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Jim Peterik & World Stage – Roots & Shoots-Volume One – Recensione breve

23 Gennaio 2024 1 Commento Yuri Picasso

genere: Rock/Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Se mai un giovane della Gen Z (o non) dovesse chiedermi come approcciare alla musica di Jim Peterik, consiglierei di ripercorrerla seguendo la linea temporale. Quali altre parole per evidenziare l’importanza di un percorso denso di highlights, partendo dalle Ides Of March, amando i seminali Survivor, riscoprendosi coi Pride of Lions, coniugato alle sue innumerevoli collaborazioni.
Inutile soffermarsi in questa sede sugli apici raggiunti dall’artista dell’Illinois e sulla longevità artistica, Encomiabili, degni di una sincera Stima.
Nel qui presente ‘Roots & Shoots – Volume One’, quarto capitolo a nome Jim Peterik & World Stage viene accompagnato e affiancato dal fedele Mike Aquino e il solito stormo di ottimi musicisti e cantanti, amici e colleghi, chi più chi meno veterano della scena.
Meno Aor dei capitoli precedenti, ascoltiamo un insieme di tracce Rock asciutte, lontane da uso di distorsori o sintetizzatori invadenti. Soluzioni melodiche stagnanti e prevedibili.
Ritengo salvabili “Last Dream Home” (ft. Don Barnes) e “As I Am” (ft. Ashton Brooke Gill) pur richiamando nella strofa “Dream On” (Aerosmith).
Un disco che risente di tutti questi anni passati a scrivere anche, ancora, grandi canzoni.
Superfluo a dir poco.

Gotus – Gotus – Recensione

19 Gennaio 2024 7 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Prodotto dal tuttofare Del Vecchio, prende forma sotto l’egida Frontiers il progetto discografico dell’ex ascia degli svizzeri Krokus, Mandy Mayer. Fiancheggiato dagli ex compagni Pat Aeby e Tony Castell, il nostro eroe si avvale dell’ugola del gettonatissimo Ronnie Romero e delle tastiere di tale Alain Guy.

La musica che scaturisce dai solchi dell’album è un hard rock classico, non molto distante da quanto proposto dalla band madre Krokus. Così è per l’iniziale “Take me to the mountain” piuttosto insipida. Scorre via piacevole la più moderna “Beware of the fire”. Carino il canonicissimo lento “Love will find its way”, reso molto bene dai vocalizzi del singer cileno. “Undercover” non lascia memoria di sé e cede il passo al discreto ritornello di “Weekend warriors”. Il picco si tocca con lo slow “Children of the night”, azzeccato in tutto: linea vocale, interpretazione e solo di chitarra. Sorvolando sulla cover di “When the rain comes” dei Katmandu, blues noiosetto, si arriva al singolo “Without your love”, bel pezzo di AOR melodico e sornione al punto giusto. La slide di “What comes around goes around” ci proietta nelle assolate lande americane con un certo sapore di già sentito e lascia spazio ad un’altra cover “Reason to live” dei connazionali Gotthard. Scusate ma con la voce del compianto Steve Lee era un’altra cosa… E siamo già alla fine con “On the dawn of Tomorrow”, strizzando l’occhio ad un hard moderno già sentito centinaia di volte sui dischi di centinaia di bands…

Difficile trarre le conclusioni su questo lavoro senza ripetere considerazioni già fatte e rifatte per altre uscite simili nel corso degli ultimi anni… Qualche bel pezzo c’è, ma manca la convinzione, lo spirito di gruppo nel perseguire un determinato sound. Anzi, determinati intenti. E così, alla fine, il tutto appare come l’ennesimo progetto partorito a tavolino senza anima né cuore…

