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Nitrate – Feel The Heat – Recensione

12 Ottobre 2023 10 Commenti Francesco Donato

genere: Melodic Rock/Aor
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Quarto lavoro in studio per la melodic rock band inglese Nitrate. Anticipato dall’accattivante singolo “Wild in the city” arriva l’album “Feel the heat”, e la prima grande novità della band capitanata da Nick Hogg è la riconferma alla voce di Alexander Strandell (già Art Nation). Niente di scontato considerato che i primi tre lavori della band di Sheffield sono stati caratterizzati da un susseguirsi di avvicendamenti alla voce partiti con l’esordio di Joss Mennen (su Real World, 2018) e proseguiti con Phil Lindstrand (su Open Wide, 2019) e appunto Alexander Strandell (su Renegade, 2021). La band si completa con le ulteriori riconferme di Tom e James Martin, rispettivamente alle chitarre e tastiere, Richard Jacques alle chitarre e Alex Cooper dietro i tamburi.

Questo senso di continuità con il precedente “Renegade” pervade l’intero sviluppo dell’album, soprattutto quando la voce di Strandell tende ad esaltare “alla sua maniera” le melodie messe in campo dal songwriting della band inglese, caratteristica che arricchisce di enfasi soprattutto le strofe, che in quasi tutti i brani si aprono ariose, armoniose e ben congegnate sulle tonalità tanto care al vocalist. Non si esce dai canoni dello stile, questo è vero, ma dopo un paio di ascolti sul piano strettamente tecnico possiamo notare un netto miglioramento in chiave arrangiamenti, con un ottimo lavoro di ricerca e cura dei suoni da parte del tastierista James Martin, ed una produzione più uniforme e sicuramente ben curata.
“Feel The Heat” è anche il primo lavoro dei Nitrate per Frontiers Records, scelta che ha messo al servizio della band la produzione della Martin Bros Production (Vega) e collaborazioni di rilievo con artisti che gravitano l’orbita dell’etichetta italiana come la cantante norvegese ISSA, il leggendario Paul Laine (Danger Danger, oggi The Defiants), Leon Robert Winteringham (LRW Project), Alan Clark (Change of Heart), e Rob Wylde (Midnite City e Tigertailz). Avvio lanciatissimo con la titletrack, uno dei migliori colpi in canna dell’intero album. Sostenuta da un incisivo intreccio di tastiere “Feel the Heat” già dal primo ascolto ci trasporta nel mood ottantiano del disco e nelle intenzioni della band inglese. La voce di Strandell si esprime limpida e coinvolta, sfociando in un ritornello di presa facile. Si prosegue con l’accoppiata dei singoli “All the Right Moves” e “Wild in the City”. Siamo nel cuore pulsante dell’album, pezzi dove le melodie alzano la gonna pronte a sedurre gli amanti del rock melodico. I toni si fanno più morbidi con le cremose “Needs a Little Love” e soprattutto con “One Kiss (To Save My Heart)”, ballatona in cui il caro Strandell duetta con ISSA. Si torna ruggenti con “Live Fast, Die Young” e con le chitarre in prima linea di “Haven’t Got Time For Heartache”. Se siete fans dei Danger Danger la successiva “Satellite” non vi lascerà di certo indifferenti, mentre “Strike Like a Hurricane” strizza l’occhio ai Bon Jovi con tanto di coretti “ohh ohh” e tipico giro di basso. Altro giretto intorno agli ’80 è “Big Time”, ulteriore pezzo ad alto tasso melodico con tanto di campanaccio sul piacevole ritornello. Abbassa la saracinesca la dolce ballad “Stay”.

Un album sicuramente derivativo che farà la gioia dei fans dei vari Danger Danger, Bon Jovi, Journey o dei più moderni H.E.A.T, ma ben fatto, ben prodotto e arrangiato e con quella giusta dose di maturità da poter emerge intorno a tante proposte omologate su cliché molto spesso abusati.

