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Infinite & Divine – Ascendancy – Recensione

17 Febbraio 2023 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Dalla Svezia arriva la carica degli Infinite & Divine, sempre orientati verso un hard rock melodico suadente e caratterizzato dalla voce femminile di Tezzi Persson; per loro, la seconda uscita discografica del progetto.

Partenza riservata a “Ashes To Ashes”, gagliarda e convincente, dall’ottimo impatto strumentale, sia globale che solistico. Passiamo a “LARP”, decisamente più oscura e crudele nella ritmica, perfettamente cesellata attorno a una linea vocale che punta ad essere la peculiarità del progetto. “Remedy” è un pezzo gioioso e sorridente, non molto convincente nella sua completezza, come la seguente “Our Time”, che al di là di qualche fronzolo musicale non concede grandi spunti. Con “Leave Me” saliamo di livello, riuscendo a esprimere grande intensità e soprattutto una buonissima capacità di mescolare le varie componenti del brano: risultato positivo. “Silent Revolution” si avvicina a sonorità più metal, incontrando il gusto di una platea più ampia e risultando molto convincente, con una verve assolutamente aggressiva e potente. Sempre sulla stessa onda del brano precedente, troviamo la tonante “I Hold My Life”, molto cadenzata e dai fraseggi interessanti. Con “Forever With Me” arriviamo su orizzonti più tenui e delicati, sempre in salsa melodic rock, a bilanciare le precedenti eccedenze di metallo “pesante”. “Down” si presenta come la classica cavalcata hard rock, scellerata e senza freni, dal riff graffiante che ben si accompagna alla timbrica vocale di Tezzi. Epica e aperta, “Parasite” assume una valenza molto contemplativa, creando un’atmosfera gradevolissima e coinvolgente. Titoli di coda sulle note di “Small Deeds”, poderosa, pestata e granitica, degna conclusione per un lavoro di studio in versione “diesel”, ovvero con una partenza non eccezionale, ma che evolve e migliora col susseguirsi dei brani.

First Signal – Face Your Fears – Recensione

16 Febbraio 2023 8 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Hard Rock /Aor
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Sicuramente tutti gli appassionati del nostro genere conoscono Harry Hess, fondatore e voce dei canadesi Harem Scarem che ad inizio anni ‘90 furono autori di alcuni dischi diventati dei veri e propri capisaldi del’AOR. Prolifico compositore nel corso degli anni oltre ad avere avviato svariate collaborazioni e progetti solisti ha dato vita a questo spin-off ormai giunto al quinto capitolo. Rivoluzionata la formazione ma non la proposta stilistica ovvero un melodic rock di ottima fattura fortemente debitore alla band madre. Si parte in pieno stile HS con Unbreakable, un hard rock tirato ma allo stesso tempo pieno di melodia che si assimila immediatamente e che fa parte di quei quattro/cinque brani di punta del disco. Sullo stesso stile si pongono le successive Situation Critical e Shoot The Bullet anche se il risultato finale non è altrettanto convincente. Di ben altro livello Always Be There granitico mid-tempo impreziosito da un ritornello da cantare a squarciagola (ed in questo Harry ha pochi rivali). Dominoes passa via abbastanza inosservata pur potendo contare su un lavoro di chitarre davvero pregevole mentre Rain For Your Roses riporta in alto la band proponendo una power ballad di grandissima qualità. La title track fa da ponte verso quella Never Gonna Let You Go vero e proprio gioiello di questo lavoro che sembra uscita da una sessione degli Scarem che incanta grazie ad un ritornello tutto cori d’altri tempi costituendo di fatto l’ultimo vero e proprio acuto dell’album.

IN CONCLUSIONE:

Un progetto che sembrava nato in maniera estemporanea e senza grandi pretese si sta rivelando una solida realtà e che al netto dei cambi di formazione produce sempre brani di buona qualità e di piacevole ascolto. D’altra parte le doti di Hess come compositore e vocalist non sono mai state messe in discussione. Un buon modo per ingannare il tempo in attesa del nuovo disco degli Harem Scarem. Consigliato.

