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03 Settembre 2016 0 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Hard Rock
anno: 2016
etichetta: JLBmedia
John Lawton, cantante degli Uriah Heep dal 1976 al 1979, continua a rispolverare il suo passato storico musicale e distribuisce, tramite la label JLBmedia, la ristampa dei primi due album dei Gunhill, suo progetto hard rock sulle scene nella seconda metà degli anni’90.
Contenente il disco One Over The Eight (1995) (che all’epoca fu distribuito in formato musicassetta e solo ai membri del fan club del gruppo) e il seguente (e ormai introvabile) Nightheat (1997), questo pacchetto riporta alla luce due pubblicazioni davvero interessanti per la scena hard rock classica di quegli anni. Interamente rimasterizzate, le due pubblicaizoni ci presentano una band davvero performante e capace di dare vita a un proprio rock molto musicale e di grande melodia, forte di un groove solido e di ottime capacità tecniche nei suoi musicisti. Impressiona in particolare il genio chitarristico di Brian Bennett, sugli scudi su tutta la registrazione Nightheat, come pure il bel lavoro ritmico di Chris Jones e Lloyd Coates. La star rimane però certamente lo stesso Lawton, autore di parti vocali di incredibile intensità che dimostrano tutto il suo valore come frontman hard rock.
Sensazionali da ascoltare canzoni come Don’t Stop Believing, Don’t Look Back, Eleanor Rigby o Soldier of Love, mentre stupiscono in positivo le due bellissime cover dei brani Waiting for the Heartache e When A Man Loves A Woman, interpretate da lode dai Gunhill. Peccato solo allora per la mancanza di un libretto esaustivo a supporto della release, che ci faccia scoprire qualcosa di più sulla genesi di questo gruppo, e per i suoni ancora deficitari del primo album (mai miracoli nessuno li può fare..), perchè, al di là di questo difetto, questa è una pubblicazione davvero significativa e degna davvero di un posto di rilievo nelle nostre collezioni.
IN CONCLUSIONE
Per chi ama la voce di John Lawton, l’hard rock classico e gli Uriah Heep, questa è una ristampa fondamentale da possedere. Ed è apprezzabile l’idea del noto frontman inglese di continuare a riportare alla luce uscite semi-introvabili come queste.
26 Agosto 2016 1 Commento Iacopo Mezzano
genere: Soft Rock / Melodic Rock
anno: 2016
etichetta: EMP Label Group / SPV
Gli Apollo Under Fire si definiscono come una band che lotta per esprimere nella musica il proprio essere e la propria anima, andando contro alle usanze di un periodo storico dove si da maggiore importanza all’aspetto esteriore piuttosto che a quello interiore. Nati nel 2013 dall’incontro tra Donald Carpenter (SubmerseD, Eye Empire) e Peter Klett (Candlebox, Lotus Crush), gli AUF completarono la loro formazione l’anno seguente con l’ingresso in gruppo del batterista autodidatta Tom Costanza (Llamabeats), e poi con l’arrivo permanente del chitarrista Jimmy Kwong e del bassista Stu Cox.
L’autunno 2014 segna l’inizio dei lavori di registrazione del debutto omonimo Apollo Under Fire, svolti ai LaLa Mansion di Tampa, Florida sotto la guida dello stesso Peter Klett. Con la firma del contratto con la EMP Management di David Ellefson (Megadeth) e Thom Hazaert, dal 26 agosto 2016 il panorama rock melodico può finalmente godere di una produzione soft e delicata di grandissima fattura, che affonda le sue radici nella tradizione musicale statunitense (non mancano qua e la quelle tonalità di derivazione alternative e country tipiche di quelle terre) ma che guarda allo stesso tempo alla maggiore melodicità europea.
Qui, la prima cosa a colpire l’ascoltatore è la capacità innata di Donald Carpenter di trasmettere le emozioni delle liriche ispirate attraverso una timbrica ariosa, sognante, splendidmante intonata, che sa tanto di moderno, quanto di antico. Al suo fianco, il supporto corale di Peter Klett è fondamentale, e le sue variopinte chitarre (ben accompagnate dal ritmico Jimmy Kwong) alternano con grande stile e qualità momenti acustici ed elettrici, tra arpeggi delicati e riff più mascolini sempre ampiamente melodici. Ottimo anche il drumming preciso ed intenso di Tom Costanza, con il basso di Stu Cox esaltato poi nel groove da una produzione nitida e cristallina, a cinque stelle.
