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08 Febbraio 2024 2 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 2024
etichetta: Nuclear Blast
Ma come, direte voi, i Lucifer su Melodic Rock.it? Ma sì, cari i miei mollaccioni, non abbiate paura, nessuno vuole spaventarvi con grugniti o chiese incendiate, la band formata nel 2014 da Johanna Sadonis, che ora oltre ad aver ripreso il proprio cognome originale Platow, ha assunto anche quello del coniuge, il tentacolare Nicke Andersson che conosciamo soprattutto per essere il fondatore di Entombed e The Hellacopters, non ha nulla che vedere con gli estremismi sonori che un monicker tale potrebbe far presagire, anzi, ultimamente è diventata una macchina da canzoni “orecchiabili”, pur mantenendo quella tenebrosità di fondo nelle atmosfere e nei testi, ma avvicinandosi sempre di più al lato hard rock e relegando a qualche riff il lato doom, ma procediamo con ordine.
L’attesa per questo quinto capitolo nella discografia della band oramai svedese a tutti gli effetti, seppur Johanna sia Berlinese, era stata resa incandescente per quanto mi riguarda, dall’uscita di quattro singoli, dei quali il primo addirittura lo scorso 17 Maggio 2023, tutto lasciava presagire una sterzata ancora più delineata verso l’hard rock settantiano, rispetto al già vintage “Lucifer IV” e se tanto mi dava tanto ci si trovava di fronte ad una sottospecie di capolavoro, ma adesso che l’album è uscito, le premesse sono state mantenute? In parte, sicuramente la qualità è alta, quello che manca è la voglia di stupire e mi spiego, in questo quinto lavoro i Lucifer si adagiano su di un hard rock settantiano levigato, dove la ricerca della melodia è sempre in primo piano e l’effetto sorpresa che in molti casi negli album precedenti ha fatto sì che i pezzi risultassero meno prevedibili della norma, qui viene diluito dalla voglia della band di toccare generi quali il blues, la nwobhm, il rock’n’roll, addirittura il garage, che implicano una certa semplicità, cosa che peraltro gli è venuta discretamente bene. ‘Fallen angel’ parte col botto, trainata da un riff appunto figlio della nwobhm e non perde un grammo di energia lungo tutti i poco più di tre minuti di durata, ma a far ritornare i Lucifer più luciferini, e la ripetizione è voluta, ci pensa quello che è stato il secondo singolo pubblicato, “At the mortuary” che inizia con un sinistro rintocco di campane sostenuto da un riff sabbathiano fino al midollo, salvo poi evolversi in hard rock di facilissima lettura e se ‘Riding reaper’ si mantiene su coordinate abbastanza canoniche, tanto da risultare il brano più inoffensivo dell’album, ecco arrivare ‘Slow dance in the crypt’, fumoso blues che da l’impressione di trovarsi in un malfamato bar di periferia, dove la musica del diavolo la fa da padrone e qui si comincia a stagliare quella macabra sensualità, seppur resa solare dal ritornello, a mio parere è questo terzo singolo a rappresentare il punto più alto di “Lucifer V”. Subito dopo, sorretta da un riff metalloso, arriva ‘A coffin has no silver linings” il primo singolo, dal titolo geniale, dall’andamento quadrato, ma tutto sommato ancora facilmente fruibile, sfrontato è l’aggettivo che mi viene in mente all’ascolto del quarto e ultimo singolo ‘Maculate heart’, che flirta con il sound anni sessanta e lo frulla con i Blue Oyster Cult, ecco, la band di Eric Bloom, con le dovute proporzioni, è quella che più ricorre nel sound dei Lucifer, aggiungendo pulsioni quasi pop rock ad un sentore di zolfo, cosa che ha caratterizzato tutta la sontuosa carriera degli autori di “Cultosaurus Erectus” e se ‘The dead don’t speak’ si insinua intrigante con un incedere tra il garage e l’hard rock, ‘Strange sister’ squarcia l’aere con un hard rock ammiccante, tagliato in due da un’intermezzo lugubre , ma pur sempre con un fondo di positività, infine arriva la drammatica e seducente chiusura con ‘Nothing left to lose but my life’, che si basa ancora su un blues ammiccante e ricco di intensità e che sfocia in un crescendo in cui il brano va a perdersi.