Chris Rosander – The Monster Inside – Recensione

15 Febbraio 2023 0 Commenti Denis Abello

genere: AOR / Melodic Rock / West Coast
anno: 2023
etichetta: Pride and Joy Music

Giovane, 25 anni, e già al suo secondo lavoro (il primo King Of Heart del 2020). Chris Rosander, Svedese di nascita, può comunque già vantare una valida carriera e una serie di collaborazioni di rispetto.

Dopo un primo album che mostrava alcune buone idee ma a cui mancava ancora il guizzo per eccellere, Chris ci riprova con un album dalle premesse interessanti. Di base il sound si piazza tra AOR/Melodic Rock con incursioni nel West Coast, anche se direi che l’ago della bilancia è più puntato verso l’AOR. Bella l’idea di legare ogni brano con un unico filo conduttore, che fa anche da titolo dell’album, e che riguarda il “mostro” o il “lato oscuro” che ognuno di noi si porta dentro.

Musicalmente parlando il risultato è un album abbastanza omogeneo che scorre via senza scossoni tra brani più radiofonici e alcuni più duri. La voce di Chris se la gioca bene, soprattutto sui brani più melodici e meno sparati, ma forse manca ancora di una certa caratterizzazione. Gli anni per arrivare al top giocano comunque a favore del giovane Chris.
Quello che manca è forse proprio qualche brano che sia in grado di dare la “scossa” ed elevare il lavoro di qualche punto. Infatti, anche se non mancano le belle sorprese come le brillanti melodie del brano The Labyrinth, il feeling di When I’m Gone o il simil funk di Little White Lies, non me la sento ancora di elevare questo lavoro da “buon” lavoro ad “eccellente”.

Attenzione, resta comunque un buon lavoro con idee anche brillanti che merita un ascolto soprattutto da chi è avvezzo a sonorità alla Toto o Chicago nel loro mood più melodic rock / radiofonico. Manca ancora per ora lo sprint che faccia salire il lavoro di Chris Rosander al prossimo livello!

Occhio, il prossimo livello è l’Eccellenza! 😉

Robin McAuley – Alive – Recensione

15 Febbraio 2023 2 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Le prime sbandate non si scordano mai. I sentimenti scaturiti da coloro per i quali proviamo stima e amore scuotono un moto continuo di emozioni, amplificate, anche e soprattutto a distanza di tempo. Vale per gli esseri viventi, vale per gli oggetti e per tutto ciò che rientra nel termine di Arte.
Ancor oggi sono ben presenti le cicatrici che il trittico a nome McAuley Schenker Group ha lasciato in me. La classe avanza di pari passo alle belle canzoni ascoltando ‘Perfect Timing’ (1987), ‘Save Yourself’ (1989) e ‘MSG’ (1991). Tutto mediante la perfetta cooperazione del talentuoso chitarrista Michael Schenker, fratello minore di Rudolf, e delle linee vocali dell’irlandese di nascita Robin McAuley (ex Grand Prix). Dopo un lungo ritiro da parte di quest’ultimo, a parte qualche ospitata su un paio di dischi e ad aver fatto parte dei Survivor in un paio di tournè americane, il cantante è tornato dietro al microfono in studio con I validi Black Swan prima, e in sede da solista subito dopo. ‘Alive’ segue il debutto ‘Standing On The Edge’ del 2021; Rispetto a quest’ultimo, maggiormente AOR-Edge, l’ago del suono tende a composizioni maggiormente hard, confermando una buona qualità media.

L’opener “Alive” è impreziosita da incastonate keys, seguono le suggestioni heavy intrise di un certo appeal commerciale di “Dead As a Bone”. L’istinto del battere il tempo e fare un po’ di sano headbanging deriva dalla ricerca quasi maniacale della melodia (“Bless Me Father”) coniugata a saltuarie ritmiche maggiormente serrate ed aggressive (“Feel Like Hell”). Spazio al pathos nella drammatica “Can’t Go On” per la quale è stato da poco pubblicato un video come singolo promozionale. Il disco si muove gradevolmente in un sentiero più uniforme rispetto al debutto, per certi versi più costante. “The Endless Mile” riprende i costrutti tipici dei Black Swan e cari a Reb Beach.
La seconda parte del lavoro, uniforme e trascinata da un ispirato Andrea Seveso, è prevalentemente caratterizzata da un imprinting moderno (il groove di “Fading Away”, il riffing di “Stronger Than Before” memori della recente lezione dei The End Machine), dove le tastiere, quando presenti, si limitano a un ruolo marginale. Degna di nota infine, l’ipnotica ed agevole “My Only Son”.