Guardando infine al songwriting, colpisce in questo senso la indubbia varietà sonora, che si abbina a una coesione sostanziale tra le parti. Segno questo che il lungo rodaggio alle spalle dell’opera ha giovato allo spirito di gruppo e dato i suoi frutti all’interno di nove canzoni tutte parimenti efficaci nel trasmettere la passione e il feeling ricercato. Si parte con la superba Wings, sognante e capace di ricordare il Chris Cornell solista di Higher Truth, e poi via con la leggera Gotta Believe, primo singolo del disco (la potete ascoltare a margine) che ben esemplifica il sound soft, arioso e molto musicale della band. Di spessore anche When It Rains, che ha come protagonista la sua voce vissuta e ricca di sfumature di Carpenter, e se con la bella ballad Inside You il disco sembra rallentare il suo avanzare, ecco che Refuse tira una sterzata netta verso l’hard rock alternativo e commerciale americano dei Nickelback o dei 3 Doors Down, venendo bissata poi da una One Track Mind ancora dominata dalle chitarre. Wait è invece un’altra produzione leggera, con un ampio uso di chitarra acustica, che mette in risalto la voce del frontman al pari di una Feel Your Love da brividi, toccante e commovente. Infine, cala il sipario Weightless, evidenziando ancora il tocco particolare di questo gruppo statunitense di certo avvenire che, nei 38 minuti di musica messi oggi a nostra disposizione, è stato in grando di toccare veramente un po’ più in la del cuore.
IN CONCLUSIONE
E’ un debutto davvero sorprendente quello degli Apollo Under Fire! Il trio Carpenter-Klett-Costanza si produce qui in un songwriting curato e vario, dominato dai sentimenti, che si esprime al meglio nelle note e nei bellissimi testi di questa musica e che non lascia scampo agli appassionati. E’ un must buy.
Sinceramente uno dei migliori esordi di questo 2016.
25 Agosto 2016 21 Commenti Iacopo Mezzano
genere: AOR
anno: 2016
etichetta: Escape Music
Dopo lo splendido disco di debutto 7 (2014), tutti ci aspettavamo un ritorno discografico in grande stile dei Seven, gruppo AOR di provenienza inglese (di Bournemouth) ma per metà di origini sudafricane.
Proprio sulle ali del successo dell’esordio, il leader del progetto Mick Devine ha deciso di lavorare oggi a del nuovo materiale discografico, avvalendosi del supporto compositivo di Lars Chriss, Fredrik Bergh, Andy Loos, Kay Backlund e Jeff Paris. Così, se il precedente 7 era sostanzialmente una raccolta di materiale composto nei lontani anni’80, questo nuovo Shattered (in uscita il 23 settembre 2016 per Escape Music) vede i Seven all’opera su undici, riusciti, brani inediti che si ispirano ancora una volta all’operato di band come Foreigner, Journey, Survivor e compagnia bella.
Una collezione di canzoni catchy e di grande atmosfera, ricche di melodie memorabili ed ariose che sicuramente non passeranno inosservate dagli amanti del sound più retrò del genere rock melodico: ecco che cosa è questo Shattered! Un disco dove la vocalità di Devine si evidenzia ancora come la protagonista assoluta dell’opera e dove la timbrica particolare di questo cantante offre al disco una tonalità moderna che ben si sposa con questo sound vintage e con le liriche basate sull’attualità e sull’osservazione del mondo e sulla società che ci circondano. Notevole poi il talento di Lars Chriss alla produzione e agli strumenti, che permette all’album di godere di ottime basi musicali che intrecciano con grande fantasia chitarre dal riffing rock con un vario tappeto di tastiere e un drumming roboante e solido. Leggermente meno ispirato rispetto al debutto è invece il songwriting che, al di là di alcuni episodi davvero magistrali (di cui diremo tra poche righe), cala di almeno un punto percentuale la brillantezza dimostrata dal suo predecessore, pur risultando a conti fatti al di sopra della media generale delle uscite moderne.
