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Revolution Saints – Revolution Saints – recensione

24 Febbraio 2015 18 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Rock
anno: 2015
etichetta: Frontiers Music

Journey, Bad English, Ozzy Osbourne, Whitesnake, Dio, Night Ranger e Damn Yankees! No, non sto elencando alcuni dei cardini su cui ruota la storia dell’hard rock e del melodic rock, ma semplicemente ho snocciolato alcuni Assi che i Revolution Saints si trovano in mano in questa loro partita sul tavolo da poker dei generi sopra citati. Impressionante vero?
Progetto nato per mano del presidente Serafino Perugino della Frontiers Music e che vede coinvolti tre pesi massimi del genere come Deen Castronovo (voce principale e batteria – Journey, Bad English, Ozzy Osbourne), Jack Blades (voce e basso – Night Ranger, Damn Yankees) e Doug Aldrich (chitarre – Whitesnake, Dio, Burning Rain). Se a questo aggiungiamo come quarto membro “nascosto” il nostro Alessandro Del Vecchio, qui in veste di songwriter, produttore nonchè tastierista, voce e cori allora si capisce come le aspettative di un album come questo debutto dei Revolution Saints siano in grado di far fremere il cuore di ben più di un appassionato!
Ultima chicca è finalmente trovare Deen Castronovo, conosciuto soprattutto per essere il batterista dei Journey, dare finalmente il suo imprint vocale ad un’opera come questa… ed era ora direi, trent’anni di carriera e finalmente la sua splendida voce trova ora un pulpito da cui esplodere verso la folla.

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Black Star Riders – The Killer Instinct – Recensione

21 Febbraio 2015 28 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Hard Rock
anno: 2015
etichetta: Nuclear Blast

I Black Star Riders di Ricky Warwick (The Almighty, Circus Diablo) e del leggendario chitarrista Scott Gorham (Thin Lizzy, 21 Guns) sono ormai prossimi alla pubblicazione (fissata per il 23 febbraio via Nuclear Blast) di The Killer Instinct, il loro secondo album in studio nell’arco dei tre anni trascorsi dalla loro fondazione.

Con Phil Lynott e i Thin Lizzy sempre incastonati nei cuori, i cinque musicisti hanno lavorato assieme a Nick Raskulinecz (produttore di fama mondiale al lavoro per artisti come Death Angel, Mastodon, Foo Fighters, Alice In Chains, Rush, Velvet Revolver, Duff McKagan e molti altri) a un nuovo disco di puro hard rock, forte di quell’originale e stupendo intreccio di chitarre soliste che aveva reso celebre lo storico ensemble irlandese da cui la band ha avuto origine. Qui però, diversamente dal predecessore All Hell Breaks Loose (2013), i Black Star Riders riescono a discostarsi maggiormente dalla loro influenza primaria, producendo un disco un po’ più originale e forte di qualche spunto più moderno, insomma, meno derivativo e con lo spirito di gruppo maggiormente in rilievo. L’eredità lasciata dal compianto Lynott è dai ragazzi sempre raccolta, questo è certo, e Ricky Warwick appare sempre perfetto nel vestire i pesanti panni del Rocker, ma la sua prova oggi non è più soltanto una imitazione, ma bensì una riesecuzione ispirata, convincente e qualitativamente ineccepibile degli insegnamenti del Maestro. Tanto che il suo sodalizio con Gorham brilla di luce propria e raggiante, mostrandosi ancora più rafforzato che nel debutto, merito anche dell’intenso periodo passato dai due assieme a meglio conoscersi in tour. Damon Johnson dal canto suo è sempre perfetto nel supporto del suo compagno di corde, con il quale duetta in parti chitarristiche a cinque e più stelle, mentre il neo-ingresso Robbie Crane al basso regala un ottimo groove al platter, combinandosi alla perfezione con Jimmy DeGrasso alle pelli.