Grand – Second To None – Recensione

18 Gennaio 2024 4 Commenti Paolo Paganini

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Dopo il buon debutto di fine 2022 arriva a distanza di poco più di un anno il secondo lavoro delle band capitanata dal singer Mattias Olofsson. La proposta del gruppo non si discosta da quanto fatto sentire in precedenza, un facile (a volte fin troppo scontato) pop AOR influenzato da band quali Toto, Gaint e Foreigner. Il singolo di lancio nonché prima traccia Crash And Burn mi aveva fatto sperare di trovarmi di fronte ad un album da potenziale top ten di fine anno ma purtroppo le promesse sono state mantenute solo in parte. Alcuni brani come When We Were Young e Leave No Scar ci riportano al pop rock da classifica di fine anni 80 e insieme alla power ballad Out Of The Blue rappresentano il meglio dell’intero lavoro. A questo fanno contraltare canzoni di una banalità disarmante come il lento Lily o le iper stereotipate Rock Bottom, Sweet Talker e Achilles Hell. Da segnalare il duetto con la popolare cantante svedese Nina Söderquist sulle note della discreta Kryptonite. Come avevo già avuto modo di sottolineare in occasione della precedente recensione il vero punto debole della band è rappresentato a mio avviso dalla voce troppo ordinaria di Mattias il quale non riesce mai a valorizzare un lotto di composizioni tutto sommato buone.

Urge insomma un cambio di marcia, altrimenti i ragazzi si ritroveranno a navigare nel più completo anonimato fra le decine di band che affollano l’ormai iper inflazionato panorama hard rock scandinavo.

Magnum – Here Comes The Rain – Recensione

05 Gennaio 2024 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: STEAMHAMMER / SPV

Ecco in uscita Here Comes The Rain, purtroppo i problemi di salute che hanno colpito Tony Clarkin e costretto il gruppo ad annullare il tour di promozione dell’ album (QUI la notizia), i fans saranno dunque costretti ad ascoltare i Magnum in versione studio, almeno per un po’ di tempo.

Dopo un paio di ascolti dell’album ho pensato che avrei quasi voluto fare copia e incolla della recensione del precedente The Monster Roars, perché alla fine i concetti sono quelli. Chi siano i Magnum e quale sia il loro tracciato musicale è arcinoto ed è ovviamente improbabile aspettarsi cose diverse da musicisti di questa età e con un certo curriculum alle spalle, quindi preparatevi a gustarvi il “solito” disco dei Magnum, fatto con tanto mestiere, ma anche con un gusto ed una sapienza inarrivabile ai più.

Devo però ammettere che rispetto al disco precedente c’è un po’ più di varietà. Brani più orchestrali e melodici si alternano ad alcuni più tirati ed immediati, questa cosa fa sicuramente bene all’ascolto, tenendo alta l’attenzione. L’inizio è come sempre ottimo e Run Into The Shadows è proprio l’emblema dell’opener a la Magnum, un vero e proprio trademark che ti mette subito di buon umore. La title track è invece più cadenzata e forse più monocorde, mentre la seguente  Some Kind Of Treachery inizia lenta per poi esplodere nel magniloquente chorus Magnum style. La seguente After The Silence scorre via un po’ anonima, mentre con Blue Tango si rockeggia alla grande grazie alla sua struttura blueseggiante. The Day He Lied è pomposa nel suo incedere malinconico,  The Seventh Darkness ci mostra invece il lato folk della band, mentre Broken City è forse la canzone più piatta del disco. Chiudono le interessanti I Wanna Live con le sue tastiere progheggianti e l’articolata Borderline.

In sostanza un ottimo disco che con gli ascolti cresce e ci propone un gruppo ancora in splendida forma artistica, che probabilmente sforna uno dei migliori lavori della loro fase “matura”. Se arriva la pioggia noi apriamo l’ombrello e premiamo il tasto play, sarà comunque una bella giornata.

Purtroppo, appena due giorni dopo la pubblicazione di questa recensione, apprendiamo del decesso di Tony Clarkin, questo lavoro resterà dunque il suo epitaffio e tutto ciò rafforza ulteriormente quello che ho scritto del disco, che resterà l’ultima traccia del sound dei Magnum. Buon viaggio Tony e grazie di tutto.