Per chi ha seguito i Lucifer fin dal primo album, probabilmente questo album rappresenterà qualcosa di banalotto o tuttalpiù immaginabile, mentre chi apprezza il loro lato smaccatamente rock, troverà qualcosa con cui trastullarsi al di fuori dei canoni e dei generi trattati qui, per quanto mi riguarda, pur non gridando al miracolo, apprezzo la capacità della band di miscelare sapientemente le tematiche occulte con una musica a tratti vicina al pop rock, senza sfigurare e apprezzo ancor di più la produzione volutamente vintage, con suoni crudi e diretti, senza trigger e ammennicoli vari che purtroppo, in molti casi, mamma Nuclear Blast impone ai propri gruppi, quindi, ben vengano album come “Lucifer V” che ci fanno riscoprire il rock vero e viscerale!
31 Gennaio 2024 0 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Livewire/ Cargo
Devo ammettere che non conoscevo i Nubian Rose, non solo perché non si facevano sentire dal 2014, quando pubblicarono “Mental revolution”, ma anche perché, a detta di tutti, facevano un genere che non è propriamente nelle mie corde, ma ascoltando “Amen”, loro terzo album, devo chiedere venia e prostrarmi sui ceci, perché non si tratta assolutamente di un classico e molte volte scontatissimo hard melodico, o meglio, in parte, ma siamo di fronte ad un’opera di magniloquente hard’n’heavy, che senza essere stucchevole, si diletta a esplorare il prog metal più diretto e l’epic più arioso, insomma qualcosa di fresco, che mi ha lasciato davvero stupito.
Fin dall’opener ‘Memorial’ si intravedono le qualità dei Nubian Rose, con la voce di Sofia Lilja a dettare legge e la chitarra di Christer Akerlund a ricamare fraseggi notevoli, subito doppiata da ‘Dramatic day’, particolarmente “sentita” da Sofia, la quale parla del proprio funerale, quindi non proprio un argomento tipico di lidi melodici, musicalmente questo pezzo è un bel heavy rock, con un incedere ricco di tensione, la cosa che lascia spiazzati è la mancanza di un ritornello nella canzone, cosa che la rende sicuramente meno scontata, togliendo quel fastidioso sentore di “già sentito” che oramai nell”hard’n’heavy (purtroppo) spopola e anche la successiva ‘Break down thew walls’ non è da meno, mantenendo una vigoria heavy, ma con un’apertura catchy non smielata e un assolo che parte malmsteeniano per poi finire ricalcando la melodia portante; ma, la canzone che più di tutte mi ha conquistato è ‘Lost in the mist’, brano che esce ancora di più dagli schemi rispetto a ‘Dramatic day’, lungo (quasi dieci minuti!), ma appassionante e vigoroso quanto basta, per referenze, ascoltate il riffone che tira fuori Christer, quasi a ricordare la sua collaborazione in precedenza, sempre nei Nubian Rose, con Torbjörn Weinesjö, ex ascia dei prog/epic/doomsters Veni Domine, non per niente qui si sfiora il prog metal, ma con una struttura drammaticamente epicheggiante.