‘Alive’ è un buon disco che verrà apprezzato dagli ammiratori di Robin McAuley, meno AOR, più heavy. Buon ascolto.

ENGLISH VERSION

The first love(s) remain unforgotten. Feelings move an endless flow of emotions, sometimes amplified, even after years.
We can apply for living as we can apply it for objects and to everything that falls within the term of Art.
The scars that the McAuley Schenker Group left on me are still present today. The class pushes forward with good songs listening to ‘Perfect Timing’ (1987), ‘Save Yourself’ (1989) and ‘MSG’ (1991). Everything works good thanks to the perfect cooperation between talented guitarist Michael Schenker, younger brother of Rudolf, and flawless vocal job of the Irish-born singer Robin McAuley (ex Grand Prix). After a long break from the scene, except for some guest appearances on a couple of records and being part in Survivor band on a couple of American tours, the singer returned behind the microphone with excellent Black Swan, and in solo habit right after. ‘Alive’ follows 2021 debut ‘Standing On The Edge’; compared to the latter, AOR-Edge , the sound proposed is heavier, confirming a good average quality.

The opener “Alive” is embellished with keys, followed by heavy suggestions which run through “Dead As a Bone”. The instinct to beat the musical tempo follows the almost obsessive search for the catchy melody (“Bless Me Fa ther”) united with occasional harder and aggressive rhythms (“Feel Like Hell”). The dramatic and full of passion “Can’t Go On”, edited as a single, sounds lovely.
The record sounds nicely sturdier than before. “The Endless Mile” takes up the typical constructs of Black Swan, near to Reb Beach style.
The second part of the work, addressed by an inspired Andrea Seveso, is mainly characterized by a modern imprinting (the groove of “Fading Away”, the riffing of “Stronger Than Before” sounds like the songbook of The End Machine), where the keyboards, when they are, are limited to a marginal role. The hypnotic “My only son” is noteworthy.

‘Alive’ is a good record that will be appreciated by fans of Robin McAuley. Have an impressive experience.

Khymera – Hold Your Ground – Recensione

10 Febbraio 2023 6 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta:

Tornano i Khymera per il terzo album con Dennis Ward al timone di comando nonchè microfono e basso! Anche se va detto che la sua entrata nella band risale all’album A New Promise del 2005, anche se li le redini del gioco erano ancora in mano a Liverani, che ricordiamo, nel primo parto a nome Khymera aveva assoldato niente meno che Steve Walsh dei Kansas.

Terzo giro dicevamo e dopo due album di livello anche questo nuovo Hold Your Ground si farà ben volere dai fan della band e da chi cerca un Melodic Rock di sana e robusta costituzione!
Niente di nuovo per i Khymera con tastiere e assoli di chitarra a reggere i giochi e la bella voce di Ward a gestire il tutto.
Si conferma quindi lo stile “restomod” del progetto che pesca a piene mani dagli anni’80 del genere confezionandolo con orpelli nettamente più moderni e attuali!

Niente di nuovo per chi ha già conosciuto i Khymera versione Ward.
Don’t Wait For Love è un bel biglietto da visita, retrogusto Europe e Treat, piglio moderno, cori ben bilanciati, spina dorsale nerboruta su una linea melodica centratissima!
Firestarter riporta ad un melodic rock più tastieroso, bello e canonico! Hear Me Calling porta in dote uno stile teutonico più edulcorato.
Ancora tastiere in primo piano per Sail on Forever, bello bello spinto ed intenso.
Immancabile e classica ballata per My Love is Killing Me.
Hear What I’m Saying ha uno dei ritornelli che più mi sono rimasti impressi di questo lavoro mentre la successiva Believe in What You Want riporta alla memoria sound Survivoriani.
Si torna a spingere su On The Edge e sulla bella e radiofonico Could Have Been Us.
Chiusura senza botti demandata a due pezzi “in sicurezza” come Runaway e Am I Dreaming.

