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Autumn’s Child – Starflower – Recensione

16 Gennaio 2023 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Pride & Joy

Mikael Erlandsson è oramai un veterano della scena melodic rock svedese e fu anche uno di quelli che, con il progetto Last Autumn Dream , credette nel rilancio di un genere, oramai da una decina d’anni, relegato nell’oblio dei nostalgici e degli aficionado. Ricordo che quando ebbi ad ascoltare il primo album dei Last Autumn Dream nell’ ormai lontano 2003 un brivido ed una vogliolina nostalgica mi salirono lungo la schiena, evocando piacevoli ricordi.

Gli Autumn’s Child non sono che la prosecuzione naturale del progetto LAD ed in questa incarnazione sono oramai arrivati al quarto disco puntualmente rilasciato ogni anno, anche stavolta con qualche mese di ritardo rispetto al mercato nipponico. Quindi, anche se tecnicamente è un album del 2022, per noi europei è un uscita di quest’anno a tutti gli effetti.

La ricetta è sempre la stessa e sinceramente non è da un gruppo come questo che mi aspetto voli pindarici sulle ali della sperimentazione, ma bensì un hard melodico e tastieroso pieno di ritornelli catchy e armonie vocali ed è proprio quello che gli Autumn’s Child sanno fare meglio ed elargiscono a profusione. continua

Screamer – Kingmaker – Recensione

12 Gennaio 2023 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Melodic Metal
anno: 2023
etichetta: Steamhammer/SPV

Quando un gruppo decide di suonare heavy metal, lo fa soprattutto per la sensazione di forza e di ribellione che il genere da, ora, al di là del fatto che trovare attualmente qualcuno che lo faccia per questi motivi, è come trovare il classico ago nel pagliaio e se proprio nessuno dei gruppi o degli artisti più recenti vuole uscire dal confortevole “politicamente corretto”, perlomeno a livello musicale si potrebbe tentare di mostrare i muscoli e d invece, anche qui, gli Screamer rimangono in un limbo dove formalmente è tutto perfetto, ma non colpiscono nel segno, le canzoni, anche se anacronistiche, possono dare qualche sussulto a chi, come me, è cresciuto con quel calderone genuino che era la new wave of british heavy metal, ma alla fine scorrono via come acqua sotto ai ponti, senza lasciare traccia tangibile.

I riferimenti più vicini ai nostri sono i connazionali Wolf, a differenza dei quali però hanno limato alcune spigolosità a favore di un approccio più melodico, che si riscontra soprattutto nelle vocals di Andreas Wikström, il che fa pensare a ciò che hanno fatto altri connazionali degli Screamer ben più famosi, ossia gli Hammerfall e il loro frontman Joacim Cans, ecco, unite questi due riferimenti, dategli una spruzzata di Holocaust e Diamond Head e il gioco è fatto, ma non per questo mi sento di promuovere “Kingmaker” a pieni voti, non fosse altro per l’ingenuità della sua proposta. In buona sostanza, alcuni pezzi non sono poi neanche così male, in “Sounds of the night” troviamo un’ottimo lavoro dietro alle pelli di Henrik Petersson, il deus ex machina degli Screamer, c’è qualche passaggio più epico/magniloquente come in “Ashes and fire”, la title track ha un ritornello corposo e azzeccato, “Chasing the rainbow” è positiva e briosa, “The traveler” ci ricorda che siamo in Scandinavia e che la melodia da queste parti è un must e un po’ tutto l’album da quella sensazione di retrò quasi a dire: ‘ hey gente, prendetevela con leggerezza, di questi tempi ne abbiamo bisogno’, ma tutto questo non fa certo rendere l’album memorabile, alcune cose risultano davvero troppo scontate ed elementari, tipo “Rise above”, dove fin dalle prime note si capisce dove iniziano la strofa, poi il bridge e quindi il ritornello, fino ad arrivare all’assolo, “Hellfire” è banale, senza personalità, “Fall of a common man” è talmente adagiata sui clichè da risultare quasi stucchevole, “Renegade” chiude con un intreccio di twin guitars che più comune di così, è davvero difficile sentire, insomma sembra quasi che gli Screamer non siano arrivati al quinto album, ma solo al primo demo, talmente questo disco si dimostra fin troppo facile da ascoltare e senza sussulti che possano far riprendere l’ascolto una seconda volta, quasi come se la band di Ljungby non volesse lasciare il segno, ma vivacchiare in una zona confortevole tale da non lasciare alcun indizio del suo passaggio.