Le canzoni, tutte e dieci dotate di un songwriting sopra le righe, si intrecciano tra di loro dando alla registrazione una bella continuità di suoni, senza mai più di tanto ripetersi nelle strutture. E se il già singolo The Killer Instinct, assieme a Bullet Blues, vuole dare in apertura un senso di linearità con il precedente capitolo, ci pensa Finest Hour a cambiare definitivamente passo all’opera, con un sound classico, ma allo stesso tempo moderno alla Nickelback, che è davvero la fine del mondo, e che lancia immediatamente questo brano ai vertici di questa tracklist. Parimenti, Soldierstown è una stupenda cavalcata melodica in puro stile Lizzy, che lascia ampio spazio alle chitarre e al carisma vocale del singer irlandese, con Charlie I Gotta Go che si mette in luce invece grazie alla energia sprigionata dal suo refrain, corale, da stadio.

In tanti, lo ricordo, si erano chiesti perchè i BSR non avessero composto una ballad nel loro debutto. Beh, forse Gorham e soci qualche commento qua e là devono averlo letto, ed ecco presentata Blindsided, la mid-tempo che tutti noi sognavamo, capace di abbinare emozioni e melodie in un gioco di suoni e feeling degno solo dei grandi. Da brividi. Avanti poi con la solida Through The Motions, a cui segue una Sex, Guns & Gasoline in perfetto stile party, alcolica e divertentissima, marmorea nel suo avanzare roccioso, ma privo di particolari accelerate. Infine, nuova potenziale hit di questo album è Turn In Your Arms, la canzone capace di abbinare al meglio riffing, vocalità, e melodie, con assoli tremendi e tanto, tantissimo stile e groove, da vendere. Chiude l’opera You Little Liar, un altro componimento meritevole della stellina di ‘migliore canzone’ dell’album, energico e brillante grazie ad un sound ancora spettacolare e un refrain dall’appeal unico. Sensazionale.

IN CONCLUSIONE

I Black Star Riders si sono coraggiosamente tolti di dosso la nomea di ”nuovi Thin Lizzy” e hanno pubblicato un nuovo album sì debitore del genio di Phil Lynott, ma allo stesso tempo forte di uno spirito di gruppo inedito, che non è mai stato così forte in precedenza. Ne giovano il songwriting e la prova di insieme dei musicisti, tutti quanti sugli scudi e fondamentali per l’ottima resa di un platter davvero riuscito ed emozionante, da acquistare sicuramente per le vostre collezioni.

Questa band non è più una meteora, questo deve essere ormai chiaro a tutti, ma un solido gruppo a cui guardare per il proseguo futuro dell’hard rock-come-si-deve. Gorham e soci hanno fondato una realtà hard rock solida e di roseo divenire, l’unica in grado di proseguire con coerenza quel cammino musicale che si era troppo presto interrotto, nel silenzio, una trentina di anni fa. Lasciatemelo dire: tanto di cappello!

Thunder – Wonder Days – Recensione

20 Febbraio 2015 12 Commenti Iacopo Mezzano

genere:
anno: 2015
etichetta: EarMusic

 

Tra i più meritevoli di un posto di prestigio nell’Olimpo delle grandi band inglesi di genere hard rock, ma molto spesso sottostimati, ci sono loro, i Thunder, che tornano sulle scene con il primo album in studio da sei anni a questa parte, Wonder Days, già uscito nei negozi di tutto il mondo a metà febbraio via Ear Music.

Registrato presso i leggendari Rockfield Studios di Monmouth, con il chitarrista Luke Morley nel ruolo di produttore, il disco gode di un’ottima farcitura di suoni, merito anche del mix atomico, curato dal celebre tecnico del suono Mike Fraser (Aerosmith, AC/DC e Metallica, oltre che Thunder stessi agli esordi). Nasce così un nuovo platter immenso, legato alla tradizione, che ci ricorda i meriti di una band tecnicamente irraggiungibile ai più, e forte delle più solide basi sonore, che si rifanno all’hard rock settantiano di Led Zeppelin, Bad Company, The Who, Deep Purple. Con una capacità di songwriting assoluta e inimitabile, i cinque vecchietti inglesi compongono un album di certo successo, merito soprattutto della sua potente miscela di sonorità rock, blues e soul, che porta alla creazione di basi hard rock dalle melodie indimenticabili, figlie del più grande power rock di annata. In esse, brilla la stella di Danny Bowes, un cantante capace di salire in cattedra ad ogni occasione, toccando sempre il vertice sia sulle canzoni più sostenute, sia su quelle più leggere, le quali lasciano maggiore spazio alla espressività innata della sua ugola d’oro. Magico e fondamentale poi anche il già citato Luke Morley, vero alfiere del disco coi suoi riff potenti, d’annata, e con le delicate trame acustiche che regalano un sapore dannatamente vintage all’opera. Infine, purtroppo assente a causa di un ricovero per un cancro alle tonsille il chitarrista ritmico Ben Matthews (sostituito da Morley anche alle tastiere), con i bravissimi Garry “Harry” James alla batteria e Chris Childs al basso, che completano la formazione dando vita alla solita precisa e suggestiva sezione ritmica tutta groove ed energia.