Russell / Guns – Medusa -Recensione

05 Gennaio 2024 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Quando ho letto della collaborazione di Tracii Guns e Jack Russell, inutile nascondervi un pelo di scetticismo riguardo l’ennesimo tentativo di coniugare artisticamente due o più musicisti della golden era.
Spesso ci siamo ritrovati tra le mani lavori alla meglio apprezzabili, che nulla aggiungevano al bagaglio di star arrivate alla sessantina od oltre, se non confermare il proprio carisma e le proprie doti tecniche.
La musica è arte, arte è avere qualcosa da esprimere, di nuovo, di più; espressione sincera del proprio stato di ispirazione.
Il sospetto iniziale fa compagnia alle aspettative ordinarie durante l’ascolto di questo ‘Medusa’, dove assieme al duo troviamo Johnny Martin, Shane Fitzgibbon, e l’immancabile Alessandro Del Vecchio.
Eppure…l’attacco di “Next in Line” seguito da una strofa grintosa permette al classico headbanging di liberarsi in quello che sarà il mood del disco. Peccato per la linea del ritornello un poco fiacca seppur accompagnata da un piano Honky.
Di livello la graffiante “Tell Me Why” intramezzata da uno stacco dove la variazione di dinamica la fa da padrona per poi martellare nuovamente sul finale.
“Coming Down” alza il tasso di adrenalina spingendo ancora su di un uptempo diretto e dal chorus misurato.
Se in “Where I Belong” assaporiamo un appassionato lavoro alle 6 corde, in “For You” avremo il presentimento di essere coinvolti in una scazzottata all’interno di un vecchio saloon tra bottiglie di scotch, tavolini e sgabelli di legno fracassati, per mezzo di un riuscito accompagnamento pianistico.
“Give me the night” trae spunto, malamente, dallo stile dello squalo bianco meno ispirato, cosi come farà “Back Into Your Arms Again”.
Malinconica e introspettiva “Living a Lie”, spezza l’iter del lavoro rallentando i ritmi, con la performance di rilievo di un ritrovato e vocalmente in forma Jack Russell.
“In and Out of Love” e la title track confermano il fervore e l’estro che contraddistingue una di queste prime uscite del 2024.

Nel nostro immaginario ‘Medusa’ dovrebbe suonare come un mix degli L.A Guns meno sleazy / più bluesy, riprendendo le linee vocali dei Great White dei tempi D’oro aggiornando il tutto con una produzione (purtroppo) moderna e di conseguenza leggermente asettica.
E cosi, l’immenso mestiere degli artisti coinvolti accompagnati da un’inattesa dose di ispirazione ci dona un album assolutamente godibile , fruibile da chiunque possegga buon gusto musicale.
Piacevole Sorpresa.

Last In Time – Too Late – Recensione

04 Gennaio 2024 0 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Rockshots

“Last in Time è un progetto formato nel 2021 come band in studio, con l’obiettivo di registrare brani originali nel genere Progressive e Classic Rock/AOR. A capo del progetto c’è Massimo Marchetti, autore, produttore e arrangiatore dei brani del gruppo. Il progetto ha una formazione diversificata, in quanto è stato gestito come una All-star band, al fine di garantire che ogni canzone avesse un diverso tocco artistico. Infatti, la possibilità di avere più voci, tra cui una femminile, ha ampliato notevolmente la proposta compositiva delle canzoni, consentendo una gamma di generi e sfumature.” Questo è quello che viene dichiarato dalla band sulle note che accompagnano il promo e bisogna dire che è quello che mi ha incuriosito maggiormente, perché chi legge i miei articoli certamente saprà che adoro queste commistioni di genere, secondo me utili al rilancio di una scena che ultimamente soffre di una grigia ripetitività.

