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18 Maggio 2023 1 Commento Yuri Picasso
genere: Aor
anno: 2023
etichetta: Frontiers
A distanza di 7 anni dal debutto torna sulla scena il progetto Cry of Dawn, disegnato attorno alla voce carismatica e autorevole di Goran Edman (Brazen Abbott, Glory, Malmsteen, John Norum tra gli altri). Se nell’opera prima il nostro fu coadiuvato da Micheal Palace e Daniel Flores, in questo capitolo a dirigere songwriting e strumenti (la totalità o quasi) vi è quel mostro sacro di Tommy Denander. Grazie alla sua presenza in cabina di regia, già soltanto dopo un paio di ascolti ne possiamo apprezzare l’eccletticità, la policromia di quanto prodotto, che va oltre il classico AOR scandinavo, negli ultimi anni divenuto occasionalmente ripetitivo e stantio, marchiante il comunque valido disco d’esordio.
“Devils Highway” ricorda i Toto di Isolation e “Memory Lane” gli ultimi lavori a nome del compianto Fergie Frederiksen. AOR ad ampio respiro che si muove con disinvoltura tra le classiche partiture di tastiera tipiche del genere (“Swan Song of Our Love” è ancora Toto/The Seventh One era) a ritmi più movimentati (“Before You Grown Old” porta in dote con se qualcosa dei Signal). Non possono mancare ritmi cadenzati e sognanti; “Edge of Broken Heart” convince nel ricreare il romanticismo del soft rock tanto decantato in queste pagine e che, se scritto e suonato con cuore e cura (l’assolo di Denander è da brividi), non può che avvincere l’ascoltatore di turno. “End Of The World” mischia sapientemente una ritmica rock essenziale a una linea vocale sing-a-long aperta , ala Survivor, immediata ed ispirata. Anche gli episodi meno ficcanti e un poco freddi (“A Million Years of Freedom” non mi entusiasma per quanto voglia riproporre il sound degli Europe di Out of This World, la conclusiva “High And Love” è un semplice filler) valgono un ascolto tra le tonnellate di musica da cui siamo bombardati nell’era dello streaming.
Il tocco del mostro sacro Denander si sente e si apprezza, ben si completa all’ugola di Edman, incrementando il progetto con un titolo che entusiasmerà gli stakanovisti del rock melodico. Consigliato.
18 Maggio 2023 0 Commenti Yuri Picasso
genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Pride & Joy
Terzo capitolo discografico in arrivo per gli svedesi Stormburst. Le coordinate discografiche rimangono affini a territori cari al sound scandinavo del tempo che fu: Dalton, Da Vinci, qualcosa degli Europe, con un occhio di riguardo al guitar work sempre interessante, volto alla melodia e alla ricerca di armonie da incastrare con tappeti tastieristici sempre vigenti. Il Vs recensore ammette di non ricordare molto del secondo lavoro datato 2020, ‘Highway To Heaven’, ma di aver riascoltato pochi giorni fa con piacere l’esordio del 2017 ‘Raised on Rock’. I Pro di quel disco stavano nella ricerca di soluzioni catchy in grado di catturare l’ascoltatore nei momenti un poco più aggressivi, grazie ad un’abile perizia sostenuta da arrangiamenti accattivanti. I contro erano riconducibili ad alcuni passaggi che sostavano tra il melenso e il già sentito che mal vestivano le buone capacità esecutive del quintetto.
Dopo un paio di ascolti del qui presente ‘III’ (fantasia portami via) posso confermare i pro e i contro del debutto.
I Nostri risultano essere accattivanti quando alzano il tiro del brano sfiorando territori hard, come nell’opener “Get Up On Your Feet” o nella teutonica “When The Worlds Collide”. I fills di chitarra funzionali come i soli sono di discreta fattura e rendono interessante l’ascolto anche di brani di per se ordinari (“Higher Power”). Quando si toccano territori più morbidi, il quintetto di Dalarna suona prevedibile, un poco piatto, come nel caso della ballad “Lost In Paradise”. L’AOR sostenuto di “Rockin’ On The Radio“ (Treat ‘Dreamhunter’ era) è seguito da “Hold On”, menzionabile per il notevole lavoro strumentale e dall’ordinaria “Love That Rock’n Roll”.