Particolarmente emozionante è ‘Red sky’, quattro minuti e mezzo di crescendo nella quale Christer affianca per la prima volta Sofia alla voce, seguita a ruota da un altro episodio particolarmente riuscito come ‘Desert night’, che dopo un inizio arabeggiante, si dipana in un hard rock quasi zeppeliniano figlio del poco apprezzato, non da me sia chiaro, “Strange and beautiful” dei Crimson Glory, sul quale si staglia imponente la potenza di Sofia, ci sono anche pezzi “normali” in questo album, ma non per questo il valore del platter viene sminuito, ‘Running’ è sicuramente più classica, seppur introdotta da un tempo quasi funky-disco anni settanta, ‘Hard road’ e ‘Bright lights’ si rifanno ad un hard’n’heavy più lineare, sorrette da rocciosi riff di scuola priestiana, soprattuto la seconda, mentre in fondo troviamo la cover di ‘Gonna get close to you’ di Lisa Dalbello, rifatta poi dai Queensryche sul magnifico “Rage for order” e purtroppo qui arriva a mio parere, una piccola nota dolente, posso infatti anche apprezzare il fatto che la band cerchi di farne una sua versione, ma qui si perde tutto il pathos e la grinta che il brano aveva fin dalla sua prima pubblicazione, peccato, anche se di certo ciò non influisce sul giudizio finale, che è estremamente positivo.
P.s.
Nota finale che riguarda noi scribacchini, che molte volte ci troviamo alle prese con promo sheet che non fanno altro che glorificare l’album presentato (a volte anche ingiustificatamente), mentre non danno molte informazioni che invece a noi imbrattatoti di pagine web, possono risultare importanti ed è così che vedrete nella casella riguardante la line up, i soli nomi di Sofia e Christer perché, ad oggi, non sappiamo se ci siano o no altri musicisti, che magari non fanno parte della band, ma perlomeno hanno registrato il disco, ecco, magari un po’ più di attenzione a questi dettagli e un po’ meno righe di autoglorificazione gratuita, sarebbero ben accetti…
29 Gennaio 2024 0 Commenti Vittorio Mortara
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Escape
Parte la prima traccia e… Accidenti, devo aver sbagliato cartella! Questo è un disco degli FM… Fa vedere… No! E’ proprio Robert Hart! Ah ecco! C’è Overland ai cori… Vediamo “Stone heart”… cribbio! Ma questa cos’è? Una outtake da un disco dei Bad Company? E anche la successiva “Blame it on me” gronda hard blues da tutti i solchi. Ma il raffinato AOR di “Cries and whispers”? E le contaminazioni pop e funky dello straordinario “Pure”? Dove sono finiti? Aspetta, qualcosa fa capolino in “I’m on your side”… però finisce per assomigliare un po’ troppo agli ultimi lenti degli FM… Mannaggia alla voce di Overland! Il tocco del plettro (e della penna) di Steve Morris è riconoscibilissimo su “I’ll take the bullet”, pezzo che non avrebbe sfigurato sull’ultimo Heartland. Il rockaccio della cattiva compagnia la fa da padrone anche su “Lay me down easy” e sul classico giro di blues che costituisce “Right here, right now”. E, anche se il mezzo arpeggio iniziale mi aveva fatto sperare il contrario, pure “Too much time on my hands” si infila fra i Bad Company e gli FM post “Tough it out”… Molto più gradevoli le movenze sexy e raffinate di “Bring on Tomorrow”, di gran lunga la canzone più bella del lotto! Bello anche il ritornello sornione di “That was the day”. E se volete gustare, finalmente, un po’ di sano AOR in salsa worchestershire, buttate giù in un solo fiato “Wrong side of love” perché poi si chiude con “The time of our lives” navigando ancora una volta su territori bluesati.
“Circus life” è la summa dell’hard rock britannico degli ultimi 30 anni. A partire dai super musicisti che partecipano al progetto sia in vece di strumentisti che di compositori. E’ un album che piacerà un sacco a tutti i fans della Bad Company e degli FM meno AOR. Ed al vostro redattore è piaciuto? Non tantissimo. Mi sono mancati la leggiadria compositiva e le molteplici influenze che mi avevano esaltato sui due precedenti solisti di Robert. Ma devo anche ammettere che, ultimamente, non mi piace praticamente nulla… Il voto prendetelo, dunque, con le pinze e giudicate voi… Buon ascolto!