In effetti sia la presenza di vari interpreti vocali, sia le eclettiche capacità compositive della band, si notano fin dal primo ascolto proponendo un ampio ventaglio sonoro che spazia dall’ aor di stampo eighties, fino ad arrivare a riff al limite del metal, il tutto condito da ritmiche certamente non canoniche che indubbiamente guardano al prog metal degli anni 90. I pezzi si alternano vari tra loro senza seguire un concept predefinito ed, a mio orecchio, sembra che vengano fuori da epoche diverse, mostrando così caratteristiche derivanti dalle diverse  sfaccettature del mondo hard rock. Prendiamo per esempio l’opener The Way To Rock, che sembra scrutare ad orizzonti ottantiani con il suo coro anthemico, ma anche  la struttura estremamente dinamica di The Animal rimanda ai classici dei tempi che furono, mentre gli echi Whitesnake si odono in Too Late. In tutto ciò spiccano Believer In Love e Moonlight Dreamers, entrambi interpretati dalla ottima voce di Caterina Minguzzi, che fornisce un suond con un tocco più moderno ed attuale. Mi sento però di muovere una critica, alcuni pezzi sono troppo ridondanti di strumenti ed i brani risultano così un po’ troppo barocchi ed impastati. Insomma, se da un lato non avere una direzione musicale univoca è senza dubbio un pregio, può essere anche che il troppo variare, senza seguire un canovaccio sonoro univoco, possa rischiare di spiazzare l’ascoltatore meno smaliziato.

Riassumendo, mi sento di fare un plauso alla band italiana, perché al netto di qualche difettuccio, le idee ci sono ed il coraggio di osare va sicuramente premiato. Un lavoro che consiglio agli ascoltatori più open minded, che amano uscire dai soliti cliché del genere.

Ignescent – Fight In Me – Recensione

21 Dicembre 2023 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Alternative
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Ecco la mia ultima recensione di questo 2023 denso e intenso:  gli statunitensi Ignescent, con il loro alternative metal molto contemporaneo ed elettronico.

Partiamo alla grande con la coinvolgente e crudele “Monster You Made”, dalle atmosfere interessanti, martellanti e oscure. “Unholy” ci porta su nuovi orizzonti, con sonorità e ritmiche particolari, taglienti, possenti, che creano un pezzo assolutamente eccellente. Arriviamo alla title track “Fight In Me”, bella pestata, dalla dinamica perfetta, ottimo brano dall’inizio alla fine, dal ritornello suadente alle parti strumentali. Il momento del lento è sempre dietro l’angolo: “You’re Not Alone” ci scalda l’anima e il cuore con le sue vibrazioni dolci e intense, culminanti nel finale duro e pestato. “Under Attack” ci riporta nelle sonorità pazzesche e iper distorte dei brani precedenti, con una sessione ritmica presente e trainante, pesante al punto giusto e ben incastrata nella trama globale del pezzo, così come la successiva “Triple Threat”, molto più strumentale e oscura, ma ugualmente gradevole. Passa rapida e senza grandi picchi d’interessa “Shadows”, anch’essa ben identificabile nello stile Ignescent, così come la super potente “Carries Me”, dalla struttura quadrata e dalla dinamica crescente. Altro pseudo lento intenso sulle note di “The Hurt”, globalmente piacevole, non indimenticabile, ma in grado di suscitare le giuste emozioni, così come la successiva “Woman On Fire”, decisamente più movimentata, ma senza grandi slanci di originalità. Conclusa “Not Today”, interessante duetto con il cantante dei Disciple, arriviamo a tirare le somme di questo ultimo lavoro degli Ignescent: la sensazione è di trovarsi di fronte a un album spaccato in due, con una grande parte iniziale che via via si spegne, diventando poco originale nel finale; la verve e il sound sono però di grandissimo impatto, bisogna essere onesti, e c’è molta curiosità su come sarà la resa live di tracce così elaborate a livello di suoni.