Mi auguro almeno che gli Screamer, data la notevole partecipazione ai Festival con oltre cento apparizioni ad eventi come Muskelrock, Headbangers Open Air, Rock Hard Open Air, Summer Breeze e Bang Your Head , siano validi e coinvolgenti dal vivo, la loro proposta in sede live può anche risultare vincente, data la sua semplicità, cosa che può servire a coinvolgere maggiormente il pubblico, altrimenti non mi spiego come una band del genere sia riuscita ad arrivare già al quinto album, data la poca fantasia dei contenuti, perlomeno attenuata da un’onesta sincerità da parte dei cinque metallers svedesi, che sicuramente non hanno alte pretese, ma oggi come oggi, a mio parere, un disco così è probabile che finisca presto nel dimenticatoio. Ai lettori l’ardua sentenza.

Loud Solution – Throwback – Recensione

31 Dicembre 2022 0 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock
anno: 2022
etichetta: Lions Pride

“Dal Cile con furore” potrebbe essere il simpatico titolo cinematografico, rivisitato, che ci presenta la nuova band sudamericana Loud Solution. Provenienti dal cuore della città di Santiago e fondata dal chitarrista Ignacio Ruiz nel 2010, la band si completa con la collaborazione di Boris Cid al basso + voce e di Claudio e Cristobal Morales, il primo alla batteria mentre il secondo alle chitarre. Messi sotto contratto dall’etichetta danese Lions Pride music, “Throwback” è uscito ad inizio di dicembre 2022.
La sensazione che mi pervade durante tutto l’ascolto è quella di trovarmi di fronte ad un album dei White Widdow, la band australiana che, negli anni scorsi, ha sfornato una serie di canzoni interessanti con uno stile A.o.r. ricco di “keys” e di stampo ottantiano.
Qualche spunto piacevole qui esiste ma la produzione e gli arrangiamenti non aiutano le canzoni ad avere una marcia in più.
I primi tre singoli rilasciati sono stati, in ordine di apparizione, “Not provided”, “Face to face” e “Don’t come back”. Se con “Face to face” ci troviamo di fronte ad una canzone molto stereotipata e con pochi sussulti interessanti, “Don’t come back” ha delle linee morbide e di chiara matrice A.o.r., una delle migliori canzoni dell’album.
Sul filone australiano, un esempio lampante è la terza traccia “Amid my heart” che sembra essere stata “idealmente rubata” alle composizioni della band di Melbourne. Altre canzoni degne di nota sono “Past dark nights” che ricorda sonorità presenti nei primi album dei Nitrate e la title-track che si distingue per un buon lavoro alle chitarre.

Lions Pride Music è riuscita a pescare questa band in latitudini inaspettate e, personalmente, apprezzo lo sforzo; sistemando il tiro e la proposta musicale, i quattro ragazzi sudamericani potranno emergere con maggior “furore” rispetto a questo, primo “Throwback” che oscilla tra alcuni alti e diversi bassi.

The Last Bandit – Lost Tapes 1989 – 1996 – Recensione

30 Dicembre 2022 0 Commenti Francesco Donato

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Soul Sourvive Records

La storia dei Last Bandit ci riporta indietro nel tempo, e a quel destino comune a molte ottime band italiane che macinando km in giro per lo stivale e trasferendo la loro passione su musicassette demo non riuscirono mai ad esplodere a dovere.
E’ il caso dei Last Bandit, sleaze band milanese attiva da fine anni ’80 fino a metà dei ’90, che infuocò i palchi del Nord Italia in lungo ed in largo producendo due ottimi demotapes. Il rumore che si creò attorno alla band portò anche a molte offerte discografiche ma nessuna di esse ebbe a soddisfare a pieno le aspettative della band. A conferire la giusta dose di gloria al progetto ci pensa oggi la Soul Sourvivor Record, piccola etichetta discografica indipendente che si prefigge di togliere la polvere a lavori destinati a sprofondare nel dimenticatoio o mai venuti alla luce. L’esordio della giovane etichetta è proprio questo lavoro dei Last Bandit, intitolato semplicemente “Lost Tapes 1989-1996”. Nonostante il materiale sia un sunto di tutti quegli anni (il primo straordinario demoVicious), l’ascolto è così coerente e lineare da poter sembrare un intero album relativo ad un periodo circoscritto. In tal senso ottimo anche il lavoro di produzione portato avanti in studio. Non aspettatevi altro che fumoso ed irriverente rock n’ roll, con la voce di Rudy a enfatizzare al massimo questo concetto. continua