Consiglio questo disco a coloro i quali sono alla ricerca continua del sound scandinavo di cui quasi tutto è stato scritto e sentito. Rimanendo un territorio artistico saturo per numero di uscite e di band che lo occupano, ciò non toglie che ‘III’ sia in grado di regalare momenti piacevoli .
16 Maggio 2023 3 Commenti Giulio Burato
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers
Correva l’anno 1990 quando mi imbattei nell’acquisto dell’omonimo debut-album degli Heavens Edge; ho scritto volutamente il verbo “imbattersi” in quanto non avevo la minima idea del genere musicale che mi sarei trovato ad ascoltare ma, incredibile ma vero, fui colpito dalla bellissima foto-copertina in mezzo ad una fabbrica dismessa. Mi addentrai dunque in quella fabbrica, scusate, in quell’album e mi trovai spiazzato in quanto, quel class metal, al tempo, era stato da me sfiorato solo ascoltando i Dokken di “Back for the attack”. Subito non mi piacque, devoto come ero ai vari “Hysteria” o “Slippery when wet”, ma a forza di provare a riascoltarlo, negli anni, quell’album divenne una piccola, grande scoperta. Aveva, anzi, ha un suono ben distinguibile dalla massa, arricchito dalla presenza di tastiere che erano una chimera per il genere, con canzoni di alto livello come le potenti “Daddy little’s girl”, “Play Dirty”, “Skin To Skin”, la catchy “Find another way” o il fantastico lento “Hold On To Tonight”. Passarono poi ben otto anni, nel bel mezzo dello tsnunami “grunge”, per rivederli nella seconda uscita discografica che, francamente, non mi destò grande interesse, forse in quanto era meramente una raccolta.
Di anni dal 1998 ne sono passati altri venticinque e ora, nella terza sorprendente uscita discografica, cosa possiamo trovarci di fronte?
Troviamo, in primis, una band nel vero senso della parola, non costruita a tavolino, ma coesa e praticamente quasi intatta come nel 1990, tranne che per il compianto bassista George G.G. Guidott e troviamo sicuramente dei musicisti maturati e con carisma.
Ad inaugurare il come back, nel mese di marzo, è uscito il primo singolo “Had enough”, con quel basso pulsante che assapora molto di Skid Row post “Slave to the grind”, mentre i successivi due singoli sono iniettati di nuova linfa aoreggiante che ci trova parzialmente ma piacevolmente spiazzati; “What Could’ve Been” è un lento raffinato con un ritornello sopraffino mentre “When The Lights Go Down” è un’altra semi ballad che tocca le corde care agli Extreme.
Le canzoni che conquistano la vetta del podio di gradimento sono “Gone, gone, gone” dalla struttura incisiva, “Nothing Left But Goodbye” con chiari richiami ai Tangier dell’album “Stranded” mixati con i Cinderella e la stradaiola “9 Lives”.
Ricollegandomi infine alla mia premessa, nel 2023, se dovessi azzardare l’acquisto di questo “Geti it right” non lo farei certo per la copertina che risulta quanto meno bruttina, ma bensì per un ritorno inaspettato che mi ha fatto idealmente tornare a tanti anni fa. L’album è la rappresentazione di ciò che oggi sono gli Heavens Edge in chiave moderna ma con un occhio rivolto alla matrice del 1990. Piaccia o meno, per me, è un pollice in su.
11 Maggio 2023 2 Commenti Vittorio Mortara
genere: Hard Rock/AOR
anno: 2023
etichetta: mighty music
Ad un anno dall’uscita dell’esordio “Midnight hunter”, Robert Majd, ascia di Captain Black Beard, Metalite e Fans Of The Dark, da alle stampe questo nuovo lavoro avvalendosi della collaborazione in pianta stabile del volatore notturno Björn Strid alla voce e nelle composizioni. E l’impronta tardo settantiana unitamente all’attitudine al divertimento del cantante svedese si sente parecchio. Il disco si pone come una sorta di The Night Flight Orchestra con un pizzico di Fans Of The Dark, decisamente meno variegata. D’altronde le intenzioni dichiarate dai ragazzi erano quelle di creare una sorta di colonna sonora ideale per i divertimenti del weekend… E per dimostrare che non scherzano hanno affittato nientepopodimeno che gli Abbey Road Studios, scritturato un paio di compagni delle rispettive band per completare la formazione e registrato l’intero album in appena due giorni. Te credo! Con quello che costano gli Abbey Road!