The Struts – Pretty Vicious – Recensione

13 Dicembre 2023 5 Commenti Francesco Donato

genere: Rock
anno: 2023
etichetta: Universal

A tre anni di distanza dal precedente “Strange Days” i britannici The Struts tornano a farci battere il piedino con un nuovo album.
Di fatto questo “Pretty Viciuos” è il quarto lavoro in studio per la band di Luke Spiller e Adam Slack, un lavoro maturo e concepito con perizia che si colloca ai fasti dell’ottimo esordio “Everybody Wants”.
Se la ricerca di melodie ben congegnate volte a togliere la polvere da quel rock di matrice britannica che lentamente andava scomparendo è stata sempre una prerogativa dei The Struts, in questo ultimo lavoro questo attaccamento alle loro origini musicali si manifesta con incondizionata devozione, senza mai sembrare eccessivamente derivativo.

Si parte con la briosa “Too Good At Raising Hell”, pezzo divertente e ballabile che si presenta come un onesto bigliettino da visita della band.
“Pretty Vicious” è certamente una delle prove più riuscite dell’album, con il suo fascino quasi radiofonico e la sua semi incursione nel pop rock tipico di band come i primi Kent.
Ma è la terza traccia “I Won’t Run” che per quanto mi riguarda si conquista gran parte delle attenzioni di questo lavoro.
Insomma, bello carico nel refrain, divertente, melodico: Difficile che il pezzo non vi si inchiodi in testa già al secondo ascolto.
Altra prova superba è “Hands On Me”, pezzo che parte con il piglio delle più delicate pop ballad per poi crescere velocemente in intensità.
Per chi ama i The Struts più rocknrolleggianti arriva “Do What You Want” dalla chiara matrice rollingstoniana, mentre la successiva “Rockstar” affonda con entrambi i piedi tra punk e Slade.
“Remember The Name” è un altro pezzo sporco e vizioso che ci riporta indietro alle sessioni di Beggars Banquet degli Stones.
I toni si fanno lenti e caldi su “Bad Decisions” altra prova di classe del quartetto inglese.
Si parla ancora la lingua degli Stones su “Better Love” e sulla splendida “Gimme Some Blood”, pezzi comunque resi freschi dall’interpretazione vocale di Luke.
Chiude l’album la superba dolcezza di “Somebody Someday”.

Un album, che a parer mio,  si piazza con classe e di diritto tra le migliori uscite di quest’anno.

Bad Touch – Bittersweet Satisfaction – Recensione

12 Dicembre 2023 1 Commento Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: MARSHALL RECORDS

Ed anche quest’anno Dicembre mi porta la consueta sorpresa di fine anno destinata ad entrare nella mia personalissima Top Ten. Io sinceramente questi Bad Touch non li conoscevo per niente (eppure sono già al quinto album in studio più un ep) , ma già il fatto di essere inglesi depone per me a loro favore. Appena ascoltate due tracce del promo, ho deciso immediatamente di accaparrarmi la recensione. L’hard rock blueseggiante che i Bad Touch propongono è infatti molto nelle mie corde e dopo essermi occupato dei Vandemberg ed avendo ascoltato con piacere anche i Blindstone, mi è sembrato giusto proseguire con questo mood sonoro.

Devo dire che il titolo del disco è ampiamente profetico, il contrasto tra il dolce ed amaro è infatti una buona sintesi del loro sound. Radici ben piantate nei seventies e nello spirito hard blues, con rimandi ai Led Zeppelin, ma anche al serpente bianco più settantiano e viscerale con, perché no, rimandi anche al sound dei Quireboys d’annata. Quello che però stupisce di più è l’energia e la freschezza delle esecuzioni che ricorda una band moderna e molto in voga quale i Dirty Honey e sono sicuro che un loro live possa essere una grande esperienza.

Già l’opener Slip Away, martellante ed acida con echi di Spiritual Beggars segna la via, mentre la seguente This life è più canonica e simil Ac/Dc. Il contrasto continua col pop rock moderno e quasi teen oriented di Spend My Days e l’anthemica e ‘sculettante’ title track. Altri brani di assoluto livello sono: la classic rock Nothing Wrong With That, la pimpante e funkeggiante Taste This e la ballad Come Back Again.

