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26 Marzo 2015 6 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Soft Rock / Country
anno: 2015
etichetta: Little Dume Recordings
L’ex leader di Pages e Mr.Mister, ovvero il celeberrimo cantante, bassista, compositore Richard Page, è tornato a inizio anno con il quarto disco solista della sua sempre notabile carriera. Intitolato Goin’ South, l’album è stato interamente curato dal musicista (con il solo ausilio di Frank Rosato per lo sviluppo delle parti di batteria) nei suoi studio casalinghi, i Little Dume Studios di Malibu, e distribuito dalla sua etichetta discografica, la Little Dume Recordings.
Legato alla terra, alla Natura, ai venti e alle stagioni tanto quanto alle radici rock più tradizionali che fanno da sempre parte del bagaglio culturale dell’artista, il platter segue la scia compositiva dei tre precedenti, suonando come un disco soft rock ricco però di influenze country, southern e folk ancora più rimarcate. Strascico, queste (lo dice Page stesso in recenti interviste), del recente periodo trascorso a Nashville, che ha riportato in vita il suo amore per le sonorità musicali tipicamente statunitensi.
Rilassante, talvolta intimo, sbalorditivo per la quantità di emozioni che riesce a trasmettere con le sue melodie, i suoi testi e con il cantato sempreverde e carismatico del suo autore, l’album lascia ampio spazio alla chitarra acustica del leader, ma non disedegna qualche bella cavalcata elettrica di Tim Pierce (in evidenza soprattutto negli assoli), che da maggiore impatto al drumming immenso e precisissimo del mostro sacro Gregg Bissonette, perfettamente a suo agio anche in questa veste più levigata. Importante anche il contributo di Doug Livingston alla chitarra pedal steel (immancabile nelle produzioni country), che assieme ai vari ospiti qui al lavoro favorisce la creazione delle belle atmosfere di cui gode questa opera.
E’ il southern classico di Southern Wind ad aprire la tracklist, irrorando immediatamente l’atmosfera di calore, polvere, sudore fresco di balli spontanei sotto un cielo stellato. Segue Turn Out the Light, un buon componimento in puro stile neo-country, da radio US, ma soprattutto arriva il turno di Diamonds, ballad capolavoro, solitaria, silenziosa, commovente, con Richard sugli scudi. E’ la hit del disco. Non delude neppure Two Roads and Four Headlights, motivo dai battiti e dagli arrangiamenti più pop, che apre a un refrain tra country moderno e rock melodico, mentre Me and My Guitar è un piccolo inno allo spirito di ogni musicista che decide di imbracciare una chitarra, e cantare con essa le sue canzoni.
Si riparte poi con il ritmo più frenetico e da festa, più estivo e solare, di Everybody’s Hometown, dedicato alla gente e a tutto il mondo. Another Day Gone By è un nuovo lento nostalgico, dal grande testo, che infiamma i cuori degli ascoltatori, mentre Don’t Know Why I Miss You una piacevole canzonetta country, non rivoluzionaria, ma che si fa sentire facilmente e rimane presto impressa in mente. Chiudono il platter Heaven Is Right Now, nuova ballata voce-chitarra acustica, cantata all’amata di fronte a un sole che nasce tra le colline, e This Side of the Soil, forse unica traccia veramente maschia del platter, che ci schiaffa in faccia un riff a Lynyrd Skynyrd, su cui il bravo Page dimostra di sapersi muovere con assoluta disinvoltura.
IN CONCLUSIONE
Se siete (musicalmente parlando) di ampie vedute, e non avete perciò paura di sentire l’ex leader dei Mr.Mister alle prese con motivi bel più country che melodic rock, beh, non resterete certamente delusi da Goin’ South. Un altro tassello importante, e differente, nella carriera di un musicista a tutto tondo come il grandissimo Richard Page.
23 Marzo 2015 4 Commenti Alessio Minoia
genere: Hard Rock
anno: 2015
etichetta: Spv/Steamhammer
Non ci posso proprio fare niente, amo visceralmente questa incarnazione della band guidata dall’inossidabile Phil Mogg fin dal lontano 1969. Trovo che la sostituzione della Leggenda Schenker abbia donato linfa nuova alla carriera del five piece britannico relegando a letteratura i continui scazzi di personalità, repentini cambi di lineup e una statura artistica troppo spesso a corrente alternata sin dai primi anni ottanta.
