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Creeper – Sanguivore – Recensione

30 Ottobre 2023 11 Commenti Stefano Gottardi

genere: Rock
anno: 2023
etichetta: Spinefarm

Era solo un numero.

All’approssimarsi del suo primo ventennio di appassionata dedizione alla materia, sempre perorando la causa dell’underground, l’umile “scribacchino” si apprestava a mettere la parola fine alla sua opera di divulgazione del verbo rock/metal. Le cose erano profondamente cambiate rispetto a quando aveva incominciato, ed ormai scrivevano in tanti. Nessuno ci avrebbe badato, anche perché l’umile “scribacchino” non avrebbe fatto inutili proclami a riguardo. Aveva versato fiumi di parole, che da qualche parte sarebbero rimasti, e da giovane ragazzo era diventato uomo: di musica ne aveva sentita parecchia e a questo punto era difficile emozionarsi come un tempo. Un giorno però, quasi per caso, un disco capitò sotto al suo naso, riuscendo per un attimo a catturare la sua attenzione. Il nome del gruppo, il titolo dell’album e la copertina gli avrebbero dovuto far pensare che quel lavoro non sarebbe stato stilisticamente affine ai suoi gusti, eppure qualcosa lo spinse ad ascoltarlo. Terminato il primo passaggio nello stereo l’umile “scribacchino” era disorientato, e concluso il secondo non cambiò granché. Anche soltanto definire con precisione il genere musicale gli sembrò impresa ardua, stavolta. Proseguendo con gli ascolti alcune cose divennero più chiare, ma non del tutto.

Fu allora che all’umile “scribacchino” si accese una lampadina e capì che non era ancora arrivato il momento di dire basta. Decise di saperne di più su quella band, scoprendo che era inglese, che era partita qualche anno prima da una base goth-punk (Eternity In Your Arms, 2017) e che successivamente, rivelando anche un certo interesse verso i concept album, aveva abbracciato territori più horror e glam rock (Sex, Death & The Infinite Void, 2020). E horror e concept album erano due fattori, peraltro anche accentuati, proprio del disco che stringeva tra le mani e che narrava le gesta dei due giovani vampiri Mercy e Spook.

Al confuso umile “scribacchino” non restò altro da fare che mettersi alla ricerca di altre recensioni, per tentare di schiarirsi le idee. Ne lesse almeno due decine. Fra i nomi citati fra le righe dei pensieri di altri scribacchini, alcuni erano ricorrenti (Meat Loaf, The Sisters Of Mercy, Alice Cooper, Ghost, Depeche Mode, The Cult), altri meno (The Misfits, Nick Cave, Ozzy Osbourne, The Damned). Tutti, o quasi, gli parvero in qualche modo avere un senso nel disegno dei Creeper di Sanguivore. Un album che a suon di passaggi era cresciuto fino a conquistarlo. Dopo tutti questi anni aveva capito che l’appagamento raggiunto durante l’ascolto, possibilmente condito da una buona produzione e dei bei ritornelli, era la chiave per aprire le porte del suo cuore. E questo disco l’aveva fatto.

L’umile “scribacchino” si rese conto di non essersi soffermato sulla descrizione dei brani dell’album oggetto di recensione, ma mai come questa volta nella sua testa vi era la convinzione che più delle sue parole avrebbero parlato le canzoni stesse. I tempi erano cambiati e i dischi, di cui in passato si poteva solo leggere sulle pagine di una rivista prima di acquistarli, ormai si riuscivano ad ascoltare facilmente con un click.

A quel punto l’umile “scribacchino” sarebbe stato tentato di esagerare con il voto, ma sapeva bene che avrebbe dovuto ritornare lucido ed essere coerente con se stesso, e corretto con i lettori. Cento, del resto, aveva sempre pensato che fosse il voto da non dare mai, quello che se avesse assegnato ad un album avrebbe messo davvero la parola fine alla sua “carriera”. Sì, perché dopo un disco perfetto di quale altro lavoro sarebbe mai valsa la pena prendersi la briga di parlare? E così assegnò il voto che nella sua testa era quello giusto, ma che rimaneva pur sempre un’opinione.

O forse, più che un’opinione, solo un numero.

IN CONCLUSIONE

Prodotto da Tom Dalgety (Ghost, Royal Blood, The Cult, Killing Joke), e dedicato alla memoria di Jim Steinman, il CD è in confezione digipack con booklet completo di tutti i testi.