Edge of Forever – Ritual – Recensione

12 Ottobre 2023 3 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock / Melodic Metal
anno: 2023
etichetta: Frontiers Music Srl

Terzo album dalla “rifondazione” della band (2019 – Native Soul, 2022 – Seminole) e sesto in totale per il moniker Edge Of Forever. Alessandro del Vecchio riprende quindi in mano la “sua” creatura anche se ormai si può dire che è più una creatura della “Band” che dal 2019 vede in formazione, oltre che Del Vecchio alla voce e tastiere, Aldo Lonobile alla chitarra, Nik Mazzucconi al basso e Marco di Salvia alla batteria.
Da Ritual quindi ci aspettiamo come minimo lo stesso livello e la stessa qualità già percepiti nei precedenti lavori di questa attuale formazione degli Edge Of Forever… e così è anche se il livello si alza ancora e diciamo subito che questo nuovo lavoro chiude idealmente una trilogia.
Stessi temi legati a natura, vita e terra, già trattati nei precedenti due lavori ma con il livello dell’asticella che qui tende ad alzarsi rispetto ai già ottimi precedenti lavori!

Ambiziosa l’idea di dividere idealmente l’album in due parti con la prima a fare più da altare al classico sound della band mentre la seconda parte racchiude una suite di sette pezzi che insieme formano la storia di due gemelli (maschio e femmina) nativi americani separati alla nascita e costretti in scuole differenti. Già vedo gli amanti del prog leccarsi le dita, ma parleremo di questa suite più avanti.

Iniziamo infatti con la parte più “classica” in cui ci aspettano sei pezzi in puro stile Edge of Forever. Già con Where Are You infatti il DNA della band si mostra in tutta la sua bellezza. La melodia si fonde con i segni decisi lasciati da una sezione ritmica forte e d’impatto sorretta da un lavoro di chitarra di alto livello. Su tutto brilla il ritornello cantato in maniera magistrale da Del Vecchio. Si aggiunge ulteriore pathos (e un tocco lieve di blues) sulle note di Water Be My Path per poi farti tritare dalla batteria incalzante del quasi metal melodico di Freeing My Will.
The Last One è un incalzante e cromato hard rock. Classe!
Ancora una volta, come già successo per Native Soul e Seminole, uno dei pezzi più belli di questo Ritual è una ballata. Love is the only Answer è pura emozione in note. A fargli da contraltare arriva subito a seguire la rocciosa e potente Forever’s Unfolding!

Qui si chiude la prima parte dell’album e si alza il sipario sulla suite Ritual! Non vi sveliamo nulla della storia e del suo dipanarsi assicurandovi però che il livello generale del songwriting è quello che avete trovato finora in questo lavoro, quindi alto se non altissimo. Il tratto della suite è spesso giocato su un hard rock potente e roccioso ma che non scorda mai il suo lato più melodico come nelle introduttive Ritual Pt. I e Ritual Pt. II Revert Destiny. Da far notare durante lo scorrere dei brani il gioco di Voci sovrapposte e incrociate di Ritual Pt. III Taunting Souls. Splendida poi, e dal tratto prog e dall’intento onirico, segue Ritual Pt. Iv Baptized In Fire. Si torna su un hard rock più melodico e classico con Ritual Pt. V Ride The Wings Of Hope. Quasi in chiusura lasciatevi ammaliare dal gioco voce / piano di Ritual Pt. VI Cross My Eyes e idealmente Ritual Pt. VII Reconciliation è la giusta chiusura di suite e album.

Un grande album e un grande lavoro. Poco altro da dire. Unica cosa che potrebbe impedirvi di ascoltarlo è un ribrezzo totale verso il genere, ma allora non sareste probabilmente qui a leggere queste righe. Quindi, complimenti Edge of Forever e ancora tanti album di questo livello!

Masaki – Feed The Flame – Recensione

11 Ottobre 2023 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock/Aor
anno: 2023
etichetta: Lions Pride

In tempi di uscite serrate e di estate piena (il disco è uscito il 31/7), ci eravamo ‘persi’ questa uscita targata Masaki, chiediamo quindi venia e provvediamo immediatamente a parlarne. Il Cantante John Magnus Masaki Nielsen è accompagnato in questa avventura da tre vecchie volpi della scena rock norvegese Tom Sennerud (Stoneflower, Days Of Wine), Eirik-André Rydningen (Nik Kershaw, Joseph Williams, Bill Champlin) e Leif Johansen (Days Of Wine, 21 Guns) che è accreditato in 6 canzoni su 10.

Il disco si muove in territori rock/aor con sonorità care ai Toto, ma anche volendo ai Chicago, anche se l’ approccio è più moderno e disincantato, con arrangiamenti a volte più pop oriented, mentre in altre occasioni si arriva quasi a sfiorare il progressive. Questo rende il disco molto attuale senza però rinnegare le origini sonore e svecchiandole un po’.