Ecco allora che l’opener Light Of 1000 Eyes, pur risultando riuscita nelle atmosfere e negli arrangiamenti, non regge il botto di una Shoot To Kill che aveva sbalardito subito tutti al pronti-via del debutto. Meglio sicuramente una A Better Life più raffinata e in stile Lionville (notate qualche assonanza?) che si fonda solida sul grande groove ritmico e sui bei ingressi di tastiere, venendo comunque superata da Fight, vera prima hit del disco con il suo ritornello semplice ma da cantare a squarciagola al fianco del bravo Devine. Interessantissima anche la title track Shattered, una mid-tempo calda di feeling e sentimento che esplode verso l’alto in un refrain che sembra realmente rubato agli anni d’oro del genere AOR. Energica e con ottime chitarre, ma un po’ ripetitiva, è invece quella Live This Life che, con una Pieces Of You sottotono (addirittura scimmiotta il passaggio principale di un brano presente nell’esordio), soffoca un po’ il tratto centrale del platter.
Fortunatamente ci pensa la notturna Broken Dream a rilazare (e tanto!) il tiro del disco, con alcune atmosfere al neon che si evidenziano tra i top di questa release. Molto bene anche le tastiere e il ritmo di High Hopes, ma è dietro al titolo di I Needed Time che si nasconde la migliore canzone del lotto, per una composizione ancora una volta notturna e ottantiana che apre a un ritornello indimeticabile, semplicemente uno dei migliori ascoltabili in questo 2016. Non delude neppure il finale, con la bella Taking Over che anticipa la sensazionale Last Illusion, una traccia dal mood molto originale e dallo stile inedito, ricco di effetti, che sicuramente non mancherà di trovare i giusti apprezzamenti. Siglando un altro apice compositivo dell’album che nasconde e ci fa dimenticare quei (comunque pochi) cali di idee che hanno reso un po’ più sofferto l’ascolto del platter nel suo tratto centrale.
IN CONCLUSIONE
I Seven si riconfermano in grande spolvero anche con il loro secondo album Shattered, varando di fatto la prima raccolta di brani inediti dai lontani anni della loro fondazione. Certo, il debutto omonimo del 2014 forse aveva un sapore diverso e un’emozione più viva al suo interno, ma è impossibile definirsi delusi da questa nuova pubblicazione che ci fa rivivere ancora i fasti indimenticati dei mitici ’80s.
Amanti del suono vintage del rock melodico, non fatevi sfuggire una pubblicazione che certamente risalterà tra le classifiche di preferenze del 2016. Se vi è piaciuto il debutto, procedente tranquilli con l’acquisto a scatola chiusa!
20 Agosto 2016 25 Commenti Denis Abello
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Rock Candy Records
Avvicinarsi ad una recensione di un album di 15 pezzi è qualcosa che solitamente spaventa un recensore, o almeno spaventa me personalmente! Perchè spesso e volentieri in un album infarcito di pezzi il rischio è che sia prevalsa la “quantità” a scapito della “qualità“.
Tiriamo un bel sospiro di sollievo, perchè quello che regalano i giovanissimi Americani Tempt con questo Runaway sono 15 pezzi (o meglio 14 più un mix alternativo del pezzo Aamina) di puro melodic hard rock che in modo naturale riporta alla mente gli anni’80 gloriosi di band del genere come Van Halen, Motley Crue, Winger, White Lion e Skid Row.
Runaway è la prima opera della band e il primo disco di materiale inedito che vede la luce per la Rock Candy Records, etichetta conosciuta dagli amanti del genere per le sue ristampe. Giovanissimi, come dicevamo sopra, Zach Allen (voce), Harrison Marcello (chitarre), Nicholas Burrows (batteria) e Max McDonald (basso) possono contare in realtà su un quinto membro “occulto”… ovvero il produttore Michael Wagener (Skid Row, Mötley Crüe, Dokken, Alice Cooper) dietro al mixer!