Dokken – Heaven Comes Down – Recensione

30 Ottobre 2023 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Silver Lining Music

Un disco dei Dokken nel 2023, date tutte le vicissitudini del buon Don, sembrava quasi impossibile ed invece ecco che esce questo Heaven Comes Down che, a quanto pare, dovrebbe essere l’ultimo disco a chiudere il cerchio di una carriera quarantennale.

Se a livello sentimentale non si può che voler bene ad un artista di questo calibro, mostrando così una certa benevolenza verso questo ultimo atto di una lunga e gloriosa discografia, bisogna però ammettere che, vocalmente, oramai siamo al livello di sussurri ed echi delle glorie che furono. Devo però dare atto a Don di non provare nemmeno a scimmiottare se stesso, ma di mettere cuore e passione in questo suo ultimo atto, buttando sul piatto una buona abilità compositiva ed un sacco di feeling per compensare la voce che oramai non c’è più.

Il lotto di canzoni è comunque di discreto livello e pur non potendolo considerare un capolavoro, regala qualche picco artistico di rilievo nell’opener Fugitive, grazie al tocco di class metal vecchio stile che oggi giorno, sempre più di rado, capita di sentire. Ricca di feeling è la blueseggiante Is It Me Or You? ed anche l’ultimo singolo Over The Mountain con quel suo fare piratesco (c’è un po’ di Running Wild in salsa hard rock) funziona bene. Segnalo inoltre la conclusiva e struggente Santa Fe, dove Dokken ci racconta tutta la sua storia con un taglio acustico e southern, in questo caso, adattissimo alla sua attuale voce accompagnandoci emotivamente nell’ultimo viaggio di un grande artista. Il disco è inoltre ben suonato e prodotto ottimamente, cosa che di questi tempi è bene non dare per scontata.

insomma, ci sono due modi per giudicarlo, col cuore e con la testa, ma stavolta voglio essere democristiano ed il voto rappresenta la sintesi delle due concezioni. A voi approcciarvi a questo disco con il vostro punto di vista…

Atlas – Built To Last – Recensione

23 Ottobre 2023 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog/Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Metalpolis

Boh, io questo disco non lo capisco proprio. Siccome il precedente Parallel Love mi aveva dato buone sensazioni, mi sono fiondato per recensire questo nuovo Built To Last e confesso che ne sono rimasto abbastanza deluso. Mi sembra che siano stati estremizzati i difetti del precedente nascondendone gli evidenti pregi. Il power prog melodico degli Atlas, vira infatti verso la melodia con ritornelli più accattivanti e pur mantenendo un notevole lavoro chitarristico, si volge verso una banalizzazione delle composizioni che perdono freschezza ed articolazione, in favore del tentativo di più facile fruizione.

E pensare che la opener  All Or Nothing, con i suoi rimandi al power melodic rock dei Balance Of Power, mi aveva fatto ben sperare. Segue la semi cover di It’s My Life dei Bon Jovi ovvero You’re Not Alone e francamente, non ne capisco il senso. One More Night presenta spunti intriganti e vari, vanificati però dal cantato, che a mio giudizio è fuori tono rispetto alla canzone ed è un problema, perché purtroppo affligge quasi tutte le composizioni. In Tears, per esempio, dove viene adottato un tono vocale più consono, il risultato finale è sicuramente più apprezzabile ed anche Unfamiliar Love, presenta una struttura varia e potenzialmente interessante. Tra le composizioni più ispirate, voglio infine citare  Chasing Portraits II: Closer To The Picture, perché tenta di fondere il melodic rock con strutture progressive non banali.

Il difetto che a mio parere affligge maggiormente il disco in questione è però la produzione. Il suono è impastato e cupo, la voce è troppo in evidenza rispetto agli strumenti e quando suonano tutti insieme non si riesce a distinguere quasi niente, su qualsiasi device lo si ascolti. Prima di esprimere un parere così tranchant, ho ascoltato il disco per intero sei volte: una sul pc, una in auto (e vi assicuro che il mio impianto in auto è assolutamente Hi-Fi) ed infine sul mio impianto domestico di riferimento. I risultati, ahimè, sono stati più o meno gli stessi, ovvero: una fatica di ascolto elevata ed una scarsa soddisfazione ed anzi, migliore l’impianto… maggiore il rimpianto.  Questa è la mia opinione a lungo ponderata, adesso sono curioso di leggere le vostre.