Dal 2004, anno di pubblicazione del comeback You Are Here il monicker UFO ha regolarmente sfornato album qualitativamente rilevanti (The Visitor e Seven Deadly su tutti) MAI sotto il livello di guardia mantenendo inalterato il loro trademark a base di hard rock a massicce tinte blues non disdegnando piccole incursioni in territori fino a qualche anno fa inesplorati. La pastosa voce di Mr.Mogg è ancora solida, comprensibilmente meno potente di qualche decennio fa ma ancora capace di incantare grazie ad un timbro inconfondibile a cui si unisce un carisma scenico immutato.
A Conspiracy Of Stars è un tassello ulteriore di tutto rispetto degnamente supportato da un songwriting (sempre più ad appannaggio del misurato Vinnie Moore) pulito, senza sbavature, ispirato e vitale ma soprattutto lucidamente puntellato di nuove perle e di una dilagante sensazione di rito immutabile non per questo privo di fascino.
23 Marzo 2015 6 Commenti Nico D'andrea
genere: Blues Rock
anno: 2014
etichetta: Provogue Records
Comprendere il motivo per il quale la musica di Joe Bonamassa ancora oggi non raccolga ampi consensi in ambito Hard Rock non è poi così difficile.
Il nome del cantante-chitarrista newyorkese è spesso rimasto colpevolmente confinato all’interno del circuito blues, generando una sorta di prevenzione da parte di chi ricerca sonorità più moderne e “Wattate”.
Praticamente la stessa audience che (in totale buona fede) ignora il nuovo corso inaugurato da Joe nel lontano 2006, all’inizio della proficua collaborazione con il noto producer Kevin Shirley.
Dopo il rodaggio in “You and Me” la coppia estrae con “Sloe Gin” (2007) la prima vera gemma da quella che diventerà una vera e propria miniera per gli esploratori del Rock Blues più arcigno.
Disco dopo disco grazie al suono super amplificato della sua sei corde ed i sempre più frequenti inserti acustici,il sound assume forti tinte Hard Rock portando allo scoperto l’altra grande passione di Bonamassa : I Free ed i Bad Company del suo idolo Paul Rodgers.
Dopo una decina di album in studio e svariati live,questo Different Shades Of Blue rappresenta un nuovo capitolo nella carriera di Joe che decide per la prima volta di incidere un’intero album di brani inediti, senza più ricorrere all’utilizzo di cover songs (come da tradizionale capitolato blues).
Con l’ausilio di alcuni songwriters di Nashville e di un certo Johnatan Cain, sfodera un’impressionante sequenza di brani capaci di demolire il repertorio di qualsiasi rock outfit contemporaneo.
17 Marzo 2015 42 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Aor
anno: 2015
etichetta: Frontiers
Finalmente ci siamo! Ma dopo quale prezzo..
Tra un pugno di giorni sarà disponibile nei negozi di tutto il mondo Toto XIV, il primo album dei leggendari Toto contenente solo materiale inedito da Falling In Between del 2006. Una festa globale, che però è stata rovinata giorni fa dalla triste notizia dell’addio al mondo terreno del bassista Mike Porcaro, da tempo malato di SLA. Per lui si aprono le porte dell’eternità nel grande Paradiso dei Musicisti, e a lui è interamente dedicata questa mia recensione, nel rispetto di un componente fondamentale per la storia di questa band, e del genere AOR tutto.
In un mondo stracolmo di oscurità e di dolore, servivano i Toto a riportare un po’ di serenità e luce, lavorando a un disco come sempre elettrico, godibilissimo, divertente e dal mood assolutamente positivo, che rasserena fin dal suo pronti-via gli animi di tutti. Inutile parlare della tecnica dei nostri, rimasta totalmente inalterata negli anni, quanto dell’eccezionale lavoro (seppur meno graffiante che in passato) di Steve Lukather alla chitarra e alla voce, e poi di David Paich e Steve Porcaro alle tastiere e ai cori. Il palmo dei giganti si sente sempre, potete starne certi!