L’iniziale “Highest score” mette subito sul piatto tutto il suo flavour tardo settanti ano, ad un ritmo piuttosto sostenuto. Ma è la seguente “Running wild” che gioca le carte migliori dell’album: facilmente memorizzabile e sorniona, aderisce immediatamente al sistema limbico generando gradevoli sensazioni. Si torna a correre con “Action”, zeppa di hammond e poco attraente per il sottoscritto. Meglio “Fire still burns”, grazie a cori perfettamente orchestrati. Tempo di cogliere reminiscenze dei primi Loverboy su “Free your mind” che arrivano due interessanti cover: “God of thunder” resa in modo assai fedele all’originale, compreso lo scimmiottamento della voce di Gene Simmons da parte di Strid, e l’omaggio al boss “Cover me” energizzata a dovere. In mezzo troviamo “Strike like lighting, altro up tempo old fashioned un poco anonimo. “Burn the night” suona parecchio Fans Of The Dark, “Playing the game” paga un alto tributo ai Foreigner dei primi tre album e “See you again” è uno slow poco canonico ed un tantino noioso.
Concludendo, direi che l’album lascia un po’ il tempo che trova. Non è frizzante come un qualsiasi platter dell’Orchestra né “originalmente vecchio” come una produzione dei Fans. A parte il singolo “Running wild”, non ci sono brani particolarmente trascinanti. Sufficienza abbondante ed attendiamo il nuovo The Night Flight Orchestra con trepidazione…
09 Maggio 2023 1 Commento Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Pride & Joy
Tornano alla riscossa per un 2023 veramente molto intenso i veterani Czakan, compagine hard rock tedesca dalla grandissima fama e dal sound incredibilmente autentico.
“Free Line” non smentisce le attese: riff decisi e brillanti, voce penetrante e una ritmica martellante ammaliano l’ascoltare sin dal primo secondo. La successiva “Getting Hungry” si presenta come un brano canonico ma dalla grandissima intensità, un concentrato suadente di energia e convinzione. Gradevolissima arriva “Breaking All The Rules”, non particolarmente coinvolgente, ma ugualmente carica di emotività. “Living In A Nightmare” è un pezzo compatto e scandito da una ritmica quadrata, ottimo nella sua spietata semplicità, musicalmente molto corale. Passa lieta e veloce “Get Down”, molto gioiosa e frivola, che si getta nella successiva “Burns Like A Fire”, marziale e crudele nella sua trama oscura. “Under The Gun” prosegue sull’onda stilistica dell’album e della band, mantenendosi su livelli qualitativi molto alti: da segnalarsi la buonissima prova vocale. “City Nights” è il classico pezzone hard rock da strada: coinvolgente, arioso e ritmicamente drammatico, un estratto genuino direttamente dallo stile anni ‘80. Insolita per intenzione, troviamo “Masquerade”, breve e intensa traccia movimentata e rockeggiante al punto giusto. Con “She Is A Woman” entriamo in atmosfere più cupe, dal sapore misterioso e ombroso, al contrario della solare “Winners Don’t Cry”, ottima per verve ed esecuzione globale. Non c’è tregua: “My Sweet Love” è un altro pezzo molto canonico, non particolarmente eccitante o innovativo, ma nella sua totalità godibile e gradevole. Forse la scelta di inserire un numero così elevato di tracce può risultare rischioso: “Locked In A Cage” non aggiunge né toglie nulla al valore del lavoro. Arriviamo alla conclusione sulle poderose note di “Show Me All Your Love”, cavalcata finale per un album interessante, sempre tirato e potente, che a tratti pecca di freschezza, ma che complessivamente risulta tosto e ben eseguito.