Peccato, perché qualche buona idea nel disco ci sarebbe… Speriamo nella prossima volta.

Lalu – The Fish Who Wanted To Be King – Recensione

20 Ottobre 2023 4 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog. Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Dopo il bellissimo Paint The Sky dello scorso anno (Qui la recensione), che non ho esitato a mettere nella mia top ten del 2022, tornano i Lalu con questo The Fish Who Wanted To Be King che ne continua l’evoluzione artistica. In piena tradizione progressive, questo album si evolve in maniera un po’ diversa dal suo predecessore. Vivian Lalu non ama infatti ripetersi e sposta decisamente il focus sull’intreccio musicale delle canzoni, perdendo magari un minimo di facilità di fruizione, ma andando a dipingere veri e propri quadri fatti di pennellate intricate, a volte oscure, cercando il dettaglio e la nuance giusta nel punto giusto, curandosi meno dell’immediatezza dell’insieme.

Diminuisce il numero dei brani e ne aumenta la lunghezza media, per dare così più spazio all’articolazione del concept basato sui principi del dadaismo, sviluppando ulteriormente le idee espresse in Paint The Sky. Damien Wilson, autore delle lyrics, ne spiega così l’essenza: “The Fish Who Wanted To Be King, serve come un toccante promemoria della nostra dipendenza collettiva dall’adattabilità e della natura in continua evoluzione della nostra esistenza. Mentre riflettiamo sul passato per acquisire saggezza, sono l’esplorazione di territori inesplorati e le meraviglie della nostra mente che detengono la chiave per sbloccare il nostro futuro”. Con un concept del genere si capisce bene perché i brani siano così articolati e complessi.

Musicalmente il disco è impeccabile e la voce di Wilson ci culla durante tutto il percorso. I momenti che sono concessi ad un ascolto più disimpegnato sono: l’ opener Forever Digital ed il singolo di matrice ‘GenesYes’ Is that a London Number?. Il resto dei brani come detto, necessita invece di ascolti più approfonditi per essere compreso ed assorbito al meglio, ed in sostanza, anche se io complessivamente continuo a preferire la maggiore immediatezza di Paint The Sky, mi immergo volentieri in un’altra sessione di ascolto dell’ opera, perché non vedo l’ora di coglierne le ulteriori infinite sfumature…


Lynch Mob – Babylon – Recensione

20 Ottobre 2023 4 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

In arrivo il nuovo album dei leggendari Lynch Mob del guitar hero George Lynch, ex – chitarrista della storica band Dokken, che propone come suo solito un hard rock ben realizzato e intarsiato da interessanti soli di chitarra.

Partenza riservata a “Erase”, pezzo che mette subito le carte in tavola: la presenza della chitarra di Lynch sarà preponderante, con una ritmica serrata e con frasi solistiche sempre ben delineate e consistenti. Passando alla successiva “Time After Time”, godiamo anche della discreta e cadenzata parte ritmica, canonica e senza fronzoli, che attesta questo brano nella miriade di brani hard rock. “Caught Up” non esalta particolarmente, dando l’impressione di avere qualcosa di già ascoltato, cosa che capita incredibilmente anche con la successiva “I’m Ready”, in pieno stile vanhaleniano, che però non fa scattare nulla nel cuore dell’ascoltatore. “How You Fall” ricorda vagamente “Mr. Scary” dello stesso Lynch in alcune parti della ritmica, proponendosi come l’ennesimo riciclo ritmico: insipida nel complesso. Arriviamo alla canzone introspettiva del lavoro: “Million Miles Away” convince nella sua interezza, dimostrandosi sentita ed emozionante, ma ben lungi da altre creazioni a marca Lynch. “Let It Go” raggiunge un discreto indice di gradimento, frutto di una buona parte vocale che si appoggia degnamente sulla parte strumentale. “Fire Master” convince con la sua intenzione genuina e su una buonissima coralità, non mollando di intensità neanche per un secondo. Cupa e oscura, “The Synner” strizza l’occhio ad atmosfere blueseggianti, non scadendo mai nel banale. Cala il silenzio dopo la title – track “Babylon”, articolata e ben strutturata, conclusione per un disco eseguito in modo ottimale, non propriamente originale e a tratti non esaltante, quasi spezzato in due tra banalità e buoni spunti.