Primo singolo dell’album, title track e puro manifesto compositivo dell’opera, Wonder Days appare come il brano perfetto per dare via a un viaggio emozionale sulle ali della nostalgia, con un sound in puro stile Led Zeppelin che apre alla melodia di quel magnifico, sognante ed arioso ritornello che ormai tutti abbiamo già da tempo imparato ad amare. Preziosa anche la ritmata The Thing I Want, in puro stile british con il suo ritmato ritornello a due voci, e assoluta per potere emozionale la prima pura ballad del disco, a titolo The Rain: un pezzo semi-acustico che lascia spazio a un testo splendidamente interpretato da Bowes, tra succulenti arpeggi e preziosi rimandi al passato del gruppo. Molto convincenti poi anche Black Water, che strizza l’occhio al pop rock, lasciandosi influenzare (nonostante la sua ossatura hard rock) dalla musica contemporanea, e The Prophet, che lascia tutti i fans sbigottiti di fronte a uno dei riffing più rocciosi, vari e riusciti dell’intero disco. Di un altro pianeta è, al giro di boa, Resurrection Day: una mid-tempo ariosa e dal mood positivo, scritta per diradare anche le nubi più scure dei nostri cieli interiori, che finirà per essere sicuramente citata tra le preferite dei fans.

Si riparte ancora, all’apice dell’ipotetica side B del disco, con la settantiana Chasing Shadows, canzone tutta chitarra ed energia, in netto contrasto con la ballad Broken, nuova hit assoluta di questo album e lento melodico a cinque e più stelle. Il suo feeling unico trasforma anche il cuore più duro in un deposito di calde emozioni, provare per credere! When The Music Played, poi, è un’altra canzone degna della palma di top di questo album, grazie alla sua perfetta combinazione tra sound roccioso e melodia, che porta a un brano da classifica.. se fossimo nel 1983, ovviamente. A chiudere questo stupendo tassello della discografia dei Thunder ci pensano infine il bel motivo Serpentine, e una I Love The Weekend casinara, in puro stile party rock, trascinante come poche, e perfetta per chiudere il platter con una bella vena musicale a cavallo, ancora, tra anni sessanta e settanta.

IN CONCLUSIONE

Al di là di ogni più rosea aspettativa, Wonder Days è il primo, serio, candidato al titolo di album classic rock del 2015. Se da un alto eravamo infatti certi che i Thunder sarebbero tornati sulle scene al massimo delle loro forze tecniche e compositive, mai avremmo potuto pensare che lo stato di grazia di questa storica band sarebbe stato tale anche a venticinque e più anni dalla propria fondazione. Invece, Bowes, Morley e soci sono stati in grado di tirare fuori dal cilindro le giuste energie mentali, e la carta vincente sotto forma di undici tracce da urlo, pubblicando quello che a tutti gli effetti  è probabilmente il loro migliore album di sempre, esclusa ovviamente l’inarrivabile doppietta (Back Street Symphony e Laughing on Judgement Day) che sancì gli esordi del combo rispettivamente nel 1990 e nel 1992.

Eh si, è incredibile davvero quello che sono riusciti a fare questi inglesi: Wonder Days è un disco da brividi!