07 Maggio 2023 11 Commenti Iacopo Mezzano
genere: AOR / Westcoast
anno: 2023
etichetta: Frontiers Music
Come se fosse fuoriuscito da una capsula del tempo nascosta sotto terra dalla fine degli anni ’80 ad oggi, The Love Goes On riporta la Michael Thompson Band direttamente a quel glorioso 1989 che la aveva vista pubblicare How Long, nientemeno che uno dei più bei album della storia del genere AOR.
Complice certamente il ritorno in formazione del cantante originale Moon Calhoun, il clima di questo disco appare infatti incredibilmente inalterato rispetto a quello del lontano debutto, e la lacrimuccia che righerà il nostro viso sarà figlia di una gioia pura, frutto di nostalgie ormai date per sepolte, che cresceranno libere nota dopo nota, canzone dopo canzone di questa spettacolare release.
Scusate il mio trionfalismo immediato, apparentemente eccessivo, ma la bellezza di quest’opera è un fatto reale e difficilmente opinabile. Ascoltate il conubio perfetto tra l’ugola magnifica e intatta di Calhoun e il già confermato genio compositivo e tecnico musicale di Michael Thompson (uniti al fondamentale apporto dato dal tocco del bassista Tom Croucier e dal battito sulle pelli precisissimo e di gran groove di Annas Aliaf) e ditemi davvero che questo non suona come quanto di meglio abbiamo ascoltato negli ultimi anni di produzioni AOR. Fatelo!
E i suoni in studio, di livello altissimo per dinamismo e temperatura di ascolto, come non possono anch’essi contribuire a rendere questo album una vetta e mai una radura?! E la tracklist?! Eccellente, che non presenta neppure la virgola di una canzone riempitiva nonostante l’azzardo di voler figurare quell’ora complessiva di durata che potrebbe sembrare (ma non è affatto!) decisamente abbondante.. E allora dai, diciamolo liberamente: The Love Goes On è un C-A-P-O-L-A-V-O-R-O, fatto e finito. Punto.
continua
05 Maggio 2023 12 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers
Non è mica facile fare una recensione degli Winger, a meno di non uno di quegli yes man che scrivono sempre bene di tutto e tutti e che l’ultimo album è sempre il migliore etc etc… In realtà a me questo Seven ha creato un po’ di problemini che andrò a descrivere. In primis al nome ed al sound Winger sono legati alcuni dei miei momenti d’ore nell’ascolto di questa musica, ricordo ancora una delle prime buche a scuola per andare in centro a Firenze ed accaparrarmi il debut, di cui si parlava così bene, custodendolo gelosamente nello zaino per poi introdurlo furtivo nel mobile dei vinili una volta rientrato a casa. In secundis credo che In The Heart Of The Young sia un album fondamentale per chi ascolta questo genere ed infatti l’ho anche inserito nel nostro catalogo dei classici. Infine anche la svolta più cupa ed oscura di Pull a me aveva favorevolmente colpito andando a formare con i primi due dischi un trittico eccezionale ed eterogeneo che tutt’ora mi sento di consigliare a chiunque si consideri un rocker. Poi sinceramente gli altri tre dischi ovvero: IV, Karma e Better Days Comin, al di là di qualche sporadico episodio, non è che mi avessero fatto tutta questa impressione, quindi ho avuto un approccio a Seven tra l’eccitato ed il titubante ed anche se, confesso, non mi sono strappato i capelli posso senz’altro affermare che dopo la triade iniziale questo sia a mio avviso il migliore disco degli Winger.