Il lotto di canzoni si svolge piacevole ed intrigante e già dopo un paio di ascolti il disco si canticchia che è un piacere, le melodie sono molto accattivanti e delicate, staccandosi nettamente dai vari coretti anthemici di matrice svedese che oggettivamente stanno cominciando a saturarmi i padiglioni auricolari. Le canzoni più interessanti sono senza dubbio: la title track Feed The Flame, che azzarda appunto arrangiamenti progressivi e la serrata Stone Cold con i suoi inserti pianistici ed il ritornello killer, She’s Not You è invece un lento delicato e delizioso così come Missing Me che rivisita alla grande gli eighties, chiudo infine le citazioni con la conclusiva Feels Like Home, un rock pop che rimanda alle ultime sonorità di Mark Spiro.

Spero di avervi incuriosito perché sinceramente questo Feed The Flame merita ben più di un ascolto, rilasserá la vostra  mente e il vostro udito.

Jelusick – Follow The Blind Man – Recensione

06 Ottobre 2023 11 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 2023
etichetta: Escape

Ambizioso e maturo, aggressivo e melodico, ma soprattutto studiato in ogni dettaglio. Un disco che si farà apprezzare l’esordio solista di Dino Jelusick, voce stimata nei lavori di Animal Drive e Dirty Shirley e talentuoso polistrumentista.

Heavy Metal Moderno nel suono e nelle strutture, mai banali o convenzionali dove le parti strumentali hanno la piena facoltà di rubare per battute lo scettro al cantante croato, classe 1992.
Tanto ispirato, quanto personale nei testi dove il nostro esporta all’ascoltatore tutte le gradazioni di sentimenti possibili. Giovane ma ben più di una semplice promessa, celebrato dalla chiamata da parte di Mr David Coverdale nella line-up del serpente bianco e ancora membro live della Trans Siberian Orchestra.

A Portare somiglianze stilistiche vicine a ‘Follow The Blind Man’ possiamo citare ‘Slave To The Grind’ degli Skid Row, i primi Alter Bridge, rimembranze sparse dei migliori Black Label Society (i ritmi serrati dell’opener “Reign Of Voltures”), Dio, Whitesnake. I Suoni e i toni delle chitarre sono a forza d’urto, l’impostazione del cantato sposa il talento di Dino che mostra la sua poliedricità nel rileggere sfumature alla Phil Anselmo (parti in growl nell’atomica “Acid Rain”), alla Sebastian Back (la terremotante “Died”), o ancora alla Ronnie James Dio (l’adrenalinica “Healer” e il gancio mancino sferrato da “What I Want”). Ascoltiamo “Animal Inside”, e rimaniamo ammaliati nella struttura e nei cambi di dinamica tramite intermezzi heavy/blues alla Whitesnake. Quando i lidi si fanno intricati ed intimisti l’ascoltatore risulterà ancora più attento e affascinato dal fiume di emozioni contrastanti emerse. Se eravamo rimasti estasiati dal primo singolo, l’ambiziosa “The Great Divide” per l’inusuale e pregiato sviluppo, “The Bitter End” è una ballad pianistica da pelle d’oca.

Gli intenti ibridi dovuti ad una natura artistica policromatica, consapevolmente diretti da uno Jelusick in stato di grazia rendono ‘Follow The Blind Man‘ un lavoro dallo spessore artistico notevole.

Supremacy – Influence – Recensione

03 Ottobre 2023 1 Commento Denis Abello

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Lions Pride Music

Secondo album ufficiale per i Colombiani Supremacy che dopo una lunga attesa di ben 8 anni danno un seguito al loro primo album Leaders (2015). Anni non passati con le mani in mano visto che la band, originaria di Bogotà, dopo la pubblicazione del primo album ha letteralmente girato in lungo e in largo l’America Latina supportando nomi importanti come Extreme, Sebastian Bach, Tim “Ripper” Owens e partecipando ad alcuni festival di livello come il Rock Al Parque ed il Corona Hell & Heaven Fest.
Tornati nel 2017 con un nuovo singolo, Sirius, che vede l’entrata in formazione del nuovo cantante Gus Monsanto la band era pronta per mettersi al lavoro sul nuovo album, ma, causa pandemia, i tempi si sono allungati fino ad oggi.