29 Gennaio 2024 0 Commenti Giulio Burato
genere: SLEAZE METAL
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy
Seconda uscita discografica per i Notorious tramite Pride & Joy Music. La band di Bergen (Norvegia) pesca a piene mani da gruppi come Tigertailz, W.a.s.p., Britny Fox e, in alcune sfaccettature, ai primi Motley Crue.
Suddivido la recensione in aspetti positivi e negativi.
Tra gli aspetti negativi, la copertina da cui mi aspetterei un genere metal molto più pesante, una tracklist di solo otto canzoni, con la durata che non arriva a 35 minuti, escludendo il poco accattivante, per non dire trascurabile, intro.
Tra gli aspetti positivi, la particolare presenza del cantante Henrik Skar (a cui la copertina calzerebbe bene al suo genere black metal) nell’ultima traccia, e l’efficace lavoro di DiCato alle chitarre che, in alcune soluzioni neoclassiche, ricorda lo stile di Malmsteen.
Le canzoni che segnalo sono “All Night”, Ain’t No Stoppin” con la presenza di Mark Boals al supporto voce e “Remember you” con le sue variazioni chitarristiche ed un ritornello più orecchiabile.
Nel complesso, un album tosto, senza fronzoli ed omogeneo, ma piatto e con pochi cambi di passo per essere un vero e proprio…“marching on”.
27 Gennaio 2024 3 Commenti Lorenzo Pietra
genere: Melodic Rock - AoR
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy Music
Puntuale come un orologio svizzero, eccoci con l’appuntamento annuale con il nuovo album di Mikael Erlandsson e i suoi Autumn’s Child, “Tellus Timeline”. Progetto naturale proseguimento dei grandi Last Autumn’s Dream, gruppo che dagli inizi degli anni 2000 (2003 per la precisione) ci ha deliziato ogni anno con un disco di AoR e Rock Melodico di alta classe.
Cambia parzialmente la line up, infatti troviamo Pontus Akesson alla chitarra, Robban Back alla batteria, Claes Andreasson alle tastiere e Magnus Rosen, membro originario degli Hammerfall, al basso.
Il disco è come sempre ben prodotto e nonostante i tantissimi album pubblicati non si rischia l’auto plagio, infatti l’album risulta vario e con buone novità, aiutate anche dalle diverse collaborazioni sul disco; a partire dalla cantante lirica svedese Karin Funk, presente nel primo singolo Gates Of Paradise fino al duetto con il grandissimo Jim Jidhed sulla melodica Juliet. Come già indicato la collaborazione col bassista ex Hammerfall in diversi pezzi fa sentire la sua grinta.
La chitarra di Akesson primeggia su diversi brani, come la rockeggiante Here Comes The Night , dove troviamo anche un bell’assolo di tastiere, l’arena song We Are Young che non sfigurerebbe dal vivo e rappresenta perfettamente il sound di LAD + Autumn’s Child e dove ancora una volta l’accoppiata Akesson/Andreasson riesce a colpire. Il primo singolo Gates Of Paradise, con la voce del tenore Karin Funk, parte forte con un hard rock aggressivo e crescente. Il pop-rock con echi Beatles di Around The World In A Day è notevole e non scontato, l’assolo semi acustico finale ci riporta indietro nel tempo, gran pezzo. On Top Of The World ci riporta sui binari Aor, bello il piano e le tastiere che sfociano in un refrain arioso. This Is goodbye è un hard rock farcito di tastiere, classico sound scandinavo Aor dove chitarre/tastiere/cori si intrecciano in modo impeccabile. Il duetto con Jim Jidhed è il lento Juliet, dove si fonde l’Aor più classico; l’intro a la Toto, il refrain molto Journey, niente di innovativo, ma una formula per rendere un lento perfetto. Si conclude con I Belong To You, dove l’eco dei Beatles è ancora chiaro, pop con batteria secca, cori , chitarre acustiche che si fondono con un tappeto di tastiere.