Ormai in piena epoca Ward per i Khymera è indiscutibile che questa sia una gran bella realtà che forse meriterebbe anche un po’ più di attenzione. Ci si poteva aspettare un colpaccio, invece ci ritroviamo un album che segue esattamente lo stile dei due precedenti. Che chiariamo non è poca roba, anzi! Ward dietro al microfono è perfetto, i pezzi brillano senza straluccicare e per chi ha amato i precedenti o per chi cerca un buonissimo album di Melodic Rock dal piglio teutonico ma assolutamente melodico non può farselo scappare!

T3NORS – Naked Soul – Recensione

10 Febbraio 2023 7 Commenti Vittorio Mortara

genere: AOR
anno: 2023
etichetta: Frontiers

C’è un preliminare che voi lettori dovete assolutamente compiere prima di accingervi all’ascolto di questo disco. E’ un atto di astrazione: mettete da parte per un momento i vostri pregiudizi nei confronti di operazioni commerciali consistenti nel mischiare elementi di varie band per ottenerne di nuove. Dimenticatevi che Kent “prezzemolino” Hilli presta la sua ugola ad altre 45 bands e che il veterano Robbie Le Blanc canta in altri 27 gruppi. Poi cercate di non leggere i credits dell’album per non vedere che ad architettare tutto è sempre Perugino con il suo braccio destro Delvecchio. Fatto? Bene! Adesso concentratevi sul fatto che qui canta una delle migliori ugole del panorama hard/AOR, il leoncino Toby Hitchcock, e che la band tutta italiana che sta alle spalle dei “tenori” non è affatto composta da sprovveduti.

Se sarete riusciti in questo training autogeno preliminare, allora apprezzerete le melodie ammiccanti e senza tempo del singolo “April rain” e gli intrecci delle voci dei tre protagonisti. Purtroppo l’anonimato che pervade la title tarck delude e non invoglia a proseguire l’ascolto. “Nights”, invece, è un altro buon pezzo, pur odorando di già sentito, trascinato dal vocione baritonale di Hitchcock. L’AOR mainstream di “Time is coming” non lascia il segno, così come la più movimentata “Silent cries”. Apprezzabile il ritornello di “Thorn”, orecchiabile e ben interpretato. Le tre voci si alternano magnificamente nel lento epico “I could”, per chi vi scrive, l’apice qualitativo dell’album. Non è male neppure “Mother love”, facile e diretta. Ma piace anche l’agilità delle parti strumentali di “Fire to the rain”. Purtroppo si ricade nella mediocrità con “Stand for love” e neppure la conclusiva “Straight to carry on” presenta un livello qualitativo adeguato.

Giungendo alle conclusioni, astraendosi, come consigliato sopra, da tutte le premesse, ci troviamo fra le mani un disco di AOR contemporaneo, ben suonato e ben cantato, con qualche pezzo degno di nota ed altrettanti filler. Certo lo si ascolta volentieri, ma non ci si trovano quei picchi che ci si aspetterebbe da un lavoro che mette insieme tre delle più gettonate ugole degli ultimi anni. Comunque da sufficienza piena. Anche se il tutto avrebbe meritato composizioni ed arrangiamenti di gran lunga migliori. Se, invece, non ci astraessimo dal contesto, allora bisognerebbe sprecare fiumi di inchiostro per cose già dette e stradette. Quindi lasciamo perdere. Un solo consiglio a chi di dovere: almeno un video in cui i tre tenori sono filmati nella stessa sala di registrazione fatelo! Darebbe quella parvenza di progetto vero e non solo commerciale.