Influence, questo il nome del comeback, riporta in auge i Colombiani che con il primo album avevano mostrato buone qualità senza però andare, secondo il sottoscritto, completamente a centro. Due le cause dal mio punto di vista, una voce non perfetta per il genere e forse un po’ acerba ed una scelta stilistica dei brani non ancora completamente definita il che rendeva Leaders apprezzabile ma con ampi sali / scendi durante l’ascolto.

Ben venga quindi l’entrata nella band di Gus Monsanto che, non me ne voglia il precendete cantante, porta valore aggiunto alla proposta dei Supremacy. Così il primo punto che mi aveva fatto storcere il naso sull’album di debutto è smarcato. Passiamo ora al secondo, i pezzi!

Anche qui il buon Gus fa la differenza e la qualità dei brani è nettamente migliorata puntando ad un hard rock melodico di livello. L’introduttiva Passing Through è un brano bello roccioso che ben si adatta alla voce di Monsanto. Anche se l’asticella punta ad alzarsi dalla seconda Mr Big Shot con l’ospitata di Bruce Kulick alla chitarra. Belli gli inserti di tastiera che smorzano il tasto heavy del brano. Molto AOR oriented la successiva My Time con un ottimo lavoro delle chitarre.
Da segnalare ancora l’ottima Dancing with the Devil con l’azzeccatissimo inserimento del Sax, uno dei brani più interessanti del lotto proposto! Ancora una volta da segnalare l’ottimo lavoro alla chitarra per la successiva Sirius.
Classico ma ben confezionato il lento Dream of You dove ancora chitarra e voce, unite ad un’ottima sezione ritmica, riescono a dare quel leggero valore aggiunto che innalza il livello del brano. Si chiude senza il botto ma con du brani comunque coinvolgenti come Sin Paradise e Indigo Children.

Quinbi in chiusura possiamo dire che a questo giro i Supremacy fanno centro, grazie anche all’innesto di Gus Monsanto in formazione che chiude il cerchio di una band che ha i numeri per regalare delle belle soddisfazioni da qui a venire.
Influence è un netto passo in avanti rispetto al precedente lavoro, gli manca solo più quell’effeto “Wow” che potrebbe lanciare i Supremacy nell’Olimpo del genere, ma resta sicuramente un album da ascoltare in questa annata per chi è alla ricerca di un hard rock melodico dal tratto raffinato.

Black Stone Cherry – Screamin’ At The Sky – Recensione

29 Settembre 2023 4 Commenti Paolo Paganini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Mascot Label Group

Forti di 17 anni di carriera e di una reputazione e stima ormai consolidata in tutto il mondo tornano oggi i Black Stone Cherry fautori di un rock moderno influenzato da svariati gruppi del passato. Nel loro sound trovano infatti spazio sonorità riconducibili al southern rock (Lynyrd Skynyrd, Black Rose) passando per l’hard rock dei Metallica per arrivare al post grunge dei più recenti Soundgarden e Nickelback. Il risultato è un suono molto personale e riconoscibile che abbraccia una platea piuttosto ampia di estimatori.

Il nuovo lavoro anticipato dal singolo “Nervous” si presenta con un indurimento dei brani che suonano molto più compatti e granitici rispetto al recente passato senza però mai rinunciare a linee melodiche estremamente piacevoli. Il risultato si può apprezzare in songs quali “Smile, World” e “Screamin’ At The Sky” vicine agli Alter Bridge più recenti e nella commerciale “R.O.A.R.”. Per tutta la durata del cd il livello si mantiene molto alto e grazie ad una produzione brillante ed alle indiscutibili capacità tecniche dei musicisti coinvolti non si avvertono cali per tutte le 12 tracce permettendo al disco di essere ascoltato per intero senza mai aver voglia di skippare.

Un album che troverà terreno fertile sia tra chi apprezza il rock melodico che tra gli estimatori dell’hard rock contemporaneo. Restiamo in attesa di vederli dal vivo anche qui da noi dove sono già passati diverse volte nel corso della loro carriera magari questa volta da headliner.

Ronnie Romero – Too Many Lies, Too Many Masters – Recensione

19 Settembre 2023 2 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Uscita settembrina per il super gettonatissimo cantante Ronnie Romero, impegnato in molteplici progetti hard e heavy, che in questo caso ci propone il suo personale progetto solista.