IN CONCLUSIONE :
Bisogna ammettere che la formula usata in questo disco è ben riuscita, ottimi duetti, diversi stili ma sempre perfettamente in linea con l’AoR a cui ci hanno abituato Erlandsson & soci. Dategli una possibilità!
26 Gennaio 2024 4 Commenti Samuele Mannini
genere: Progressive Rock/Metal
anno: 2024
etichetta: Inside Out
Che la pandemia degli anni passati sia stata per molti un momento catartico dove ripensare la propria esistenza e guardare il mondo attraverso lenti mai indossate prima è un dato di fatto incontrovertibile. Naturalmente c’è chi ha interiorizzato la cosa e chi, come molti artisti, ha deciso di esteriorizzare questa esperienza quasi come a volerla esorcizzare ed anche i Caligula’s Horse appartengono a questa categoria. Il mood si nota già dalla copertina dove i paesaggi bucolici e solari di In Contact e Rise Radiant, vengono sostituiti da un oscuro vortice introspettivo dominato da tonalità cupe.
Naturalmente anche la musica segue questo oscuro vortice emozionale e risulta più cupa e tagliente che in passato, la chitarra è come uno scalpello che incide solchi dolorosi dentro l’anima e l’uso più marcato della voce filtrata aggiunge una sorta di sotterranea inquietudine, mentre il martellare ossessivo della sezione ritmica sottolinea il disagio che regna sovrano anche nei testi. Non che manchino le aperture più melodiche come per esempio in Vigil o Mute, ma sono più dosate che nei precedenti album e sicuramente più votate al sottolineare l’ansia di fondo che permea tutto il disco.
Per quanto riguarda la qualità siamo su livelli comunque eccelsi. L’incedere del disco mi fa lo stesso effetto che, a suo tempo, mi fece ascoltare Awake, dopo aver adorato le atmosfere di Images & Words l’assimilazione non fu facile, ma l’amore scoccò comunque. Si sentono contemporaneamente, sia la continuità artistica che il cambio emozionale e di toni compositivi, rendendo l’ascolto di Charcoal Grace una specie di scoperta, come quando torni in un luogo familiare dopo molto tempo e scorgi dettagli che mai avevi notato prima.
In sostanza dunque un disco da scoprire assolutamente, da esplorare con cautela e circospezione per coglierne tutte le numerose nuance oscure che lo caratterizzano, se poi, come me, preferite le atmosfere più aperte e solari dei due precedenti lavori, pazienza, perché comunque ciò non impedirà di gustarvi a pieno questo capitolo di una band ormai assurta al ruolo di portabandiera del moderno progressive.
26 Gennaio 2024 4 Commenti Denis Abello
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Napalm Records
In casa Thundermother la convivenza non deve essere semplice e così circa un annetto fa tre Thundermotheriane, ossia Guernica Mancini (voce), Mona Lindgren (chitarre) e Emlee Johansson (batteria) prendono i loro bagagli e in blocco tolgono il disturbo.
Il Lupo però perde il pelo ma non il vizio, o in questo caso direi la voglia di fare musica, e così le tre ex si ritrovano e neanche da dire mettono su una band a nome The Gems e si ripresentano sul panorama musicale mondiale con l’esplicativo album Phoenix !
Album che, ancora una volta neanche da dire, riprende pari pari quello che le tre facevano nelle Thundermother, ossia del sano, sanguigno, e forse solo un pelino meno grezzo (cosa che apprezzo!) Hard Rock stradaiolo che sembra incrociare in un’orgia alcolica il sound di Kiss, Ac/Dc e Mothorhead!
La copertina decisamente fine anni ’70 che vede in un poco memorabile outfit le tre donzelle introduce invece in un lotto ben più memorabile di pezzi, 16 per l’esattezza anche se va detto che ci sono tre intermezzi ed una versione acustica del brano Like a Phoenix il che riduce in realtà, a voler ben vedere, il corposo lotto al numero più umano di dodici pezzi.