Spero di avervi incuriosito e che vi venga dunque la voglia di assaggiare questo contrasto di sapori Dolce/Amaro che potrà intrattenervi con classe e leggerezza per lungo tempo senza mai annoiare. Per quanto mi riguarda, ho già scelto il mio autoregalo di Natale.

ZeroK – Killing Our Past -Recensione

11 Dicembre 2023 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Rock
anno: 2023
etichetta: Self Released

Gli ZeroK sono un gruppo bolognese formatosi nel 2018 quando la cantante Marika Vitelli, il chitarrista Giulio De Gaetano e il batterista Ivan Mazzoni si sono incontrati e hanno deciso di scrivere dei pezzi loro , dopo aver trascorso un fisiologico periodo ad eseguire covers, così sono arrivati ad assemblare ben quattordici canzoni che poi sono quelle finite su questo ‘Killing our past’; il gruppo è stato poi completato dal tastierista Danilo Ribichini e dal bassista Claudio Prandin, anche se l’album è stato registrato dai tre componenti iniziali, laddove Giulio si è occupato, oltre che delle chitarre, anche di basso e tastiere.

Come dice la stessa band, i testi sono ispirati da scrittori contemporanei tipo Philip Roth e Don DeLillo, segnatamente quest’ultimo ha dato anche il là per il nome del gruppo stesso, ‘ZeroK’ è infatti il titolo del romanzo di DeLillo, pubblicato nel 2016 e che ho avuto la fortuna di leggere, dato il tema molto interessante della criogenesi e della ipotetica conservazione della coscienza dopo l’applicazione di questa pseudotecnica, ma non sto qui a tediarvi con tutta la trama del romanzo che invece vi invito a leggere, anche perché qui dobbiamo parlare di musica e, vi avviso subito in ‘Killing our past’ non troverete una stilla di quella che viene trattata principalmente su questa pagina, per cui chi vive solo di aor, di hard melodico o chi pensa che il mondo sia finito il 31 Dicembre 1989, può tranquillamente saltare questa recensione a piè pari, perché gli ZeroK trattano una materia molto più vicina a certo rock novantiano che sviscera la materia melodica sotto un aspetto diverso, con quella malinconia di fondo che è ispirata da argomenti più cupi, ma dimenticatevi il temuto (non da me) Seattle sound, piuttosto il riferimento è più centrato se si parla del cosiddetto rock italiano, quello di Timoria, Karma, primi Negrita e non per nulla il mio pezzo preferito è la conclusiva “Ioxme” o se si va all’estero, mi vengono in mente Collective Soul e Live.

Fino al terzo pezzo non si assiste a particolari scossoni in un sound piuttosto lineare e omogeneo, nel quale anche la voce di Marika, una sorta di versione femminile di Edda dei Ritmo Tribale, tanto per rimanere in tema, resta su un profilo basso, ma dalla semiacustica “Road to nowhere” il tiro si alza e la varietà si fa interessante, certo, niente che faccia gridare al miracolo, ma ricordatevi che la band si autoproduce e apparentemente non ha profili social, per cui bisogna tener conto della scelta di tenere questo profilo basso, poi che abbiano ragione loro o meno, non sta a me dirlo, io al limite posso consigliare a loro di aprire almeno una pagine di un qualsiasi social, se voglio no raggiungere un pubblico più ampio.

Dal punto di vista musicale i ragazzi non si abbandonano a virtuosismi di sorta, anche perché non ce n’è bisogno, ma è degna di nota la prova di Giulio, poliedrico polistrumentista che usa le chitarre, sia elettriche che acustiche, in modo abbastanza fantasioso, dal punto di vista della produzione siamo a livelli molto scarni e purtroppo il suono della chitarra elettrica è decisamente amatoriale, ma ricordiamoci sempre del discorso di cui sopra e del fatto che questo è il primo album e che quindi gli ZeroK hanno tutto il tempo per rimediare a questi inconvenienti, cosa che si potrà fare, eventualmente, con l’appoggio di un produttore e di un’etichetta, perché le idee ci sono.