Vitalines – Wheels Within Wheels – Recensione

19 Ottobre 2023 2 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Interessante (a questo giro) ennesimo connubio costruito dalla nostrana Frontiers: il re mida e protagonista di mille o forse più progetti Tommy Denander presta i suoi servigi di scrittore ed esecutore (nel qui recensito ‘Wheels Within Wheels’ di basso, chitarra, tastiere) e si unisce in collaborazione al talentuoso ed esperto singer Robbie LeBlanc (Blanc Faces, Find Me) per dare vita al progetto Vitalines. Il musicista svedese è simbolo di garanzia e di prolificità in note: equamente, sia dove ha potuto imprimere la propria volontà artistica, sia dove ha reso il suo contributo da semplice esecutore, pensiamo a Radioactive, Rainmaker, Street Talk, Cry of Dawn, Impera, Ozone, solo per citare i primi che mi vengono in mente, presentano sfumature e colori diversi.

L’opener e primo singolo “Judgement Day is Here” suona moderna e muscolare in linea con le produzioni dell’etichetta partenopea.
L’accoppiata “Love Not Fantasy”/“Hello Word We Need To Talk” richiama alla memoria il modus operandi dei Toto più classici, con parti chitarristiche di spessore e break strumentali evidenziati da una produzione cristallina ed all’altezza. “Cards From Another Game” trasuda l’essenza dei Foreigner più rocciosi ed essenziali abbandonandosi alla melodia nel chorus. I passaggi ‘deboli’ rimangono quelli più affini ai Find Me, dove manca il guizzo melodico o il passaggio strumentale ispirato da renderlo gustoso: ”Love and Thunder” e la title track in questo non mi hanno convinto. Cosi lo svolgimento di “When Spirits Fight” vive un upgrade mediante un’outro delicata, emotiva, romantica, elevando la qualità ordinaria del pezzo. Le atmosfere notturne e dinamiche di “You Never Know With Magic” diversificano piacevolmente il playing.
Se “Life Waits For No One” richiama gli FM dei primi anni ’90, “You Are The Reason I Am” trascina l’orecchio verso i Bad Company che noi adoriamo (Brian Howe era), con un blues melodico contornato da tasti d’avorio. “Nothing but Silence” rallenta i ritmi e chiude il disco, una semiballad dal coro soul confortevole e consolante.

Un buon lavoro, piuttosto lungo, maggiormente difforme da quanto potrebbe aspettarcisi; risultato di uno sforzo artistico che va oltre il compito estivo. Maturo, scritto e suonato da due dei più talentuosi interpreti odierni del genere, per essere apprezzato appieno merita un’attenzione che consiglio di dedicare.
Il fattore Denander, risulta essere una carta sicura e vincente…ancora.

Station – And Time Goes On – Recensione

18 Ottobre 2023 0 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Station music llc

“ED IL TEMPO VA AVANTI” è il titolo tradotto del presente full-lenght; una sacra e, a volte, triste realtà. Raffigurato dall’esplicativa “rosa rossa su sfondo cupo” in copertina, tornano i newyorkesi Station al loro quinto album in studio, capitanati in cabina di regia dal chitarrista Chris Lane. La band americana non cambia la formula, inventando nulla di nuovo, confezionando un album di schietto rock in chiara matrice a stelle e strisce.

Tre i singoli, ad oggi, rilasciati; il primo è “Over and over” in cui si respira l’aria di malinconica (“The love of pure nostalgia; It keeps you warm before it’s getting old”) che si denota in copertina. La stessa vena di tristezza si ha in “Close my eyes” (“I’m waiting for an answer so silently to questions I’ve never asked before”) anche se musicalmente entrambe le canzoni hanno una struttura con un buon piglio di energia. La più piacevole, anche nella visione del video edulcorato, è “If You Want Me Too”. Più sbarazzina e con cenni quasi “leppardiani” è la sesta traccia “Locked away” che combinata “A little bit of love” dànno segnali di originalità. “Touch” è la canzone più duratura e fatalmente diventa soporifera nel suo lungo incedere. Gradevoli “Something in between” e “Around the sound”, entrambe caratterizzate da un buon lavoro alla chitarra e dalla presenza, nella prima, di qualche tocco di keys. Si chiude in bellezza; acustica e con un occhio che guarda ai connazionali Roxanne, la conclusiva “AND TIME GOES ON”.

