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31 Ottobre 2016 4 Commenti Nico D'andrea
genere: Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Frontiers
Glenn Hughes…un nome che non ha certo bisogno di presentazioni, per chi frequenta le pagine di questa o di altre riviste e portali dedicati alla musica più bella del mondo.
“The Voice Of Rock” può infatti vantare nel suo pesante curriculum una continuità qualitativa che ha pochi eguali, considerata la corposa produzione discografica in oltre 40 anni di carriera.
Dai tre leggendari album nelle formazioni Mark III e Mark IV dei Deep Purple, passando attraverso una rigenerata carriera solista a metà anni ’90, per arrivare in tempi più recenti all’impressionante trittico con il supergruppo Black Country Communion.
Le due ultime apparizioni del cantante/bassista di Cannock , avevano però lasciato l’amaro in bocca a più di qualche fan.
Troppo frenetico ed arrabbiato (dopo lo scioglimento forzato dei BCC) nei chiassosi California Breed, troppo lineare nel compitino svolto su commessa per il progetto Voodoo Hill.
Ecco allora che il saggio Glenn (a distanza di ben 8 anni) decide opportunamente di concentrarsi su un disco solista, ritornando tra noi con un’ispirazione, una lucidità e una personalità conosciuta solo ai grandissimi.
Non sbaglia niente Glenn, a partire dalla scelta come co-produttore di Soren Andersen (già apprezzato per il suo splendido lavoro nel nuovo Tygers Of Pan Tang).
Quello che colpisce da subito di questo Resonate è infatti il mix potente, cristallino e perfettamente bilanciato studiato dal chitarrista/produttore danese.
L’opener Heavy è pulsante, potente e si muove con decisione sulla spinta dell’Hammond suonato dal misconosciuto Lachy Doley.
La ricerca di qualche effetto più moderno giova inoltre parecchio alla riuscita del brano.
Come capirete più avanti, Hughes pesca bene anche qui. Doley sarà sicuramente un nome nuovo anche per gli ascoltatori più attenti,
in realtà l’organista australiano è una sorta di nuovo Messia per i devoti al culto dell’organo Hammond.
My Town è un’altro pezzo tirato, giocato su vorticosi giri basso e le chitarre down-tuned di Soren Andersen ma l’inimitabile timbro di Glenn smorza la tensione in un refrain che rimane già in testa al primo ascolto.
Con Flow, il passo si fa pesante e rallentato. Ipnotico nel suo incedere fino ad esplodere nel primo solo monster di Andersen.
Let It Shine porta uno sprazzo di luce, lungo il tunnel magnificamente oscuro in cui il disco sembra infilarsi. Un classico in stile Hughes.
Steady ci riporta ad un’andatura più sostenuta, per rallentare solo nel refrain sognante ancora tipicamente Glenn Hughes.
È qui che sale il cattedra Lachy Doley. Dalla magnetica intro allo sferzante lead di Hammond che si incastra a meraviglia tra un’altro solo di basso ed uno di chitarra.
Insomma…oltre alle indiscutibili capacità tecniche dei musicisti, sarà anche la variegata struttura dei brani a tenervi appiccicati agli speakers.
Resonate è un disco enorme nel suono, che cresce brano dopo brano quasi da far paura.
Come nella plumbea God Of Money, dove il basso di Glenn sembra arrivare direttamente dall’Inferno, puntellato da un riff capace di tagliare il quarzo.
Il ritornello è tra i più riusciti del disco ma il pezzo tocca il suo apice negli assoli di un’indemoniato Lachy Doley , dove anche la chitarra di Soren Andersen sembra immersa nel fuoco.
La seconda parte del disco registra un leggero calo, con pezzi meno ispirati come How Long e Stumble and Go ma resta in grado di riservarci ancora qualche bella sorpresa.
È il momento del miglior Hughes alla voce, accompagnato dal piano elettrico Clavinet di Doley. When I Fall è proprio la ballata Soul-Blues che aspettavamo. Avrei preferito un chorus più audace ma l’interpretazione dell’ex Purple, in frangenti come questo, non lascia spazio a pignolerie.
Si pesca invece dal pedigree Funky-Rock nella scoppiettante Landmines, con un trascinante solo in talk-box di Andersen a fare la differenza.
La chiusura del disco è riservata ad un’altra piece di rilievo : Long Time Gone.
Suggestiva nell’intro di chitarra acustica e voce, per cambiare poi pelle e tempo fino ad un bridge stile Motown.