 

 

 

China Sky – China Sky II – recensione

12 Febbraio 2015 8 Commenti Elena Aurë

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2015
etichetta: Escape Music

Tornare a calcare le scene del mercato discografico internazionale a distanza di 25 anni dal loro ufficiale scioglimento e a 27 dall’ ultimo, nonchè unico e a dir poco meraviglioso album, non è cosa facile. Ma gli stoici melodic hard­rockers statunitensi China Sky, con grande impegno e forti di un background artistico di notevole livello, ci riprovano, e, dopo lunga attesa, consegnano nelle mani dell’etichetta Escape Music il loro nuovissimo lavoro, in uscita il prossimo e ormai imminente 20 febbraio.
Il coraggio di provare ad eguagliare i fasti del passato e di un cd che, a parere di chi scrive, rasenta la perfezione e rappresenta un vero e proprio manifesto melodico adulto per gli appassionati del genere, è certamente encomiabile e si traduce in un secondo capitolo discografico che tenta di coniugare la tradizione classica a più moderni spunti creativi e compositivi da parte della band, che, peraltro, si presenta oggi con una rinnovata formazione: gli storici Ron Perry (voce) e Richard Smith (basso), vengono infatti raggiunti dalle new entries Steve Wheeler alla chitarra (in sostituzione del grandissimo Bobby Ingram), Tim Mc Gowan alle tastiere e Bruce Camp alla batteria.
Il songwriting e la produzione appaiono leggermente sotto tono rispetto a ciò cui forse eravamo abituati ma le prove artistiche del lead singer (la cui tonalità vocale appare ancora ottima se pur meno esplosiva rispetto ad un tempo) e dei restanti musicisti coinvolti, rendono comunque abbastanza convincente il giudizio complessivo del disco in esame.

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Red Zone Rider – Red Zone Rider – recensione

12 Febbraio 2015 6 Commenti Nico D'andrea

genere: Hard Rock
anno: 2014
etichetta: Magna Carta

Con la presentazione del progetto Red Zone Rider era lecito chiedersi cosa ci avrebbe riservato quest’insolita alleanza tra Kelly Keeling (ex MSG e Baton Rouge) e Vinnie Moore uno dei primi talentosi guitar heroes scritturati dalla Shrapnel Records di Mike Varney, (etichetta discografica salita agli onori della cronaca negli anni 80 per aver scoperto numerosi eroi della sei corde tra i quali Yngwee Malmsteen e Ritchie Kotzen).
Anche la stupenda cover raffigurante un motociclista lanciato a grande velocità sulla superficie di un pianeta poteva essere l’indizio che svelava l’arrivo di un nuovo super gruppo di Heavy Metal contemporaneo.
Beh…non voglio girarci troppo intorno ma rimarrete anche voi sorpresi nello scoprire che questo disco sarà invece assolutamente imperdibile per i fans di Black Country Communion e (soprattutto) degli Heaven and Earth di Stuart Smith. Un sound che pesca a piene mani da Led Zeppelin e Deep Purple era Mark 3,grazie anche alla produzione analogica proprio di Mike Varney.
Veramente splendido a tal proposito il suono vintage della batteria di Scott Coogan (ex Lita Ford e Ace Frehley), terzo onorevole membro del sodalizio.

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Sweet & Lynch – Only To Rise – recensione

03 Febbraio 2015 13 Commenti Alessio Minoia

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2015
etichetta: Frontiers

 

La strana coppia. Ultimamente le collaborazioni si sprecano tra i decani hard rocker a stelle e strisce tra le quali, regolarmente nell’angolo rosso, spunta il nome di George Lynch, chitarrista extraordinaire (Dokken, Lynch Mob) sempre più a suo agio in queste operazioni di frugalità discografica.
Nell’angolo blu invece il baldanzoso Michael Sweet (Stryper), che ritorna a farsi sentire a distanza di un anno dall’egregio album solista e, sotto l’egida della sempre lungimirante Frontiers di Serafino Perugino, contribuisce per questo esordio discografico non solamente a livello di songrwriting ma ricoprendo in prima persona il ruolo di produttore.
James Lomenzo (Megadeth, Black Label Society, White Lion) e Brian Tichy (Whitesnake, Foreigner, Billy Idol) completano questa line-up stellare che, difficilmente in passato, sarebbe stato possibile ritrovare in un’epoca zeppa di personalismi e tentativi di eldorado.