Bisogna dare atto agli Winger di aver sempre sempre continuato ad evolvere senza nemmeno tentare di riproporre il solito cliché all’ infinito e quindi ci sta che le varie evoluzioni e mutamenti di sound possano talvolta aver scontentato qualcuno, ma mi sento di poter dire che qui si è trovato il giusto equilibrio tra la voglia di innovare ed l’impronta classica degli anni d’oro, riuscendo a trasportare e rinverdire le emozioni di più di trenta anni fa e renderle attuali, inoltre, l’aver sempre mantenuto una formazione stabile infonde una certa sicurezza su come sia serio l’approccio della band. Un ottimo esempio è il primo singolo Proud Desperado che unisce una robusta e serrata struttura ad un piglio estremamente catchy (sarà forse per la penna di Desmond Child?) ed anche se il ritornello è magari un po’ banalotto funziona alla grande e ti entra subito in testa. Ancora meglio la seguente Heaven’s Fallen più soffusa e riflessiva e la successiva Tears Of Blood che dopo un avvio hellsbellssiano si snoda in un ritornello struggente e passionale. Altro pezzo di gran rilievo è la malinconica Broken Glass dove il buon Kip dà sfogo a tutta la sua abilità interpretativa. It’s Okay sembra uscita direttamente da Pull come una sorta di Down Incognito 2.0. Voglio infine citare la rovente ed elettrica Stick The Knife In And Twist e la conclusiva e magnifica It All Comes Back Around che pur avendo una diversa struttura a me chiama alla mente l’articolazione e la varietà di Rainbow In The Rose, 7 minuti e mezzo di puro godimento.
Quindi dopo tutte queste belle parole e queste belle canzoni, perché quindi non ho dato un voto più alto? Semplice, perché le altre cinque canzoni del disco non mi paiono all’altezza delle altre che ho prima menzionato, restando anonime e senza personalità, non dico assolutamente che sono filler, soltanto che non pareggiano le migliori per pathos e feeling.
Per concludere riassumo così: un bel disco, anzi come ho detto il migliore dai tempi di Pull, con delle splendide canzoni che saranno destinate a durare nel tempo e che quindi mi fanno consigliare l’acquisto del disco ed inserirlo nelle nostre discografie per poter anche in futuro goderne appieno.
05 Maggio 2023 6 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 2023
etichetta: Mighty Music
Partiamo da una considerazione, leggere quello che scrivono le etichette discografiche sui fogli di presentazione è inutile, diranno sempre che l’attuale è la formazione migliore del gruppo in questione, ma trattandosi dei Tygers of Pan Tang, gruppo fondamentale per lo sviluppo della new wave of british heavy metal, l’affermazione ci può stare se non si considera quella dei primi album nella quale Robb Weir, unico membro originale rimasto si avvaleva dei servigi alla voce e alla chitarra di due grandissimi quali John Deverill e John Sykes, oltre al fatto che i primi quattro album dei Tygers non possono essere uguagliati in bellezza e non possono neanche essere ricontestualizzati, altrimenti adesso suonerebbero obsoleti. Quello che è giusto fare è semplicemente ascoltare con attenzione i Tygers of Pan Tang così come sono al giorno d’oggi, né più, né meno. Questa ultima line up, che vede l’inserimento del nostro guitar hero Francesco Marras (qui la recensione del suo ultimo album) e del bassista Huw Holding, che ha esperienze con altri grandi nomi della nwobhm quali Blitzkrieg e Avenger, svolge un ottimo lavoro, sicuramente meglio degli ultimi album, buoni sia chiaro, ma più incentrati su un approccio hard rock.
A riprova di ciò, basta analizzare i singoli brani che compongono quello che è il tredicesimo album della band oramai anglo-italiana e si parte con “Edge of the world”, classico up tempo, un buon inizio che fa già capire in quali territori i Tygers vogliono tornare, quelli di casa loro, la nwobhm, intrigante l’effetto strisciante sulla voce di Jack e centratissimo il break acustico che da il là agli assoli di Robb e Francesco, i primi di una lunga serie: “In my blood” è un brano incalzante con un riff che più nwobhm di così non si può, ottima l’interpretazione di Jack, buono l’intreccio di assoli come praticamente in tutto l’album, “Fire on the horizon” è uno speed metal con un riff classicissimo e