Wig Wam – Out of The Dark – Recensione

09 Febbraio 2023 13 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock / Glam
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Tornano i Norvegesi Wig Wam, portabandiera ad inizio secolo del revival di un certo tipo di sound glam anni 80 grazie ad un disco acclamato da critica e non come ‘Wig Wamania’, datato 2006. ‘Out of The Dark’ non porta alcun stravolgimento stilistico rispetto al precedente “Never Say Die” del 2021, confermando quanto questo quartetto sia solido e diretto nella proposta, orecchiabile e ammiccante a chi è affezionato al sound di band quali Motley Crue e Alice Cooper della decade d’oro.

Si parte con la title track, stradaiola, vagamente gotica nelle linee vocali, figlia del miglior sunset strip nel riff di chitarra portante. Si alza il livello con l’adrenalinica “High N Dry”, da ascoltare esclusivamente a volume alzato a manetta. “Forevermore” replica la formula precedente, coniata da un ritornello assolutamente riuscito, caratterizzata da una linea di chitarra elettrica e pulita che dona al pezzo un sapore british. “Bad Luck Chuck” conferma la verve e la rinnovata giovinezza del combo battendo i sentieri sleazy e sporchi dei troppo poco citati Shotgun Messiah. L’apparente durezza sonora di “Ghosting You” coinvolge l’ascoltatore mediante uno stralcio di ruffianeria la quale rappresenta da sempre uno dei trademark del gruppo. Non convince la ballad “The Purpose”, unico pezzo debole del lotto; altresì stupisce e conquista la strumentale “79”; ispirata nel suo svolgimento intrinseco di un’elettrica delicatezza. A questo punto è dovuta una meritata riconoscenza al lavoro di chitarre dell’ecclettico Trond Holter; forse ancora oggi erroneamente sottostimato dagli amanti del genere. Chiudono la scaletta l’aggressiva “God By Your Side”, dove la strofa quasi industrial fa da contraltare a un bridge e a un ritornello maggiormente consono alla natura della band, e “Sailor and The Desert Sun”, coincisa…ma dai tratti epici e irrobustita da una sezione ritmica bombastica.

Gli stimoli dei 4 norvegesi rimangono immutati cosi come la loro capacità di creare anthems, o semplicemente canzoni, spesso anacronistiche, ma che ascoltate oggi funzionano, cosi come sarebbero state apprezzate 30 o 40 anni fa lungo la California, e non solo.

ENGLISH VERSION

The Norwegian band Wig Wam is definitively back, standard-bearer at the beginning of the century about the revival of 80’s glam sound thanks to a critically acclaimed album titled ‘Wig Wamania’; it was 2006. ‘Out of The Dark’ doesn’t bring any stylistic upheaval compared to the previous 2021 ‘Never Say Die’, confirming how solid and direct this quartet is about the proposal. It will be appreciated by sound lovers of bands like Motley Crue and Alice Cooper at their best during the golden decade.

The album starts with the title track, street-loving; vocal lines are partially gothic, supported by a guitar riff learner of the best sunset strip-era. You must listen the adrenaline-pumping “High N Dry” only using higher volume. “Forevermore” replicates the previous formula, coined by an absolutely successful refrain, defined by a clean electric guitar line that adds a British flavor. “Bad Luck Chuck” confirms band’s renewed youth beating sleazy and dirty lines truly loved by forgotten bands like Shotgun Messiah. The apparent hardness of “Ghosting You” wraps the listener through catchy and instant good vibes which has always been one of the group’s trademarks. The ballad “The Purpose”, the only feeble piece of the lot, is not convincing me; instead the instrumental “79” amazes and conquers through the work of an electric delicacy. It’s the perfect time to deserve an acknowledgment to the guitar work of the polymath Trond Holter; Perhaps still today erroneously underestimated by the lovers of our genre. The aggressive “God By Your Side”, where the almost industrial verse turns to a classical melodic bridge, and “Sailor and The Desert Sun”, epical and intense, close this work.

The motivation of this band remains unchanged as well as their ability to create anthems, or simply songs, often anachronistic, but still today able to be appreciated by fans and not only.