18 Agosto 2016 3 Commenti Matteo Trevisini
genere: Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Spitfire Music / SPV
Arrivati a questo punto inizia il difficile…dopo la botta improvvisa (…e imprevista!) di popolarità e consensi giunti l’anno scorso con il loro secondo album “Revoluciòn” (qui la recensione), senza ombra di dubbio uno dei migliori dischi usciti nell’anno del signore 2015 in ambito classic rock i Dead Daisies si sono fermati al termine della montagna russa di tour in giro per il mondo, tra festival e decine di date nei club. Persi ad inizio anno i due “gunners” Richard Fortus e Dizzy Reed, chitarrista e tastierista/organista, per un attimo si sono trovati probabilmente a boccheggiare… trovata una stabilità di line-up, scritte le canzoni giuste e trovata la corretta alchimia tra i musicisti coinvolti ora se ne vanno due colonne fondamentali delle margherite morte… che si fa ora ???? John Corabi (Mötley Crüe, Union, The Scream), David Lowy (Red Phoenix, Mink), Marco Mendoza (Thin Lizzy, Whitesnake) e Brian Tichy (Pride & Glory, Slash’s Snakepit, Ozzy Osbourne, Lynch Mob, Foreigner) non si sono persi di sicuro d’animo e si sono rimboccati le maniche avendo l’onore di dare il benvenuto tra i propri ranghi niente poco di meno che Dough Aldrich (House of Lords, Whitesnake, Dio), uno che negli anni ha dimostrato che ogni canzone che viene baciata (…o graffiata!) dalla sua Gibson si trasforma in oro!
12 Agosto 2016 16 Commenti Denis Abello
genere: AOR
anno: 2016
etichetta: Frontiers Music
Michael Palace è l’incarnazione del nuovo e vecchio stereotipo di AOR man anni ’80… basta vederlo!
Cioè, uno che per genetica sembra uscito da una vecchia pellicola americana anni’80 ma che sulla carta d’identità porta stampata la bandiera Svedese, patria di alcune delle migliori nuove leve del genere… beh, ditemi voi se vi serve altro!
Messa insieme una band che vede, oltre allo stesso Michael alla voce e chitarra, nomi già apprezzati in altre giovani band come Soufian Ma’Aoui al basso (Houston), Marcus Johansson alla batteria (Reach, Adrenaline Rush) e alla chitarra il talentuoso Rick Digorio (Big Time); dato al tutto il poco originale, ma molto anni ’80, nome di PALACE e con un fresco contratto per la nostrana Frontiers Music (con cui Michale ha già collaborato come songwriter in progetti quali Find Me, First Signal ed il prossimo Cry of Dawn) ecco che il gruppo è pronto quindi a portare in scena il suo AOR cromato e patinato di luccicanti anni’80. Il che si traduce in un sacco di tastiere, soffusi tocchi di chitarra alternati a vibranti assoli il tutto condito da una voce Svedese finalmente diversa dal coro!
03 Agosto 2016 0 Commenti Denis Abello
genere: Melodic Rock / Country Rock
anno: 2016
etichetta: Melodic Rock Records
Hum… la press ufficiale parla di un album sullo stile di John Kilzer, Henry Lee Summer e Little America. Le coordinate stilistiche parlerebbero quindi di un rock di matrice assolutamente americana velato qua e la di sfumature al limite del country, e si, li andiamo a parare!
Sbaglierò, ma se dovessi azzardare dei paragoni, questo Believe, secondo album dei Jaded Past (il primo pubblicato in maniera indipendente nel 2012) mi ricorda uno stile alla Bon Jovi molto melodic american rock con un tocco di country rock (ma non al livello di Lost Highway 😀 ).
Sarà poi anche che il buon George Becker, mente, fautore e voce di questi Jaded Past ha un non so che nella sua vocalità che ricorda un incrocio tra l’attuale Jon Bon Jovi (ma con una tonalità più “sporca”) e Bret Michaels dei Poison, con le dovute distanze da tutti e due, ma direi che si, proprio su quello stile andiamo a ricadere.