assoli al fulmicotone, anche qui ci si ritrova catapultati nella prima nwobhm, quando brani così erano all’ordine del giorno, sintomtica è “Light of hope”, hard’n’heavy c’è scritto nella presentazione della recensione e hard’n’heavy è quello proposto in questo brano teso dal un ritornello arioso, “Back for good” è un mid tempo cadenzato dall’andamento saxoniano come anche il ritornello, fuorviato dai cori più vicini a certo glam americano, non certo il pezzo più azzeccato, ma si ritorna su standard alti con “Taste of love”, ballad che rientra comunque nelle coordinate del metal inglese dei primi anni ottanta, basti pensare a “Strange World” (Iron Maiden), “Free man” (Angel Witch) o “Bringing on the heartbreak” (Def Leppard), bellissima e sentitissima l’interpretazione di Jack, “Kiss the sky” è praticamente la canzone sorella di “In my blood”, stesse caratteristiche, stesso ritmo coinvolgente e stesso intreccio azzeccatissimo delle soliste, “Believe” da un tocco più moderno senza snaturare il sound dei Tygers, ma riempiendo di tensione una canzone più tortuosa rispetto alle altre, quindi arriva “A new heartbeat”, la title track dell’ep uscito a Febbraio 2022, un heavy lineare con il riff più bello e azzeccato dell’album, qui tutto è convincente, risultando l’highlight di “Bloodlines”, chiude “Making all the rules” e ciò che ho scritto a riguardo di “Taste of Love”, vale anche qui nonostante un mood più oscuro, fin dalla partenza con un classico arpeggione d’atmosfera che sfocia in un tempo più sostenuto. continua
04 Maggio 2023 2 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock/Pomp Rock
anno: 2023
etichetta: Cleopatra
Quando un nome così importante si ripropone dopo un oblio durato praticamente 40 anni, ci si domanda se ce ne fosse bisogno, dati i cambiamenti inevitabilmente capitati nel mondo della musica, ma anche della cultura e più in generale nella conformazione geopolitica, insomma ha senso che una band come gli Angel ritorni ad essere attiva e a fare dischi dal 2018, cioè l’anno della loro riunione, tranne che due piccole parentesi nel 1985 e nel 1999? A giudicare dalla bontà di “Once upon a time”, direi di sì, perchè un genere come quello suonato dalla band di Frank DiMino e Punky Meadows può essere anacronistico, ma se è vero il detto che la classe non è acqua, nel caso degli ex protetti di Gene Simmons ce n’è a tonnellate; sicuramente aiuta il fatto che quando i rockers di bianco vestiti si sono affacciati sul music business erano già avanti coi tempi, portando l’hard rock agonizzante del 1975 ad un livello più alto, inserendo elementi sinfonici e magniloquenti su un tappeto orecchiabile e con qualche riferimento prog, in soli sette anni di attività, dal 1975 appunto, al 1981 anno nel quale si sono sciolti per la prima volta, gli Angel hanno pubblicato cinque album in studio e uno dal vivo, quest’ultimo pubblicato dalla Casablanca Records per ottemperare agli obblighi contrattuali, dato che la band praticamente non esisteva già più. I riferimenti a tutti gli album storici, escludendo quindi il debole “In the beginning” del 1999, si sprecano a cominciare dalla canzone che apre questo che è il secondo album registrato dagli Angel nel nuovo millennio dopo il buon “Risen” del 2019, “The torch” è un pezzo che non può non ricordare “Tower”, l’apertura del primo album autointitolato, stesso incedere epico e maestoso, stesso mood creativo, con la differenza che qui c’è un qualcosa di più moderno che fa sì che il pezzo non risulti datato, ma godibile e di certo il fatto che degli Angel originali sono rimasti solo i già citati cantante e chitarrista, influisce nel rendero il brano sì pomposo, ma anche più snello e anche leggermente più scarno di arrangiamenti soprattutto per quanto riguarda le tastiere, non più ad opera del fantastico Gregg Giuffria, ma del comunque buon Charlie Calv che, più avanti come vedremo, si ritaglierà i suoi spazi, che gli Angel siano poliedrici nell’intendere la materia hard, lo si capisce dalla successiva “Black moon rising”, in cui una base simil funky viene sorretta dai cori femminili che sanno tanto di gospel, mentre Frank, nonostante non sia più fisiologicamente esplosivo come nei seventies, strappa una prestazione da