Passato quindi il primo “interlude” (Aurora) ci si lancia subito negli intenti diretti di Queens! Come a dire, gente noi siamo le Regine, ed effettivamente il pezzo gira che è un piacere. Originalità zero ma il buon gioco di squadra delle tre “Gemme” fa capire che il tutto funziona alla grande!
L’album riesce a trasmettere infatti quell’aria più “easy” (in tutti i sensi) che probabilmente si respira tra le Gems rispetto al loro recente passato, risultato ottenuto presumibilmente grazie anche all’amicizia “vera” che lega le tre al di fuori della band.
Si continua così con lo stile seventies blues hard rock di Send Me To The Wolves e sulla Mothorhediane Domino e Silver Toungue! Il concetto di “originalità pari quasi a zero” continua per tutto l’ascolto del disco ma va detto che l’album comunque si fa apprezzare con piacere grazie anche ad un lavoro veramente di livello alla chitarra per la brava Mona “DeMona” Lindgren ed alla sempre ottima voce di Guernica Mancini, mentre alla batteria Emlee Johansson mostra tutte le sue doti da rullo compressore che sono praticamente imprescindibili in un album come questo.
Senza passare al lumicino tutti i pezzi di questo Phoenix meritano una citazione l’intensa Ease Your Pain, il manifesto Like a Phoenix e la radiofonica chiusura di Fruits of my Labor.
Sarà la voglia di rivincita delle tre Gems, sarà l’amicizia che le lega ma questo Phoenix è un bell’ascoltare. Certo, prova a venderci l’acqua calda, ma lo fa almeno profumandola a dovere e presentandocela alla giusta temperatura. Consigliato un ascolto, brave Gems!
23 Gennaio 2024 0 Commenti Denis Abello
genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy Music
Usciti nel 2015 con l’album Chasing Miracles, tornano ora dopo otto anni gli Inglesi Corvus! Nati nel 2012 per volere del chitarrista John Clews, che qualcuno magari si ricorderà per la sua presenza nei Serpentine, i Corvus altro non sono che una bella realtà AOR pura, semplice e diretta!
La particolarità della band si può ricercare nella voce di Ciaran James dallo stile a tratti teatrale e romantica che mi ha ricordato a tratti quella di Morrissey.
La proposta musicale è interessante. Pur non discostandosi da un AOR per lo più fresco, catchy e altamente orecchiabile di matrice puramente inglese, come potrebbe essere per fare un paragone recente quello dei Cats in Space ma ancora più edulcorato, riesce ad uscirne a testa alta grazie a brani ben confezionati e ad una produzione pulita e colorata che evita l’effetto “binario unico” che spesso si percepisce nelle produzioni odierne di questo genere.
Un album da ascoltare con spensieratezza, ma non per questo privo di liriche anche impegnate, e con sempre quel senso di vintage AOR a coccolarci i timpani. Forse qualche brano che tende ad assomigliarsi qua e la ma anche qualche bella perla come You Make Me Live Again in cui i tratti della voce segnalati a inizio recensione di Ciaran tra teatrale e romantico si fondono perfettamente dando vita ad un brano sognante e poetico con l’eleganza tipica di un certo AOR di matrice inglese.
Bella e atipica, ma trademark della band visto che già lo avevano fatto nel precedente lavoro, la chiusura sulle note della strumentale Stardust.
Da notare comunque in aggiunta due bonus come la versione alternativa di Chasing Miracles dal primo album e la natalizia Can You Hear The Sleigh Bells Rings, singolo del 2016, che poco valore agiungono all’album ma che risultano comunque un gradito presente da parte della band.