Anche il cantante Joseph Williams tira fuori dal cilindro una prova vocale di tutto rispetto, carismatica e intonata, e il ritorno del bassista fondatore David Hungate è pura manna dal cielo, visto il groove enorme di cui può vantarsi il platter. Infine Keith Carlock, alle pelli, riesce nell’arduo compito di non far rimpiangere i suoi più illustri predecessori, rendendosi autore di una prova determinante per la buona riuscita del disco, e che lo rende “silenzioso” protagonista dell’opera. L’unica nota di leggero demerito, in questa mia analisi tecnica del disco, va ai suoni, validi e spesso sopra la media, ma non così precisi e inimitabili come li si era ascoltati in passato (qualcuno vuol citare Tambu?). Un peccato veniale, che però mi costringe già a rosicchiare qualche punticino (uno 0.5) al giudizio finale.
L’ultimo decimo a cadere, che porta al comunque positivissimo punteggio di 8.5 con cui voglio accompagnare questa release (attirandomi probabilmente le critiche degli appassionati, guidati dal nostro boss Denis che da tempo urlava a un altro 10 in pagella, eheh), è figlio di una tracklist a tratti davvero sensazionale, ma che soffre di alcuni episodi leggermente sottotono, quantomeno per una band di tale portata storica. Già l’opener Running Out Of Time, dominata dalla chitarra di Luke e forte di un buon ritmo cavalcante, e Burn, soffusa e rarefatta prima dell’esplosione melodica finale, sono canzoni che non riescono a raggiungere l’intensità del capolavoro e terzo brano Holy War, senza dubbio uno dei frammenti più riusciti del lotto grazie alla sua ariosità fuori norma, di pura matrice Toto fine anni’70. Anche la seguente 21st Century Blues poi, nonostante il suo bel groove, appare in fin dei conti un pezzo non così esorbitante come invece è il singolo Orphan, nuovo assoluto masterpiece della storia del gruppo, che avete già avuto modo di sentire e risentire grazie al video disponibile a pié di pagina. Onestamente, un pezzo con un testo così ispirato, abbinato una melodia così iper-ballabile, mi toglie letteralmente il fiato. Punto. continua
17 Marzo 2015 33 Commenti Denis Abello
genere: Melodic Rock
anno: 2015
etichetta: Frontiers Music
ISSA (all’anagrafe Isabell Oversveen) ormai è un nome assolutamente conosciuto nel panorama dei melodic rocker dal cuore tenero. La regina nordica del melodic rock infatti con questo Crossfire raggiunge la bella cifra di quattro album in carriera in cui bene o male ha mantenuto pregi e difetti che la caratterizzano dal primo lavoro in avanti.
Complice anche la sua netta vittoria (almeno per il sottoscritto) tra le performance femminili dello scorso Frontiers Rock Festival (qui il report, e ricordate che a breve si replica… http://www.frontiersrockfestival.com), con buona pace dell’ottima prova vocale della bella Leenna Kuurmaa che però ebbe la non proprio riuscita idea di presentarsi con un’immagine un po’ troppo defilata (e con una band di supporto degna delle migliori puntate di walking dead) ed una Tave Wanning (Adrenaline Rush) dal giusto look ma che aimè aveva ancora “da farsi” vocalmente, la nordica ISSA ha saputo ritagliarsi un suo bello spazio tra i fans italiani.
Poi diciamocelo, è simpatica, nordica, bionda e beve birra… almeno per me ha già vinto in partenza! 😀
Per questo Crossfire si è circondata di ottimi ospiti quali Daniel Palmqvist (XORIGIN), Alessandro Del Vecchio (HARDLINE), Steve Newman (NEWMAN), Robert Sall (WORK OF ART), Daniel Johansson (DEGREED), Stephen Chesney, Pete Newdeck (IN FAITH/TAINTED NATION), Matt Black (FAHRAN) and Michael Kew (VEGA) in grado di dare con il loro apporto un maggior vigore all’album, anche se come vedremo in seguito l’ospite che saprà dare veramente una marcia in più con la sua splendida prova vocale sarà Steve Overland, leader degli FM.