Only To Rise consta di 13 tracce di succoso e bollente Hard Rock di chiara matrice statunitense che, inevitabilmente, raccoglie il testimone dall’ultima produzione Stryper ricalcandone le orme metalliche rispolverando l’appeal Aor-oriented e ampliandone ulteriormente il raggio d’azione grazie all’apporto di un Lynch sempre più calato nella contemporaneità dei suoni e dello skill tecnico.
E’ un disco che accontenta i fan delle rispettive formazioni? Yes my friends! Certo si è corso il rischio di scontentare i supporter più sfegatati e intransigenti ma, volenti o nolenti, le stimmate di due carriere trentennali sono innegabili e riconoscibili ad ogni passaggio inoltre le dinamiche che consentono alla pulita e fulgida voce di Sweet di incastrarsi alla perfezione con il funambolismo tellurico di Lynch consolidano il giudizio di un lavoro innegabilmente riuscito. L’album è compatto, coeso, senza cali di tono anche se quella copertina grida vendetta.
Il video teaser September ha svelato compiutamente un canovaccio che ritroviamo senza particolari sconvolgimenti per tutta la durata del full lenght: ottime armonie vocali, un piede sull’accelleratore della ritmica e sul punch delle singole song e un pattern chitarristico stratificato, metallico ed estremamente tecnico in linea con quanto mostrato da Lynch nel progetto KXM del 2014.
Il resto fluttua tra le reminescenze Lynch Mob all’ennesima potenza di Like a Dying Rose e Rescue Me (due killer track) e l’anthemica power ballad Love Stays (Sweet superlativo), tra le metalliche Time Will Tell e Recover trascinate da una ritmica dinamica e riservando un capitolo a parte per Me Without You, meraviglioso e struggente affresco senza tempo sospeso tra melodia e un chitarristismo incisivo e delicato.

IN CONCLUSIONE

Meglio degli ultimi Stryper, meglio di quanto realizzato in due decadi dai Lynch Mob, questa liaison funziona e cresce con il passare degli ascolti: è rock, è melodico, è ben suonato, è ben prodotto. Buy Or Die!

 

American Mafia – Rock N’Roll Hit Machine – recensione

31 Gennaio 2015 0 Commenti Nico D'andrea

genere: Hard Rock
anno: 2014
etichetta: Grooveyard Records

Non si è parlato molto di questi American Mafia, complice forse lo stravagante nome più adatto ad una gang Rap che a questo vero e proprio sodalizio Hard Rock Blues.
Il nome od il progetto (come sarebbe più giusto definirlo) nasce dalle tragiche circostanze determinate dall’improvvisa morte per suicidio del vocalist David Knight, proprio durante le registrazioni del disco.
La band guidata dai veterani Freddy Villano (basso) e Tom Jude (chitarra) è già attiva da anni nell’underground newyorkese come Holy Water e con lo stesso monicker entra in studio per incidere dopo anni il proprio primo vero lavoro.
La shoccante dipartita dell’amico Knight sembra compromettere tutto ma Villano e Jude decidono di ripartire da un nuovo nome (American Mafia) e di completare la lavorazione del disco reclutando ben cinque diversi vocalist, il più conosciuto dei quali è sicuramente l’ex Riot e Masterplan Mike Di Meo.

continua

Care Of Night – Connected – Recensione

27 Gennaio 2015 28 Commenti Lorenzo Pietra

genere: AOR
anno: 2015
etichetta: AOR Heaven

Si chiamano Care Of Night e arrivano dalla “solita” Svezia; ecco presentato il nuovo progetto nato dagli ex Seven Tears che resterà nel cuore dei melodic rockers di tutto il mondo. Infatti il loro album di debutto Connected, preceduto solo da un EP del 2013, ha tutto il necessario per essere già considerato un must di questo 2015. L’album è prodotto e mixato dai fratelli Erik e Anders Wigelius (del gruppo Wigelius) e risente molto del sound AoR che i due amano alla follia. In Connected troviamo infatti un concentrato di melodic rock, AoR con tante tastiere ottantiane, melodie e un suono volutamente vecchio stile.

Già dall’opener Cassandra capiamo la direzione dell’album; dalle tastiere in primo piano alle chitarre dolci fino alla melodia in puro stile anni 80. Pezzi come la frizzante Heart Belongs con un refrain che rimane in testa già dal primo ascolto, la superba Those Words con tastiere onnipresenti e la stupenda ballad Dividing Lines con l’accoppiata pianoforte-voce e il sassofono d’intermezzo che fanno venire i brividi. Il disco rimane sempre su altissimi livelli con la successiva Say A Prayer dove ancora le tastiere fanno capolino, l’ottima Contact con una sezione ritmica spaziale, Please Remember, una perla di melodic rock che più classico non si può, col suo intro di chitarra che sembra parlare. Unify è l’emblema del sound ottantiano che si spiegava all’inizio; tastiere e chitarre che si fondono ed esplodono in un ritornello di grande effetto. Give Me Strenght sembra uscita direttamente dal primo album degli H.e.a.t. con melodie e refrain da manuale mentre la conclusiva Say You Will è un brano totalmente acustico-voce dove l’ugola di Schonberg riesce ad emozionare completando un’opera da non perdere .