Conclusioni:
Un album praticamente omogeneo dove manca il salto che porta al di là dell’asticella, ma dove comunque si respira la bravura dei quattro musicisti americani.

Kings Crown – Closer To The Truth – Recensione

17 Ottobre 2023 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Grande uscita per i Kings Crown, super gruppo formato da artisti navigati e dal grandissimo talento, che propongono un hard rock melodico compatto e dal grande sapore nostalgico.

La voce di Lee Smalls riverbera sin dalla prima traccia: “It’s Too Late” convince, ricorda il meglio dell’hard rock britannico di marca Whitesnake e prepara in modo eccellente le orecchie dell’ascoltatore. “Servant” si sposta su orizzonti più oscuri, creando atmosfere struggenti e dalla grande intensità. Tagliente e decisa, “Still Alive” ci avvolge col suo riff martellante, ben cesellato e intarsiato con le parti di tastiera, sempre molto coinvolgente e cantabile. Arriviamo al lentone di rito: “Standing On My Own” ci rimanda inevitabilmente alla tradizione, al canone dell’hard rock, sia per stilemi che per intenzione complessiva. Torniamo a picchiare con “Stranger”, anch’essa attingente a piene mani dai classici del passato (forse troppo), che non sfigura assolutamente e diverte dal primo all’ultimo secondo, cosa che accade anche per la successiva “Down Below”, che poco si scosta dalla precedente e dalla storia dell’hard rock. “Stay The Night” emoziona e mette in risalto una ad una le capacità strumentali della band. Arriviamo alla title track: “Closer To The Truth” è una cavalcata imperterrita nei meandri del rock melodico, coi suoi crescendo e la sua dinamica sempre azzeccata, così come la scelta vocale coinvolgente e la perizia strumentale. “I Will Remember” non spicca né per originalità, né per intenzione, risultando complessivamente insipida ma gradevole. Tambureggia nei nostri cuori e nelle cuffie “Don’t Hide”, buonissimo brano dalla struttura e dai passaggi a tratti scontati. Chiudiamo l’ascolto con “Darkest Of Days”, pezzo che non fa altro che confermare l’idea generale su questo lavoro: esecuzione impeccabile, struttura delle tracce convenzionale e standard, suoni azzeccati, ma una complessiva aria di nostalgia.

Twisted Rose – Cherry Tales – Recensione

17 Ottobre 2023 3 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard/Glam
anno: 2023
etichetta: 7us/7 hard

Si sa ben poco di questi Twisted Rose, band tedesca nata nel 2018 e autrice, a quanto si capisce dai loro media, di due ep, una manciata di singoli e questo “Cherry tales”, uscito lo scorso Settembre, ma si sa a che cosa si va incontro una volta che ci si avvicina a quello che parrebbe (un po’ più di chiarezza non guasterebbe, manco fossero dei misantropi blacksters norvegesi!) l’esordio su lunga durata dei quattro teutonici, ossia quel glam-street che ha fatto la fortuna trenta e oltre anni fa di Faster Pussycat, L.A.Guns e Vain, ma con un tocco di tamarraggine crucca che non può mancare e che, in certi frangenti, fa sfiorare il metal tout court.

L’opener “Greed4speed” è quanto di più impattante, vigoroso e lascivo al tempo stesso, con un riff azzeccatissimo e la voce potente e svergognata di Caro, definita nella bio ‘The First Lady of Rock n’Roll’, ok, ma ragazzi torniamo un attimino sulla terra prima di svolazzare verso lidi dove ben altre donzelle hanno già detto molto; vero è che la ragazza ha grinta da vendere e, almeno qui lo dimostra, ma come vedremo, non sarà sempre così. Intanto punterei subito il dito su una produzione che vede una batteria ipertriggerata, che tende a coprire gli altri strumenti, cosa che per un disco del 2023 non è più accettabile, ma evidentemente lo spingere su un sound più martellante è qualcosa che va per la maggiore, però a mio parere va a svilire il marciume streeteggiante che questi gruppi dovrebbero porre in risalto. A farci capire che non siamo di fronte ad un’accozzaglia di depravati sputati fuori da chissà quale buco fumoso del Sunset Strip, ecco che arriva “Wanted”, dove echi di Scorpions e di tamarraggine metallica tipicamente tedesca di cui parlavo anche in apertura, tendono non solo a rendere meno deflagrante l’approccio dei Twisted Rose, ma addirittura fanno scappare anche più di un sorriso non proprio benevolo e se da una parte c’è ancora qualcuno che strippa per queste sonorità quantomeno ingenue, dall’altra ci sono io, e vi assicuro di non essere solo, che queste cose non riusciva ad ascoltarle nemmeno negli anni 80, figuriamoci adesso.