Avatarium – Death Where Is Your Sting – Recensione

28 Dicembre 2022 5 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: AFM

Alcuni di voi si stupiranno nel vedere questo nome inserito in Melodicrock.it, ma basta che diate anche un piccolo ascolto alle prime note di quello che è il quinto album della band svedese, per capire che non siamo ne impazziti, ne fuori contesto; quando si parla di rock melodico, la prima cosa che viene in mente è l’aor o l’hard rock più easy, ma la melodia non è solo quella facile, zuccherosa e tastierosa, ma è anche quella intimista, magari malinconica, di un certo modo di concepire l’hard rock, il più delle volte partendo da “lidi” diversi, come hanno fatto appunto, gli Avatarium, che sono nati dieci anni fa dalla collaborazione del mastermind dei Candlemass (e non solo) Leif Edling e Marcus Jidell, ex Royal Hunt ed Evergrey, che ebbero l’idea di fare un progetto doom, tanto per cambiare, ma con la voce femminile, e chi allora meglio delle moglie di Marcus, Jennie-Ann Smith poteva farlo? Chiudevano quello che poteva essere definito un supergruppo, Carl Westholm, tastierista anche lui nel giro Candlemass e Lars Skold, batterista dei Tiamat, ora nella band, dei membri originali, sono rimasti solo i coniugi che, evidentemente, hanno molte idee variegate da proporre e in “Death where is your sting”, lo fanno in maniera davvero egregia.

Quindi lasciate da parte il doom metal, di cui rimangono solo alcuni riff, in questo album c’è molto rock, in tante sfaccettature, tanto che la definizione hard usata in sede di presentazione, a volte va persino stretta e subito da “A love like ours” si capisce il perchè, gli archi e la chitarra acustica la fanno da padrone, sorreggendo alla perfezione i ricami della voce di Jennie-Ann, che racconta di un amore tormentato, mentre in “Stockholm”, la storia favolistica di demoni e fantasmi, viene sì introdotta e chiusa dal riff più catacombale di tutto l’album, ma all’interno è raccontata da un tappeto sonoro ancora semiacustico, al quale partecipa la stessa cantante suonando il piano e sciorinando una’altra interpretazione ispirata, cosa che peraltro fa, seppur cambiando umore durante tutto l’album e la title track che arriva subito dopo, ne è la riprova lampante, per quello che è, assieme a “Mother, can you hear me now”, il picco compositivo, esecutivo ed emozionale dell’album pubblicato lo scorso Ottobre; nel brano che dà il titolo all’album si parla di morte, ma in senso positivo, difatti si può interpretare come “Morte, dove sono le tue armi? Io non ti temo e ti sconfiggo”, tema esistenziale che viene affrontato su un andamento lineare e con un ritornello che ti si stampa in testa, cosa che succede anche alla già citata “Mother, can you hear me now”, strettamente collegata alle prime tre tracce, sofferta, intimista, con una malinconia di fondo che può ricordare gli Opeth di “Damnation”, ma svoltata in positivo dalla luce che infonde la voce della stupenda frontwoman, da citare assolutamente lo stupendo assolo gilmouriano di Marcus Jidell, che chiude questo piccolo capolavoro. continua

Black Paisley – Human Nature – Recensione

23 Dicembre 2022 2 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2022
etichetta: Black Paisley AB

Ultima chicca dell’anno riservata al ritorno degli svedesi Black Paisley, super band melodic – hard rock dalla grande esperienza individuale e dal sound prezioso.

Si parte alla grandissima con la corale e autentica “Set Me On Fire”, convincente e corposa, dalle sonorità vecchia scuola, intensa al punto giusto. Si passa quindi a “In The Night”, canonica, ben eseguita, coinvolgente, globalmente un gran pezzo hard rock. “Not Alone” ha un qualcosa di Bryan Adams, il che è sicuramente cosa buona e giusta: sprigiona vibrazioni molto positive e godibili, facendone un brano azzeccatissimo. Passiamo a “Promises”, molto più contemporaneo per trama e intenzione, comunque interessante e capace di tenere l’ascoltatore attaccato alle cuffie. continua