applausi, doppiata dall’incendiario assolo di Punky, il primo singolo estratto dall’ottavo album degli Angel è “It’s alright”, semplice ed immediata come deve essere un brano che deve coinvolgere e stamparsi in testa già dal primo ascolto, seppur, a mio parere risulti un gradino sotto allo standard compositivo ed esecutivo altissimo della band, dando modo comunque al frontman di adagiarsi perfettamente con la sua voce, ora più ‘calda’, più vicina allo stile di Steve Perry che non di Robert Plant, ma se volevate gli Angel più pretenziosi e teatrali, ecco “Once upon a time an Angel and a Devil fell in love (and it did not end well)”, sorta di mini suite nella quale, come è facilmente intuibile, viene raccontata la storia d’amore tra un angelo donna e un diavolo uomo, appunto non finita nel migliore dei modi, nonostante l’amplesso riprodotto dalla voce femminile e qui si capisce perchè Charlie Calv siede sullo scranno di Giuffria, forse meno incline ad usare i sintetizzatori pomposi, ma di certo non sprovveduto nell’uso di altri altisonanti tasti d’avorio come l’Hammond. “Let it rain” calma un pò le acque nel suo incedere di semiballad pianistica, ma viene subito spazzata via da “Psyclone”, hard rock vigoroso che se non fosse per l’interpretazione di Frank, sfiorerebbe il metal, grazie alla svisate elettriche di Punky alle quali fa da contraltare un Calv sempre più convinto, liberatosi definitivamente del fardello di essere il “sostituto di…” e se “Blood of my blood, bone of my bone” non fa che confermare il saliscendi di umori che gli Angel riescono a creare all’interno dello stesso disco, risultando d’impostazione più emblematicamente rock abbellita dai cori femminili e dalla solita prestazione maiuscola di Punky in coda al brano, “Turn the record over” sfocia nel più classico hard pop che gli Angel avevano magistralmente sfoggiato in “Sinful”. continua
03 Maggio 2023 0 Commenti Lorenzo Pietra
genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Tonehouse Records
Nuova uscita per gli Atomic Kings, band nuova di zecca con Gregg Chaisson al basso(Badlands, Red Dragon Cartel), Ryan Mckay alla chitarra, Jim Taft alla batteria e Ken Ronk alla voce. La Tonehouse Records pubblicherà il debut album e descrive il sound come un suono basato pesantemente sull’hard rock / blues degli anni 70-80.
Ma andiamo ad analizzare il disco….
Le prime tracce All I Want (scelto come primo singolo) ed Escape sono di buona caratura e girano su un riff di chitarra e basso rock con alcune sfumature Blues, e se la prima traccia ha un refrain e un riff che entrano subito in testa, la seconda nonostante il bel groove ha una melodia che non convince, rimanendo troppo anonima. Holding On parte con un basso rotolante e distorto, la canzone è più cupa e la parte cantata di Ronk, acuta, ricorda molto il suono settantiano confermato dal bell’assolo di chitarra. Take My Hand è un macigno hard rock, dove ancora riff e musica sono super, ma la differenza lo fa il pezzo strumentale finale da oltre 2 minuti.
Con Running Away troviamo il primo mid tempo, un rock melodico, con una gran melodia e ottimo lavoro alla batteria di Jim Taft, mai banale. Live ritorna a parlare settantiano con il riff indemoniato e l’intro di chitarra hard rock, il cantato torna su acuti difficili e il basso macina note infinite. I Got Mine varia sound, stavolta è il basso a farla da padrone con il suo riff incessante e suo funky mood, tutto sempre contornato dalla chitarra sempre presente col suo hard rock stavolta più ottantiano. Bella!
Jimi’s Page è una traccia strumentale da un minuto dove si intrecciano chitarra acustica e pianoforte, ma sull’attacco di Bloodline ritroviamo qualcosa dei Deep Purple, un riff grosso, hard rock dove batteria e basso seguono la chitarra a dettare il ritmo. Si chiude con la bonus track Illusion, che non aggiunge nulla al lavoro ma completa l’album con il suo rock melodico, dove trova ancora spazio il basso e le chitarre trovano lo spazio nella parte finale tutta strumentale, come a voler chiudere l’album in bellezza.
IN CONCLUSIONE:
Un bel disco, diretto mai banale, dieci tracce hard rock senza fronzoli, nessuna ballad o lento.
Se vi piace l’hard rock tra gli anni ’70 e ’80 dategli un ascolto.