Il disco è un susseguirsi di alti, ad esempio il blues fumoso di “Bring back those days” o quello più sbragato di “Friday night blues”, la struggente ballad “Crossing the line”, l’urgenza punk-street di “Back to the old days” e il metal melodico di “We can’t get enough”, e di meno alti, se non bassi , come la già citata “Wanted” e tutti gli altri pezzi finora non citati, che non sfondano, non hanno tiro, scorrono via senza lasciare traccia e addirittura qua e là sono pure ‘farciti’ da coretti non tanto abilmente truccati in studio, beccatevi gli ‘oh oh oh’ di “Party time” e ditemi se non è così, sono sicuro che se non ci fossero stati quei ritocchi, avrei valutato diversamente il brano, che comunque rimane in un limbo a mo’ di ignavi e a poco serve il lodevole tentativo di passare il giusto messaggio di pace in “World is burning”, perché la canzone non decolla.

Anacronistici? Forse. Amanti delle vecchie sonorità? Sì. Con queste caratteristiche potrei bocciare “Cherry tales”, se non fosse per la volontà dei quattro rockers di tirarsi fuori dal fango della celebrazione pedissequa degli anni 80, con un songwriting perlomeno vario, ora, a mio parere, dovrebbero alzare l’asticella, concentrarsi di più sulle idee valide, che comunque ci sono e lavorarci sopra, sono fiducioso e li aspetto alla prossima puntata.

Ronnie Atkins – Trinity – recensione

13 Ottobre 2023 4 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers Music Srl

Non accenna a perdere colpi la vena prolifica di Ronnie Atkins, voce strorica dei Danesi Pretty Maids.
Da qualche anno alle prese con una personale battaglia con il cancro (Forza Ronnie! Siamo tutti con te!) il nostro si è infatti buttato in quella che si è rivelata una promettentissima carriera solista e così in due anni ha rilasciato due splendidi lavori (One Shot – 2021 e Make it Count – 2022) e idealmente chiude con queto 2023 una sua personale trilogia con questo Trinity!

Dalle liner notes sembra che questo sia il lavoro più duro e guitar oriented di questa triade ed effettivamente dando una prima ascoltata ai brani la chitarra è sempre ben presente e si sente che alcuni pezzi girano intorno a lei.
Questo probabilmente dovuto anche alla presenza nella band e in fase di songwriting di Chris Laney, attualmente chitarrista in forza ai Pretty Maids. Tra l’altro lo stesso Laney figura come produttore mentre l’album è stato mixato e masterizzato da Jacob Hansen.

Suono più duro quindi rispetto ai due suoi predecessori ma che comunque non dimentica la melodia vincente, e su questo Ronnie ci ha sempre ben viziati, infatti già l’introdutti Trinity altro non è che un brano antemico da cantare a squarciagola e su questo filone non possiamo non citare anche Sister Sinister e la bella The Unwanted.
Così, se il sound si indurisce ancora più con Ode to a Madman (figlio della vena metal degli ultimi Pretty Maids) si torna a urlare pugno al cielo sulla riuscitissima Paper Tiger. Non manca poi la faccia intimista dell’album che in realtà mostra due facce, una più dark e oscura in brani come Godless e Raining Fire bilanciate dall’intenso lento Soul Divine (pezzo bellissimo) e la conclusiva What If.
In ultimo da notare l’ “easy and happy” rock del brano più anomalo del lotto, If You Can Dream It, che pensando anche al travagliato percorso personale che sta attraversando il nostro Ronnie non può che farcelo amare ancora un po’ di più.

Terzo centro per l’ugola Danese che non molla il tiro. Questo forse l’album più “classificabile” essendo nel filone dell’hard rock melodico praticamente da inizio alle fine e per questo forse un po’ meno vario ma sicuramente ispirato come i suoi predecessori! Altro bel centro a firma Ronnie Atkins!