IN CONCLUSIONE:

Care Of Night, un nome che troveremo indubbiamente tra le migliori uscite del 2015 e che speriamo continuino su questa strada. AoR e Melodic Rock di chiaro stampo ottantiano, ben suonati e provenienti dalla profilica Svezia….ormai una garanzia.

Unisonic – Light of Dawn – Recensione

26 Gennaio 2015 33 Commenti Nico D'andrea

genere: Melodic Metal
anno: 2014
etichetta: Ear Music

 

Arrivo con colpevole ritardo su questo secondo lavoro degli Unisonic, compagnia multinazionale con sede in Germania, fondata dai soci Michael Kiske, Kai Hansen , Dennis Ward e Mandy Meyer.
Le referenze che simili azionisti portano in dote sono già di per se sufficienti per costituire un capitale sociale di prim’ordine.
Light Of Dawn farà infatti la gioia dei numerosi fan dei vecchi Helloween grazie alla presenza di un’istituzione del Power Metal europeo come Kai Hansen.
Attenzione però a non relegare gli Unisonic ad una nuova e più aggiornata incarnazione dello storico combo teutonico.
L’ala più melodica guidata da Mandy Meyer (ex Cobra ed Asia) e Dennis Ward, già con Kiske negli splendidi Place Vendome ed autore della maggior parte dei brani, riposiziona il sound della band sul versante di un freschissimo Melodic Metal di pregevole fattura.

Entusiasmante l’alternarsi dei furiosi assoli di Hansen con il raffinato riffing di Meyer ed assolutamente di rilievo il forsennato drumming di Kosta Zafiriou (Pink Cream 69) ma l’uomo in più qui è l’immortale Michael Kiske.
Il vocalist di Amburgo si rende protagonista di una prestazione stupefacente.
Egli si muove con incredibile disinvoltura tra le varie tonalità della sua voce fornendo un’interpretazione profonda e coinvolgente.
Personalmente non sono un amante dei brani “up tempo” ma è difficile non farsi trascinare dalla doppia cassa di Zafiriou nel primo singolo For The Kingdom e gli headbangers più accaniti troveranno pane per i loro denti aguzzi nell’opener Your Time Has Come e nella più prevedibile Find Shelter. continua

Jorn Lande & Trond Holter present Dracula – Swing of Death – recensione

20 Gennaio 2015 31 Commenti Denis Abello

genere: Hard Rock, Melodic Metal
anno: 2015
etichetta: Frontiers Music

Non era facile prevedere il risultato a cui questo Jorn Lande & Trond Holter present Dracula poteva ambire. Una Rock Opera completamente incentrata sulla vita di Vlad III detto l’Impalatore e conosciuto nell’immaginario collettivo come Conte Dracula, personaggio discusso tra leggenda e realtà e mediaticamente inflazionato con risultati non sempre eccelsi, meritava per la sua entrata nel mondo delle 7 note un abito importante in grado di rendere onore all’epica leggenda del Signore della Notte per eccellenza!
Jorn Lande & Trond Holter, senza mezzi termini, riescono nell’impresa di donare attraverso i 10 pezzi di questo Swing of Death forma e sentimento al loro Dracula (nel bene e nel male del personaggio in questione) siglando una Rock Opera in grado di stuzzicare l’immaginazione dell’ascoltatore senza per questo risultare pesante e noiosa ma riuscendo al contrario a miscelare l’epica, l’inquietudine ed il tormento che il tema richiedeva con un suono melodico ed immediato in grado di far breccia da subito nell’immaginario dell’ascoltatore.
Così sotto le splendide voci di Jorn Lande e della sua controparte femminile, vera scoperta di quest’album, Lena Fløitmoen Børresen e delle note di chitarra abilmente disegnate da Trond Holter prende scena un palcoscenico di emozioni in grado di riportarci grazie alla musica nel regno del Principe delle Tenebre.

continua