17 Marzo 2015 18 Commenti Nico D'andrea
genere: Melodic Metal/Hard Rock
anno: 2015
etichetta: Escape Music
“Impera”!
Monicker alquanto impegnativo quello scelto da Johan Kihlberg ,aka J.K.Impera, per il suo primo personale ensemble, qui già alla terza fatica in soli quattro anni.
Impegnativo come i roboanti proclami di questo misconosciuto batterista svedese, così audaci da far impallidire in quanto ad autostima Kiss e Manowar messi assieme.
Il fantomatico turnista vanta (tra le altre) alcune collaborazioni proprio con gli ex-Kiss Bruce Kulick e Vinnie Vincent e non fa proprio nulla per nascondere l’infatti dichiarata venerazione per la band Newyorkese, utilizzando on stage addirittura il face painting.
Eppure Mr.Impera deve godere di un certo credito all’interno della prolifica scena svedese, tanto da poter contare sui servigi di autentici pezzi da 90 come Tommy Denander e Matti Alfonzetti fin dal primo disco (Legacy Of Life 2012) membri fissi della band.
Per dovere di cronaca mi vedo però subito costretto a smorzare gli entusiasmi dei molti estimatori di Denander ed Alfonzetti che avvicinandosi magari per la prima volta a questi Impera potrebbero già sognare voli pindarici nella stratosfera AOR.
Come nei lavori precedenti (in particolare nel secondo Pieces Of Eden 2013) non troverete qui traccia di quelle cesellature ed assoli cromati che hanno reso grande Denander ne tantomeno del timbro caldo e sensuale dell’Alfonzetti Jagged Edge-era.
Un “early warning” per chi come me di Tommy ha amato il “progetto” Radioactive, i lavori con Jim Jidhead , Joseph Williams (Vertigo) , con i Mecca di Joe Vana e la fulgida meteora Techo-AOR Spin Gallery.
07 Marzo 2015 24 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Hard Rock
anno: 2015
etichetta: SevenOne Music / RCA Deutschland
Perchè ho impiegato così tanto tempo a far uscire questa recensione? Beh, credo soprattutto perchè, prima di scrivere questo articolo, ho dovuto lasciar spegnere il grande entusiasmo che provavo nell’aver tra le mani il nuovo album di una delle maggiori leggende che la storia dell’hard ‘n’ heavy conosca, gli Scorpions. Non potevo infatti recensire in modo oggettivo un disco, questo Return to Forever, che soltanto qualche anno fa, di fronte all’annuncio dello scioglimento del gruppo tedesco, nessuno avrebbe mai e poi mai pensato di poter ascoltare. Specie con questa qualità!
Ok, lo sappiamo tutti, Return to Forever non sarà mai il capolavoro della discografia degli Scorpions, e forse neppure un platter sul livello di Sting in the Tail (2010), ma guardate che cinque anni di distanza, visti nell’ottica di cinquant’anni suonati di carriera, sono davvero tanti, e il (leggero) calo è ben che motivato. Pensateci bene, mica in tanti possono permettersi di pubblicare un album degno di un otto pieno in pagella a (e qui prendo Rudolf Schenker come esempio) 67 anni di età! Un disco che, tra l’altro, riesce a racchiudere al suo interno almeno tre/quattro gemme hard rock niente male, che fanno invidia a centinaia e centinaia di formazioni più giovani, più arrembanti, più fresche presenti sulla scena. Insomma, a conti finiti, e scemato il tripudio smisurato dato dai primi ascolti, resta tra le mie/nostre mani un album quantomai solido ed ispirato, che non sfigura affatto nella discografia dei nostri, come magari poteva fare lo scialbo Comeblack (2011). O sbaglio?!