After Lapse – Face The Storm – Recensione

23 Dicembre 2022 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Prog Metal
anno: 2022
etichetta: Frontiers

Oramai anche nel cosiddetto prog metal, c’è una scena inflazionatissima che, formalmente, sforna album di altissima caratura tecnica, ma che, a mio parere, di prog, non hanno molto; ma come, direte voi, se i riferimenti degli After Lapse di cui parliamo in questa recensione sono, come dice la bio, Dream Theater (e vabbè…), Pain of Salvation, Haken, ma anche Kamelot e Angra, come si fa a dire che di prog ce n’è poco? Mi spiego, il progressive è quello che Yes, Genesis, Gentle Giant, King Crimson, P.F.M. e, in parte, i Pink Floyd, hanno contribuito a definire e che, i Dream Theater per primi, hanno traslato verso il metal, quindi, che qualunque gruppo inserisca tastiere più o meno presenti e/o cambi di tempo, venga definito prog (metal) non è così reale, altrimenti lo spettro si allargherebbe enormemente e questo discorso vale anche per gli After Lapse, band spagnola che giunge al debutto discografico, dopo quattro anni e alcuni cambiamenti di line up.

Intendiamoci, gli After Lapse sono bravissimi tecnicamente e scrivono anche bei pezzi, ma nella loro musica di prog ce n’è poco e se, come me, intendete la parola “progressive” come progressione del suono, capirete che siamo lontani e dopo questo doveroso preambolo, passiamo a parlare di “Face the storm”, che, se vogliamo assolutamente etichettare, possiamo sì classificare prog metal, ma che, sempre a mio parere, sia chiaro, è un disco di heavy metal molto tecnico, con aperture vuoi sinfoniche, vuoi melodiche, cosa che si capisce da subito con “Thrive”, apertura strumentale imponente, dal taglio, appunto, sinfonico, quello che è sicuro è che, per fortuna dico io, non c’è alcuna traccia di power metal, nonostante i nomi citati sopra e la cosa viene confermata da tutto l’andamento dell’album, quindi, seppur nelle successive “Where no one cares” e “Come undone”, si senta l’influenza dei Symphony X, la componente power è azzerata, a favore di un approccio ipertecnico nella prima e più ‘frubile’, nella seconda che, assieme a “More”, può rientrare nelle grazie di chi, leggendo le righe di questo sito, ricerca parti più “easy listening”. continua

Remedy – Something That Your Eyes Won’t See – Recensione

21 Dicembre 2022 0 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2022
etichetta: S-Rock Music Production

Si sta chiudendo un altro anno, un anno condito di tante, forse troppe, uscite discografiche in ambito rock melodico ed affini. Scrivo troppe in quanto la quantità non necessariamente si allinea alla qualità, soprattutto produttiva.

Per festeggiare la conclusione del 2022, ho pescato nell’urna svedese questa band, a me sconosciuta, chiamata Remedy, alla prima uscita discografica. Proveniente, come base, da Stoccolma, la band propone un rock moderno con radici che pescano nella golden era del rock anni 80. Ad impreziosire il tutto abbiamo le presenze, tra le altre, di un certo Eric Mårtensson (Eclipse) al missaggio e di Lars Säfsund (Work of Art) come vocal coach e corista.

Si parte con “Living on the edge”; le chitarre sanno di Scorpions e la voce di Roberet van der Zwan entra in scena in punta di piedi fino al buon ritornello. La successiva “I wanna have it all” è il primo singolo con un bel video annesso; la canzone si fa notare per un basso dinamico e per la struttura compositiva. Le note iniziali di “Marilyn” mi portano ai Bon Jovi di “Runaway”, e a qualche assonanza nel ritornello, anche se la canzone sembra sia stata staccata da una costola degli Eclipse. L’articolata “Scream in silence” fa capire che, a livello compositivo, la band ci sa fare. Un intreccio di suoni dove ogni strumento si innesca alla perfezione e che scaturisce in uno shock rock moderno. Prendo fiato e ascolto con molta attenzione “Sundays at nine” che ha un vocalizzo che ricorda il Mike Tramp da solista; delicata nel suo incedere sino al bell’assolo in elettrico e ad una pregiata coralità che va a braccetto con i The Poodles. La sesta traccia “Stranger” ha un ritornello molto convenzionale mentre la successiva “Thunder in the dark”, corredata da un video, è un mix tra i Bonfire e i Pretty Maids degli anni 90’, con un chorus efficace e distinguibile. L’intro ecclesiastico apre “My devil within”, una canzone che ha la struttura ed il piglio moderni dei nordici The Rasmus e vola sulle ali di una melodia convincente. “Sinners and saints” è il brano più heavy del lotto, dove le chitarre viaggiano spedite, un insieme di Pretty Maids e di Helloween ben frullati. Conclude questo “Something That Your Eyes Won’t See”, titolo affascinante, lo struggente lento “Lifeline” basato su una base al piano e dalle melodie soffuse che si aprono nel ritornello corale da assaporare in una fredda giornata invernale.