Partiamo con “Castaway To The Moon”, molto tirata e godibile, musicalmente ben congegnata, classica nella struttura ma comunque molto piacevole. La grande competenza tecnica si vede e si sente: “Mountain Of Light” trascina e convince, strumentalmente oscura e tagliente, un tripudio di ‘metallosità’ gradevole e ben pensato. “I’ve Been Loosing You” è un’altra composizione canonica: introduzione di pianoforte, dinamica meno pesante, voce suadente, a costruire un ottimo brano intenso e sentito. Arriviamo alla title track “Too Many Lies, Too Many Masters”, dalle influenze inconfondibili, che si radicano nella storia dell’hard rock e nella tradizione vocale di Ronnie James Dio e ci consegnano un pezzo deciso e dal grande impatto complessivo, scelto giustamente come “simbolo” dell’album. Con “Girl, Don’t Listen To The Radio” rimaniamo sulle stesse lunghezze d’onda delle precedenti tracce: chitarre taglienti, voce calda e suadente, perfettamente amalgamate tra loro in un clima oscuro e misterioso. Leggermente più scanzonata, “Crossroad”, con la sua cadenza, sorprende per dinamica e interpretazione, come la potente e martellante traccia successiva, ovvero “Not Just A Nightmare”, travolgente dal primo all’ultimo secondo. Arriviamo al lentone di turno con “A Distant Shore”, dagli effetti interessanti e dalla trama penetrante, un giusto momento di riflessione in mezzo a tutto questo metal. “Chased By Shadows” si mantiene perfettamente in linea, sia per modalità strutturale che per compattezza musicale, non spostando eccessivamente gli equilibri all’interno dell’opera. Arriviamo alla conclusiva “Vengeance”, molto veloce e spietata, perfetta per chiudere un album equilibrato, standard, inscrivibile alla cerchia dei buonissimi lavori hard/heavy, che percorre il solco dei grandi del genere e che può risultare piacevole ad un’ampia platea di pubblico.

Robledo – Broken Soul – Recensione

19 Settembre 2023 0 Commenti Paolo Paganini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Seconda prova solista per il singer cileno James Robledo coadiuvato per l’occasione dal valido chitarrista Nasson dal bassista Alex Jensen e dal nostro Jacopo Martignoni alla batteria. Ad occuparsi delle tastiere e soprattutto della produzione il prezzemolino dell’hard rock targato Italia l’immenso Alex Del Vecchio.

Diciamo subito che in un mercato super inflazionato di uscite più meno valide il presente Broken Soul non spicca certo per originalità. Delle undici tracce presenti infatti ben poche colpiscono e per molte di esse si avverte la sensazione di ripetitività che certo non giova alla buona riuscita di questo lavoro. La partenza è data dalla title track, nonché primo singolo estratto, certamente un buon pezzo di hard rock melodico su cui la bella voce di James si esprime alla perfezione. Già dalla seguente Real World si intuisce che non dovremmo aspettarci grandi sorprese e la conferma arriva con la seguente Righ Now, Right Here che pur risultando un pezzo abbastanza riuscito non si discosta di un millimetro da quanto giù ascoltato. Le cose non migliorano col passare delle tracce e da qui alla fine possiamo apprezzare giusto la power ballad Run And Hide e la conclusiva To The End.

Un disco che strappa una sufficienza abbondante, ma che sicuramente non lascia il segno e non ci stimola più di tanto a reiterare gli ascolti.

Electric Boys – Grand Explosivos – Recensione

14 Settembre 2023 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Mighty Music

Se l’Hard Rock fosse (e in parte lo è) questione di punti di vista, o di ascolto, gli Electric Boys rappresenterebbero quella risposta che ciascuno di noi si è ritrovato a ripetere in alcune circostanze : ”sai, non ci avevo pensato” come a sottolineare l’ampiamento dei nostri orizzonti in favore di una veduta meno conservatrice e più composita.

Svedesi, nati sul finire degli anni 80 con la volontà di differenziarsi dalle proposte di sicuro successo commerciale dell’epoca, lontani dal massiccio uso di tastiere e da soluzioni stilistiche al limite del pop, sin dagli albori il quartetto di Stoccolma fece della fusione di ritmiche Funky miscelate a suoni Glam il proprio marchio di fabbrica. E con l’album di debutto, ‘Funk-O-Metal Carpet Ride’, le cose andarono piuttosto bene; ottime vendite in Europa, specie in Gran Bretagna, ed inserimento nel mercato statunitense con 5 dei brani raffinati niente di meno che da Bob Rock. In seguito all’arrivo del grunge, come il 99% dei colleghi più o meno illustri, gli Electric Boys si sciolsero salvo riformarsi nel 2009 in line up originale e ripartire a produrre nuova musica con buona costanza in termini di quantità e qualità.