Niente di nuovo sotto il sole e questo è forse l’unico vero appunto che si può fare a questo lavoro, ovvero una certa mancanza di originalità che volente o nolente mina il voto finale. Va detto però che il tutto viene comunque ben bilanciato da un lavoro preciso e curato nello sviluppo e nell’esecuzione dei pezzi. Così se con il primo album i Corvus avevano posizionato un tassello che faceva capire le intenzioni della band, con questo nuovo lavoro a titolo Immortals piazzano un buon secondo diretto che sicuramente metterà KO qualche cuore AOR dal tratto “mieloso” rimasto fermo nelle terre di Albione dei primi anni ’80.
23 Gennaio 2024 0 Commenti Vittorio Mortara
genere: Glam
anno: 2024
etichetta: Frontiers
I tedeschi Cobrakill qui hanno tentato di sfornare un album di glam metal sporco e primordiale, avendo nel mirino i Motley di “Too fast for love”. Ci sono riff grezzi, batteria roboante e voce da ‘paperella’ ad accompagnare testi sex drugs and rock’n’roll… Ma niente più. Il quintetto teutonico sembra non avere le idee chiarissime su come si componga una canzone nel genere. I pezzi sembrano, per la maggior parte, collages di idee prese qua e là tra i classici stradaioli degli anni 80. Spesso tutti paiono troppo presi a suonare grezzi e cattivi. Il batterista picchia sulle pelli come se non ci fosse un domani. Le linee vocali non trovano mai una vena che le renda abbastanza catchy. Gli assoli di chitarra sono sempre stridenti e concitati. In aggiunta, come se non bastasse, la produzione approssimativa non aiuta affatto a migliorare la situazione.
E allora, in questo calderone ribollente, risulta difficile pescare qualche buon pezzo. Magari la motorheadiana “Above the law”. Oppure la street “Same ol’ nasty rock’n’roll” e, perché no, la più riflessiva “Silent running”, dove vengono usati con un po’ più di senso i cori e le tastiere.
Insomma, il vuoto lasciato sulla scena glam dall’eclipsizzazione dei Crashdiet non è ancora stato colmato…
23 Gennaio 2024 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy
In uscita in questo 2024 il nuovo album dei tedeschi Lazarus Dream, un concentrato teutonico di hard rock raffinato e potente.
Partiamo senza troppi indugi con la corale e coinvolgente “The Sweetest Chaos”, gagliarda, intensa, strumentalmente compattissima, ottimo biglietto da visita per la band. Passiamo alla successiva “Vulture’s Cry”, martellante e dall’impatto deciso, globalmente un pezzone riuscitissimo, per atmosfera e resa musicale. “Rebel Again” non delude, facendo assaporare all’ascoltatore un che di nostalgico e lontano, soprattutto nelle parti solistico – strumentali. Arriviamo alla title – track “My Imaginary Life”, molto suadente e corale, un marchio di fabbrica della band, che ci porta ad un livello compositivo ed esecutivo molto buono, soprattutto nel trasporto prodotto dal ritornello. Giungiamo immancabilmente al lento del lavoro dei Lazarus Dream: “Beauty Among The Ruins” spicca per intensità e calore, ma di per sé non si allontana moltissimo dalla miriade di lenti della storia dell’hard rock. “Disaster Love”, con il suo cry baby iniziale e i suoi fraseggi disorientanti, è un brano di grandissimo interesse e dall’esecuzione variegata e piacevolissima: perla assoluta. Tripudio di tecnica chitarristica per “Vertigo”, pezzo smanettone dalla grande intensità, che sfocia nell’ovattata e confortevole “My Prayer”, senza grandi picchi da rilevare. “Drink My Blood” ci proietta su orizzonti ipercontemporanei, al limite del genere, che però si ripresenta e si mescola, creando un prodotto di grande impatto. Chiusura affidata alla crudelissima “Empire Of Thorns”, non particolarmente differente dal resto del lavoro, ovvero un album molto ben suonato ed arrangiato, dagli spunti talvolta interessanti e globalmente riuscito in ogni particolare: buon inizio di 2024.