Docker’s Guild – The Mystic Tecnocracy Season 2: The Age Of Entropy – Recensione

08 Febbraio 2023 0 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog. Rock/ Prog. Metal
anno: 2023
etichetta: Elevate records

Mmmmm….come fare ad introdurre questo lavoro del produttore e polistrumentista , franco/americano d’origine, ma italiano d’adozione, Douglas R. Docker?

Avete presente le mega opere di Arjen Lucassen e degli Ayreon? Oppure l’opera dei Missa Mercuria? Ecco, mettete tutto in salsa progressive metal, ambientatelo in un contesto fantascientifico che conterà  9 album divisi in 5 seasons e 4 books e probabilmente avrete una vaga idea della complessità che si cela dietro un progetto del genere. Del resto una breve occhiata alla lista degli artisti partecipanti potrebbe altresì contribuire a dare un chiarimento su cosa potreste trovarvi di fronte qualora decideste di approcciarvi a quest’opera (parola che io uso spesso, ma che in questo caso è letteralmente… calzante).

Io consiglio a tutti un approccio ‘cinematografico’: piazzate il cd nel lettore, prendete in mano il booklet del cd, preparatevi una bevanda di vostro gradimento e premete il tasto play, vi troverete coinvolti in un vero e proprio viaggio onirico che va seguìto con attenzione, nota per nota paragrafo dopo paragrafo, dove la narrazione della storia è una parte fondamentale di tutta l’esperienza sensoriale.

Musicalmente parlando, le atmosfere sono in gran parte legate al prog rock,  potrete sentirvi infatti accenni sia degli Yes sia degli EL&P, ma anche del prog di matrice più metallica tipo Thershold, ma anche i Dream Theater più duri. In mezzo a tutto questo bendidio, sono miscelati parti di cantato in stile quasi gregoriano ed altre parti dove si sfiora il growl, in un connubio di voci maschili e femminili, il tutto inserito nel contesto di sonorità molto legate alle saghe sci-fi (per rendere l’idea, la bonus track finale è la sigla di spazio 1999).

Per me che sono un discreto amante del prog ed un divoratore di fantascienza, direi che c’erano tutti gli ingredienti per passare una serata invernale coperto dalla copertina in pile, viaggiando per universi sconosciuti e giungere là, dove nessuno è mai giunto prima. Se i video allegati non vi bastassero per farvi un’ idea, vi consiglio almeno di dare un ascolto ad Heisenberg’s Uncertainty Principle’ (poteva mancare la meccanica quantistica?… Certo che no!), una suite in tre parti che può rappresentare un piccolo sunto dell’intera opera. Buon Viaggio!

First Night – Deep Connection – Recensione

07 Febbraio 2023 2 Commenti Giulio Burato

genere: AOR
anno: 2023
etichetta: Self Released

Seconda uscita discografica per gli estoni First Night, dopo l’omonimo debut-album, uscito ad inizio del 2019, che suscitò un certo interesse anche sul nostro sito.
Devoti all’AOR degli anni Ottanta, le band da cui attingono sono Blue Tears, Boulevard, Strangeways, Dalton, Bryan Adams e, per la parte più pop, si notano anche cenni dei Roxette. Quantità industriali di tastiere e di melodie ammiccanti la fanno da padrona in ogni singolo pezzo proposto dalla band estone, anche se, alla lunga, l’immediatezza del ritornello si scontra con la potenziale longevità delle canzoni.

I primi singoli risalgono, stranamente, a fine 2019, anno della prima uscita discografica. “Little love”, canzone di stampo Aor, fresca e dal ritornello perfetto, da cantare e ricantare, a mio avviso, hit dell’album; a seguire “Talk to me” con linee vocali di facile presa, come buona parte delle restanti canzoni. A ruota, altri due singoli; in ordine di apparizione la bella “It’s only a feeling”, uscita nel febbraio del 2021, mentre “These hearts” è uscita a metà dello stesso anno. Dopo ben 18 mesi esce a inizio 2023 “Deep connection” che annovera, oltre i singoli sopracitati, altre nove più recenti canzoni. Altri buoni suggelli sono “Love me” che si caratterizza da un bel lavoro in simbiosi tra chitarre e tastiere, la coralità del lento “Don’t ever say goodbye” e “Someone”, canzone di stampo rock. “In the name of our love” ha una reminiscenza dei Def Leppard mimetizzata dall’abbondante presenza di tastiere, citerei infine la romantica e malinconica ‘Can’t forget’.