Ad oggi della line up originale sono rimasti Conny Bloom alla voce e alla seconda chitarra e il bassista Andy Christell, per il qui presentato “Grand Explosivos” ottavo disco in studio prodotto dalla Mighty Music. Ignorando gli anni che passano, la miscela di funky e hard rock sporco, grezzo, ruvido come la carta vetrata, è ancora tra noi, a sottolineare il concetto che per quanto il rock sia un termine ed un genere ad oggi abusato, violentato e ahimè bistrattato, non potrà mai dirsi esausto e spacciato anche quando dalle nuove leve verrà considerato anacronistico.
Composto ad Ottobre del 2022 a Palma de Maiorca, a partire dall’esplicita opener “When Life Treats You Funcky”, il duo Bloom/Christell coadiuvati da Martin Thomander alla chitarra e Jolle Atlagic alle pelli, confermano i propri intenti ora come 35 anni fa. Riff di chitarra sporcati da blues di sigarette e whiskey, seguiti da una linea vocale riuscita e facilmente memorizzabile. Il disco suona compatto con una qualità media superiore alle produzioni contemporanee; Non mancano ritornelli catchy come in “Domestic Blitz” e “Karma’s Gonna Get You” o arrangiamenti ad alto tasso seduttivo (vedi “I’ve Got a Feelin’”); trame chitarristiche degne del miglior glam (“Missed Her By a Name”) e assoli ispirati dallo street, dal gusto melodico ricercato (“Better Safe than Sober”).

Gli Electric Boys indossano un’essenza difficilmente replicabile; artisticamente posizionabili tra gli Aerosmith meno ripuliti e i Quireboys più ispirati. Consigliato agli amanti della musica privi di paraorecchie, alla ricerca di piacevoli, vecchie, nuove, vecchie, nuove… avventure.

Vega – Battlelines – Recensione

08 Settembre 2023 6 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Al primo ascolto “Battlelines” è una cocente delusione. La logica conseguenza e prosecuzione dei precedenti due lavori a marchio Vega, troppo uniformati allo stilema Eclipse/Frontiers, senza picchi emozionali e dall’aspetto monolitico. Ma se fingiamo che i capolavori “Kiss Of Life”, “What the hell” e “Who We Are” siano stati composti e suonati da un’altra band e riascoltiamo da capo l’album ancora ed ancora , alla fine ci troviamo a cogliere un seppur minimo passo avanti a livello compositivo. Maggiore differenziazione tra pezzo e pezzo ed uso di linee vocali meno scontate riescono a fatica ad emergere da una produzione che purtroppo tende ad appiattire oltremodo i suoni. E così scopriamo che “Heroes and zeroes” non va poi così male come opener e che il coro anthemico alla fine si lascia anche canticchiare. Cosa che non succede per l’anonima “Killers”, ma che si ripete per la titletrack, canonica ma aggraziata. Imbellettata di tastiere, “Love to hate you” ripropone un refrain che sa di trito e ritrito, ma brutto non è. L’amosferica “Don’t let them see you bleed” getta le proprie radici nel glorioso passato della band. “Embrace the gray” tiene fede al titolo rappresentando il lato più oscuro dell’intero lavoro. “33’s and 45’s” le fa da contraltare risultando in assoluto il pezzo più catchy ed anche il più gradevole del lotto. Viene il turno della vagamente leppardiana “Into the fire”, assolutamente godibile dall’inizio alla fine. Tempo spedito per “Run with me”, non particolarmente originale. Poco convincenti anche “Not enough” e la quasi punkeggiante “God save the king”. Piace, invece, la conclusiva “Gotta be you” soprattutto per il ritornello martellante.

Tirando le somme, da un gruppo che io valuto di primo livello mi aspettavo, anzi, pretendevo qualcosa di più. Su quest’album ci sono ancora troppi riff che si somigliano. C’è una produzione non degna del calibro della band ma, soprattutto, non ci sono pezzi che spaccano come succedeva in passato. Per me i Vega sono quelli che ho visto sul palco dell’ultimo H.E.A.T. festival del 2019 a suonare “White flag”, “Stereo Messiah” , “Kiss of life”. E sotto il palco, in mezzo a noi spettatori, a vedere le altre band esibirsi. Punto.