Così, Going Out With A Bang è una opener energica ed elettrizzante, forte del grande riffing solido e compatto del navigato duo composto da Rudolf Schenker e Matthias Jabs, capace di dimostrarsi in grande spolvero fin dal pronti-via. Il primo vero sussulto ce lo da però il singolo We Built This House, immenso componimento hard rock capace di spingere verso un ritornello da cardiopalma, vera essenza del rock, inno per le generazioni a venire, da cantare e ricantare ancora a squarciagola. Enorme! Successivamente, Rock My Car punta ancora sull’energia e sull’adrenalina, ma non riesce più di tanto a brillare al di là di un refrain da stadio. Ci pensa la super power-ballad House Of Cards a ristabilire i livelli che cercavamo, con un cantato di Klaus Meine a cinque e più stelle, e un felling degno solo dei giganti, per un pezzo commovente, e ricco di sentimento. Molto piacevole anche All For One, canzone rock ben strutturata e dal bel ritmo, un po’ nello stile dei Twisted Sister, e buona Rock n Roll Band, cavalcata tra rock e metal che trasmette positività ed energia, che apre a Catch Your Luck And Play, altra hit del disco grazie ad un sound molto radiofonico, in perfetto stile anni’80.
Si riparte, e i battiti quasi pop di Rollin’ Home deliziano gli ascoltatori più giovani e abituati ai motivetti moderni, mentre Hard Rockin’ The Place torna a presentare le chitarre in primo piano, in un pezzo roccioso e di buona fattura, che rimanda ancora agli ’80s della band tedesca. Altra hit da tenere sotto conto è la ballad Eye Of The Storm, nostalgica e solitaria nel mood, un po’ alla Gotthard nello stile, e con lei (dopo la discreta The Scratch) brilla di luce propria la cremisi Gypsy Life, altro grande componimento di questo lotto, forte di un testo toccante e di sensazioni crepuscolari, da cuore in mano.
PS: Consiglio ai lettori l’acquisto dell’edizione deluxe dell’album, contentente quattro canzoni degne di nota e differenti tra loro (in rilievo in particolare The World We Used To Know e Who We Are), ulteriori valori aggiunti di questa ottima release.
IN CONCLUSIONE
Non ci pensino neanche lontanamente gli Scorpions a sciogliersi! Altro che farewell tour e album di addio, ascoltando Return to Forever (che, lo ripeto, qualche calo e difettuccio qua e là lo ha) ci si rende conto di quanto sia alto lo stato di forma di questi giganti del rock, e di quanto la scena moderna abbia ancora bisogno della loro musica!
Long live Scorpions, long live..
05 Marzo 2015 25 Commenti Lorenzo Pietra
genere: AOR
anno: 2015
etichetta: AOR Heaven
Tornano i Last Autumn’s Dream. Level Eleven è l’undicesimo lavoro in studio per la band svedese capitanata da Mikael Erlandsson; il lavoro farà tanto discutere sia per la qualità delle canzoni, altalenante, sia per il numero di uscite che con la cadenza quasi annuale non può far altro che diminuire le idee e riciclare spesso le melodie. Altro motivo del calo può essere il continuo cambio di line-up che stavolta perde uno dei fondatori e ideatori del gruppo: Andy Malecek, anche autore di diversi pezzi della discografia dei Last Autumn’s Dream. A sostituirlo Peter Soderstrom che non fa altro che compiere il suo onesto lavoro alla chitarra senza lasciare il segno.
Si parte bene con Kiss Me, con il tipico sound dei LAD, anche se la canzone ha bisogno di qualche ascolto prima di essere apprezzata al massimo. Ottime ritmiche e melodia sempre perfetta. Follow Your Heart è ancora dotata di grande melodia e ricorda i vecchi lavori, risultando gradevole. Fight The World parte con una voce femminile con sottofondo di pianoforte….violini e Erlandsson esplodono in una power ballad abbastanza scontata dove stavolta il ritornello non riesce a coinvolgere. La cover di I’ll Be There 4 U di Jeff Scott Soto (ma la musica era stata scritta da Jamie Borger,batteria dei LAD) parte con dei cori accompagnati da una tastiera per partire con una bella chitarra ritmica. Ben prodotta e ben cantata risulta un buon episodio… Losing You parte lenta ma poi la chitarra di Soderstrom comincia a farsi sentire, peccato che la canzone non sia all’altezza, brutto refrain che la rende anonima. Go Go Go – Get Ready For The Show risolleva l’album ritornando al vecchio sound tanto amato dai fan dei LAD. Bei cori, bel sound e ottimo ritornello. Delirious non convince, sound più moderno, song senza mordente che scivola senza infamia ne lode….Made Of Stone è la ballad che solo i LAD riescono a tirare fuori; pianoforte come intro, Erlandsson che sfodera una prestazione superba per un lento che farà riempire i cuori dei fan. Stick Around parte ancora lenta ma il ritornello festoso e le tastiere che riempono, forse fin troppo, la rendono un’ottima song. Star scivola senza lasciare ricordi mentre l’ultima Plz è un lento che, fortunatamente chiude l’album in bellezza……in definitiva un’album con troppi alti e bassi, ma comunque di discreta fattura.