Ultima mia recensione dell’anno con la sorpresa Remedy, un botto di Capodanno inaspettato.

Sabu – Banshee – Recensione

14 Dicembre 2022 4 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock/Aor
anno: 2022
etichetta: Frontiers

Ecco un ritorno inaspettato, ma quanto mai gradito. Per chi come me ha vissuto l’ hard rock e l’aor di fine eighties nel pieno del fulgore, Paul Sabu è un nome mitico e il disco a nome Only Child ancora si staglia nell’olimpo dei must have assoluti. In questo come back Sabu è accompagnato da Barry Sparks col quale spartisce tutte le parti strumentali, anche se non è specificato chi suona cosa ed in quale brano, ho la netta sensazione che la chitarra di Mr. Sabu si occupi principalmente della parte solista, anche se l’amalgama è talmente buono che si stentano a notare differenze marcate.

Quello che salta subito all’orecchio è una maggiore complessiva predisposizione all’hard rock graffiante e roccioso rispetto all’epoca Only Child , anche se l’opener Blinded Me seduce subito col suo hard graffiante, ma ammiccante allo stesso tempo, un tocco di classe che subito predispone bene all’ascolto. La title track Banshee è catchy, ma non scontata e prepara al primo singolo ovvero Kandi e qui si che emergono gli echi degli Only Child, l’ibrido perfetto tra la melodia da airplay ed il piglio del vero rocker. Da Love Don’t Shatter si capisce che le atmosfere stanno virando su un hard rock più muscolare e l’anthem Back Side Of Water non fa che darne conferma. Skin To Skin ricorda un po’ le atmosfere dei Silent Rage (prodotti proprio da Sabu…sarà un caso?) e da una canzone che si intiola Rock che vi aspettavate, se non una roboante e trascinante cavalcata? Più compassata e old fashoned è Turn The Radio On così come Dirty Money, gradevoli ed inaspettati invece sono i giochi di voce Midnight Road To Madness. Chiude a martello la furibonda Rock The House 4/4 a dritto e via col pogo.

Insomma un disco robusto e massiccio, che quasi non ci si aspetta da Sabu, ma che mostra che il tempo passato dietro le quinte non ha affatto rammollito il buon Paul che anzi, oltre a ricordarci la sua immensa classe, ci mostra che i veri artisti non li puoi certo collocare in una nicchia.

Soccombete dunque all’urlo della Banshee e… mi raccomando, volume a palla!

Landfall – Elevate – Recensione Breve

14 Dicembre 2022 0 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock
anno: 2022
etichetta: Frontiers

Seconda uscita discografica per la band brasiliana Landfall, capitanata dal bravo cantante, ex Auras, Gui Oliver.
A due anni di distanza da “The turning point” i quattro sudamericani ripercorrono le stesse coordinate del debutto. Un melodic rock con qualche tocco progressivo e che musicalmente viaggia verso lidi colorati a stelle e strisce.
I primi due singoli si fanno subito apprezzare. Il primo, “Two strangers”, denota un sapiente lavoro alla sessione ritmica di Felipe Souzza, mentre la semi-ballad “Heroes are forever” è la perla di questo “Elevate” con le sue radici melodiche che pescano dentro ad un AOR moderno e cristallino.
Altri spunti interessanti si denotano nell’opener “Never surrender” costruita con un piglio progressivo ed energico, la strutturalmente sofisticata “Waterfall” e la conclusiva “The wind” con un arrangiamento iniziale tra pianoforte-percussioni ben studiato e che poi prosegue in maniera più articolata.
Tutte le restanti canzoni, tra cui personalmente segnalo “H.o.p.e.”, la solare “Feels like summer” e la title-track, sono godibili e denotano un passo in avanti rispetto al primo capitolo discografico.
Attendiamo il loro terzo “approdo” che, solitamente, è lo spartiacque musicale per una band.