Bene, abbiamo quindi dato un suo contorno sonoro a questo Believe ed ora, date le premesse interessanti, non ci resta che dare uno sguardo ai pezzi inclusi nel lotto…
31 Luglio 2016 2 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Blues Rock / Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Provogue Records
Il 2016 si fa forza anche dell’atteso ritorno della formazione canadese blues rock dei No Sinner, nei negozi con il suo secondo album in studio, a titolo Old Habits Die Hard, uscito in maggio su Provogue Records.
Il gruppo, rappresentato dalla cantante ventiseienne Colleen Rennison (fateci caso, No Sinner è proprio il cognome della vocalist letto al contrario!) bissa i fasti del suo bellissimo esordio di qualche anno fa, producendosi in un altro platter di grande caratura e facilmente citabile, forse assieme al titolo dei Blues Pills, tra i migliori di questo 2016 all’interno del panorama di revival blues rock e hard rock anni’70 odierno. Diversamente dagli svedesi però, i No Sinner compongono canzoni più leggere e commerciali, meno ostiche per chi ascolta generi più radiofonici del classico blues rock, e quindi più immediate e fruibili. Merito questo della vocalità eccelsa della Rennison, ma anche di un songwriting personale e congeniato per dare ampio risalto alla melodia, al di là del suo avanzare ritmico lento, carico di groove e tipicamente bluesy. Influenze pop e southern sono qui all’ordine del giorno, e le ritroviamo qua e là nel riffing compatto del bravo Eric Campbell, senza disturbare e anzi rendendo più vario l’ascolto. Infine anche la produzione, leggera e nitida, permette al disco di avvicinarsi più alla pulizia sonora moderna e radio-friendly, che alla sporcizia ricercata del blues/hard rock settantiano, rendendo l’insieme più vivo e (al di là dello stile d’origine) contemporaneo.
30 Luglio 2016 4 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Blues Rock
anno: 2016
etichetta: Nuclear Blast
Dopo l’interessante esordio omonimo di due anni fa, gli svedesi Blues Pills tornano il prossimo 5 agosto via Nuclear Blast con il loro nuovo album, il secondo della loro carriera, intitolato Lady In Gold.
Prodotto ancora una volta da un ottimo Don Alsterberg (Graveyard, Division Of Laura Lee, José González, Jerry Williams) che lavora a suoni nitidi, caldi e avvolgenti, in puro stile classico, il disco può essere visto come un netto passo avanti rispetto a un esordio che aveva sì ampiamente convinto, ma anche lasciato perplessità circa il suo sound, sotto tutti gli aspetti troppo derivativo e clone delle grandi realtà rock/blues degli anni ’70. Oggi la band si migliora e da vita a un platter non ancora perfetto ma sicuramente più originale e personale, più vario, capace di mettere meglio in mostra le qualità tecnico-compositive di un gruppo che, è oggettivo, non ha praticamente eguali nella scena emergente internazionale.
26 Luglio 2016 0 Commenti Denis Abello
genere: Hard Rock
anno: 2015
etichetta: Atomic Stuff
L’Italia ormai ci sta abituando bene, band sempre più preparate ed Artisti sempre più di Talento che sfornano lavori che ormai non hanno più paura del confronto a livello internazionale. La fame di giovani promesse è però solo agli inizi e nella mischia si buttano anche i pugliesi Mad Hornet. Nati nel 2006 dalla mente del chitarrista Ken Lance (Salvatore Destratis, chitarra), ma dopo un album autoprodotto (Hot Tarots) la band si ferma nel 2009.
Il Moniker Mad Hornet riprenderà vita nel 2013 con l’inserimento in formazione dell’energico basso di El Piamba (Alessandro Saracino) che precedentemente aveva già collaborato con Mic Martini (Massimo Maiorano, voce) e Beats Frank (Francesco Duggento, batteria). Con questa formazione riprende l’attività live della band e contestualmente la lavorazione di un nuovo album che prenderà il nome di Would You Like Something Fresh? e che catturerà alla fine del 2015 l’attenzione dell’Atomic Stuff, piccola etichetta bresciana da sempre molto attenta all’underground italiano legato all’hard e sleazy rock!