Certo a voler essere puntigliosi, i titoli delle canzoni magari non entreranno nella storia musicale per originalità ed anche se alcune melodie sono dei piccoli deja-vu (“Savage heart” e “Suddenly”), il disco si lascia ascoltare con piacere. Nel complesso quindi “Deep Connection” è un album gradevole e con spunti interessanti, magari si poteva optare per qualche canzone in meno evitando alcuni riempitivi, per dare al disco una maggiore compattezza. Quindi, anche se personalmente sono rimasto maggiormente sorpreso dall’esordio, la loro evoluzione prosegue su una rotta solida e ben tracciata.

Visione Inversa – Cortocircuito – Recensione

01 Febbraio 2023 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Melodic Punk/Metal
anno: 2023
etichetta: Self Released

Un gruppo punk metal su questo sito??? Ebbene sì e per due motivi, primo perché il cantante e chitarrista Stefano “Il biondo” Mainini è un cultore della materia melodica come pochi e non solo, come si può ben intuire, nonché il mainman che sta dietro al progetto Steve Emm e comunque si tratta di punk rock melodico, quello che negli anni novanta ha spopolato grazie a Punkreas, Pornoriviste e Derozer, sapientemente miscelato da Stefano e dai suoi compagni con l’hard rock anni ottanta e la nwobhm. Il movimento punk, non inteso come genere musicale, ha sempre cercato di andare “contro”, fino ad arrivare agli estremismi dell’hardcore, dello straight edge e dell’anarcho punk, ma qui siamo in territori decisamente più accessibili, sia come testi, che sappiamo essere fondamentali nel genere, sia come musica e toccando solo di sfuggita l’argomento, si può dire che i testi cercano di mettere di fronte l’ascoltatore ad una realtà scomoda, tipo quella del lavoro malsopportato o quella della spersonalizzazione, ma può capitare che, come in “Vudù”, ci si perda in divagazione decisamente più easy, per cui affrontiamo la parte musicale, per avere un quadro più completo di un album che può essere tanto derivativo, quanto originale.

Dopo l’intro “MMXX”, la prima vera traccia “W.A.R. (We are robots)” è un pezzo classicamente pop punk soprattutto nel ritornello, ma già si sentono le varie influenze con un accenno hardcore nella voce e dalle successive e molto intriganti “Generazione X”, altro argomento decisamente scottante e “Parassita”, entrano quelle influenze tipicamente metal, a volte più vicine alla nwobhm soprattutto in certi riff portanti, a volte più speed come in “Mayday”, che può ricordare sia i Pennywise o i NOFX, quanto certo speed-thrash ottantiano. Sembra tutto molto serio e gli argomenti trattati, lo sono sicuramente, ma i Visione Inversa fanno un pò come gli pare ed ecco arrivare la già citata “Vudù”, che ha un approccio nettamente più faceto, anche se a ben leggere tra le righe, si può scorgere un messaggio più recondito: ‘Non basta una vita intera, non esiste rimedio contro la magia nera, ti vuole, ti imbroglia e poi ti controlla’, ma soprattutto è in “Turborama” che la band milanese mostra il suo lato scanzonato, un vero e proprio intermezzo surf che fa da spartiacque per una seconda parte ancora all’insegna della denuncia sociale in musica, da “Flashback”, che apre con un riffone di matrice hard rock per poi evolversi nel più classico hc melodico, nel quale si staglia uno stacco degno dei primi Iron Maiden con tanto di twin guitars, passando per “Cameo”, il pezzo più violento dell’album, sia a livello musicale con tanto di ritmiche scatenate, voce urlata e testo crudo, che sa tanto di disillusione e il ritornello pop che squarcia la tensione, poi per “Caos”, che ricorda le cose migliori del rock italiano anni novanta, soprattutto come approccio vocale, mentre il riff è quasi un omaggio al miglior stoner scaturito sempre in quella fervidissima decade, continua