy, il brano porta alla mente le migliori interpretazioni di Janet Gardner (Vixen). Dai video traspare la volontà dell’etichetta di rendere la giovane inglese oltre misura sexy che per il vero non Le si addice troppo, spiazzando oltremodo. continua
18 Ottobre 2022 1 Commento Paolo Paganini
genere: Aor
anno: 2022
etichetta: Frontiers
Ennesimo progetto proveniente dalla prolifica terra scandinava ormai vera e propria fucina di band AOR e Melodic rock di questi ultimi anni. Sulla scia di Creye, Work Of Art, One Desire e chi più ne ha più ne metta, nasce nel 2020 per volontà del cantante Mattias Olofsson il progetto Gand al quale si uniscono il chitarrista e produttore Jakob Svensson (Wigelius) ed il batterista Anton Martinez Matz. Il trio, seguendo le proprie influenze musicali (Foreigner, Giant e Starship) inizia a scrivere le canzoni che andranno a comporre l’album di debutto che diventa realtà oggi grazie alla firma per Frontiers Records. Come intuibile le undici tracce che compongono il disco si avvicinano molto a quanto proposto negli ultimi anni dalle band sopra citate (Creye e One Desire su tutte). Il singolo apripista Caroline un brano molto accattivante che entra subito in testa e che risulterà essere il vertice dell’album. Su queste coordinate con risultati un po’ altalenanti di muove l’intero lavoro. Stone Cold dall’incedere trainante si fa apprezzare grazie ad un pomposo uso delle tastiere mentre le successive Make It Grand e Johnny On The Spot virano su territori più Hard Rock ispirandosi ai Giant di Time Tu Burn. continua
17 Ottobre 2022 9 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: earMusic
L’ingresso in formazione del bravissimo cantante svedese Erik Grönwall (ex H.E.A.T) ha certamente dato nuova linfa agli statunitensi Skid Row che, imbarcati da diverso tempo in tour, stanno riscuotendo sempre maggiore successo e acclamazioni dal pubblico e dai media. Ma il clamore sarà lo stesso anche dopo l’ascolto della loro nuova registrazione in studio The Gang’s All Here?
A mio parere solo in parte. Il loro sesto album, il primo full-length del gruppo da sedici anni a questa parte, entusiasma infatti grazie alla sua buona energia e alla buona prova canora del nuovo frontman, ma in fin dei conti non colpisce mai il centro del bersaglio, e scivola via sempre troppo anonimo sul piano del songwriting. Dave Sabo e soci producono una serie di canzoni maschie, fatte di un hard rock grezzo e sanguigno, decisamente potente, ma incapace di prodursi in momenti realmente efficaci, che ci facciano dire: “caspita, questa canzone non aspetto l’ora di sentirla di nuovo!”. Insomma, tutto il disco si fa ascoltare bene e risulta a tratti anche piacevole, se vogliamo dirla tutta ha anche un bel spirito di gruppo e da il senso di una formazione già compatta e coesa, ma al di là della prova tecnica sopraffina dei musicisti e di un ottimo lavoro di produzione in studio lascia ai posteri ben poco di memorabile. E’ sparato dritto in faccia come un treno in corsa, ma lascia il tempo di scansarsi prima dell’urto.
Inoltre trovo che Gronwall (per quanto sia sempre bravo, lo sappiamo) tenga l’asticella della sua potenza canora sempre troppo puntata in alto. Mi spiego: già ascoltando l’opener Hell Or High Water ci si rende facilmente conto di quanto il cantante sia spesso costretto ad urlare di pancia, ma ancor più di gola, pur di padroneggiare le note alte che gli vengono richieste, le esatte note che gli permettano di essere un buon clone del frontman originale Sebastian Bach. Ora, Erik possiede certamente un grande talento, ma non ha la leggerezza dello scream di Bach, e nel cercare di far questo spinge così tanto da affaticare un po’ l’insieme del tutto, e ancor più l’orecchio di chi ascolta. Ma a trenta e più anni dall’esordio omonimo del 1989 davvero abbiamo ancora bisogno di cercare di scimmiottare a tutti i costi quei tempi?!
Perciò via, con la già citata Hell Or High Water ad aprire il platter cercando di clonare il disco di debutto, regalando una prova iniziale di forza ed energia subito bissata dalla title track The Gang’s All Here, tanto entusiasmante lungo le strofe (grazie a un bel riffing di chitarre, e a una sezione ritmica molto prestante), quanto un po’ anonima sul refrain, fin troppo essenziale. Non mi ha particolarmente colpito neppure Not Dead Yet, aggressivissima, street ma troppo “rumorosa” (forse un caso di troppa carne al fuoco?), mentre risulta sicuramente migliore e più affinata Time Bomb, meglio amalgamata nel suo insieme e divertente nel suo ritornello. Tic..Tic..Tic..Boom!.
Pollice su anche per la tiratissima e decisamente anni’90 Resurrected, ma già Nowhere Fast non ci lascia altro che una buona prova strumentale. Meglio When The Lights Come On, più melodica e più ottantiana delle precedenti, con il singolo Tear It Down che centra il bersaglio riportandoci mente e corpo agli Skid Row anni’90. Largo infine alla ballad/mid-tempo October’s Song, profonda nelle liriche ma poi priva di un quid musicale che ce ne faccia realmente innamorare, e al commiato dal titolo World’s On Fire, ennesima traccia tiratissima di un platter che di certo non ha mancato di far scorrere ampie dosi di adrenalina nelle nostre vene, questo gli va concesso!
IN CONCLUSIONE
A mio avviso, The Gang’s All Here è un disco con troppi alti e bassi (anche tecnici) per poter aspirare a quel giudizio incredibilmente entusiastico che la stampa di settore gli sta regalando con sempre maggiore frequenza.
Sarò io che ormai cerco il pelo nell’uovo in tutto, ma al termine di ogni ascolto esco affaticato, con le orecchie letteralmente saturate da un sound troppo forzatamente tirato, e per questo troppo monocorde. Penso che alla lunga sarebbe stato tutto migliore anche solo con un po’ più di cura del songwriting, e rallentando un po’, con meno foga e voglia di strafare ricercando per forza di cose e trenta anni dopo quell’esatto suono là.
Per me, un’occasione mancata, ma non priva di qualche lampo che possa far ben sperare per il futuro.