IN CONCLUSIONE:
Disco consigliato solo ai fan più fedeli dei Last Autumn’s Dream. Le troppe uscite hanno minato la qualità delle canzoni, anche se diversi episodi lasciano il segno. Per chi si avvicina la prima volta ai LAD consiglio caldamente i vecchi lavori.
27 Febbraio 2015 58 Commenti Nico D'andrea
genere: Hard Rock
anno: 2015
etichetta: UDR
Londra 17 Novembre 1969.
“Lieve cade la pioggia, i veli dell’oscurità avvolgono gli alberi anneriti, accanto al lago una giovane donna aspetta, non vedendo, sorride debolmente ai rintocchi di una campana lontana“.
L’annunciato ritorno con un disco dalle sonorità pesantemente Classic Rock (con tanto di accostamento ai pionieri Black Sabbath, Led Zeppelin e naturalmente Deep Purple) si appresta a trasformare il lugubre rintocco della campana che apre l’epocale “Black Sabbath”, in sottofondo per l’ennesimo rito funebre che oramai abitualmente accompagna ogni nuova uscita discografica degli Europe post “Prisoners Of Paradise“.
Presenti in gran numero alla cerimonia gli inguaribili nostalgici del glorioso sound anni 80, comprensibilmente incapaci di elaborare un lutto che andrebbe invece rimosso ad una decade dal passaggio della band a nuova vita artistica.
Ad officiare la mesta ricorrenza è chiamato sua eminenza Dave Cobb, “vintage producer” del momento già alla consolle con Rival Sons ed i defunti (questi si) California Breed.
Beh, vi invito umilmente ad alzare il capo e guardare avanti perchè non sarà il sottoscritto a tappezzare la nostra luccicante “MelodicRock City” di pallide epigrafi.
continua
26 Febbraio 2015 51 Commenti Denis Abello
genere: Hard Rock
anno: 2015
etichetta: Frontiers Music
Gente e popoli di tutto il mondo convertitevi ora al melodic rock prima che sia troppo tardi, l’Armageddonize è qui e scenderà dal cielo preceduto da un Eclipse come non mai. La fine della musica per come la conoscete oggi è vicina, una nuova alba fatta di melodic rock e hard rock di qualità ci attende!
No, non ho esagerato con polenta e cinghiale l’altra sera, ma avevo bisogno di un’entrata ad effetto per dare il giusto tributo al ritorno degli Eclipse di Erik Martensson e Magnus Henriksson che mai come a questo giro (e così giochiamoci nelle prime battute tutta le recensione, con il benestare di quel “In Conclusione” a fondo pagina) posano sul lettore un album veramente in grado di “Armageddonizzare” il panorama del melodic hard rock attuale.
Sempre più una band delle meraviglie, sempre poggiata sui due cardini Erik Martensson (se volete saperne di più su di lui, godetevi questa monografia) e Magnus Henriksson e con sempre quel tritaossa dietro le pelli di Robban Bäck. La novità sta nell’innesto come elemento stabile di Magnus Ulfstedt al basso, che magari qualcuno si ricorderà per essere stato il batterista dei Grand Design… si, batterista, ma qui reinventato bassista, tanto si sa che gli Svedesi sono delle vere macchine da guerra musicali intercambiabili ai vari strumenti come i pezzi dei Lego!
Formazione che sembra diventare così più stabile e come vedremo in seguito giovare di questa aggiunta proprio sulla sezione ritmica della band! Prima di addentrarci nei meandri di questo Armageddonize ricordiamo che l’album arriva a qualche anno di distanza da Bleed & Scream del 2012 (qui la recensione) che aveva riportato in auge il nome Eclipse dopo lo splendido Are you Ready to Rock del 2008.