CONCLUSIONE
Con Resonate, la leggenda Glenn Hughes sceglie di non crogiolarsi in un facile ripescaggio di quei contenuti che lo hanno reso grande in passato.
Opta per una produzione “moderna” con suoni all’avanguardia, puntando su un chitarrista e produttore come Soren Andersen (a mio avviso il Top-Producer del momento), senza rinunciare agli stilemi dell’Hard Rock più classico, grazie all’innesto di un vero e proprio stregone dell’organo Hammond come Lachy Doley.
Il risultato è un lavoro vario, originale anche nella struttura delle canzoni.
Un disco che “risuonerà” a lungo nei vostri lettori e che difficilmente resterà fuori dal podio per i tre migliori dischi del 2016.
27 Ottobre 2016 0 Commenti Matteo Trevisini
genere: Sleaze Rock / Glam Rock
anno: 2016
etichetta: Metalapolis Records
Chi sono gli Stop Stop ? …sembrano delle mosche bianche solo a guardarli in faccia ma invece rappresentano la globalizzazione consolidata anche nel mondo del rock da ormai parecchi anni. Allora diventa praticamente normale che una band usi un monicker cosi bizzarro, vada in giro a suonare glam/sleaze nel 2016 con il leader, bassista e cantante, Jacob A.M. truccato come un mimo pazzo nato da una copula tra un pagliaccio psicotico ed una prostituta del ‘700 francese, parrucca compresa…
E’ normale anche che suonino in trio e che provengano dalla calda ed “esotica” Spagna, patria sia del leader sopra citato sia del chitarrista Vega, ma può capitare anche che il drummer Danny Stix provenga dalla Bulgaria. Insomma, come avrete capito negli spagnoli (…ma inglesi d’adozione) Stop Stop non c’è nulla di lineare e questo Barceloningham, già dal titolo, prosegue la tradizione “freaky” del terzetto. Questa loro ultima fatica è il terzo capitolo del loro party personale che dura ormai dal primo album Unlimited del 2010 (…anche qua, andatevi a dare un’occhiata alla copertina del debut e capirete perché di normale questi tre hanno poco o nulla!). Centinaia e centinaia di concerti in ogni buco tra Europa e Stati Uniti ed un secondo disco come Join the Party del 2014 che fa esplodere tutto il talento sghembo del trio nello scrivere canzoni ad alto tasso di orecchiabilità pur essendo dure ed incazzate come una martellata nelle gengive.
La voce sguaiata di Jacob A.M. viene spalmata ben bene su una manciata di canzoni irriverenti ma divertenti, pesanti ma solari come il vecchio e caro glam metal deve essere ma soprattutto è la dimostrazione sacrosanta del talento nella scrittura di ritornelli virali come un’epidemia di carnevale improvvisa.
Nonostante la bontà dell’album in questione le voci degli esperti assicurano che dal vivo sono ancora più coinvolgenti, imbastendo un gran galà del rock’n roll anche nel più sordido dei pub inglesi davanti ad una decina di curiosi sbadiglianti… beh, chi era presente ed ha assistito, assicura che quei dieci siano tornati a casa con una copia del cd in una mano ed un sorriso smagliante sulla faccia. Ora, dopo esperienze anche importanti in festival come il Glastonbury e perfino il rinomato Rocklahoma negli Stati Uniti, gli Stop Stop tornano con il coltello tra i denti ed il terzo full lenght in saccoccia. Barceloningham, prodotto da Jacob Hansen (tra i tanti Volbeat e Pretty Maids) vuole fin da subito alzare l’asticella ancora più in alto….
Chiariamo subito, non ci sono riusciti ma non per questo vuol dire che mi accingerò a recensire un album brutto… anzi! Pur essendo un album ricco di idee e di ottime melodie è semplicemente inferiore al disco precedente.
25 Ottobre 2016 24 Commenti Iacopo Mezzano
genere: AOR
anno: 2016
etichetta: Frontiers Music
30 anni dopo la sua pubblicazione, il leggendario disco di debutto degli inglesi FM, l’immortale Indiscreet, è stato completamente ri-registrato dalla band sfruttando la sua nuova formazione e le nuove tecniche di registrazione.
Il 4 novembre 2016 diventa allora la data scelta dalla label del gruppo, la Frontiers Music, per dare una seconda giovinezza a questo classico della discografia AOR internazionale. Il risultato, lo dicono anche la perole dei tre membri originali ancora presenti nella line up (il cantante e chitarrista ritmico Steve Overland, il bassista Merv Goldsworthy e il batterista Pete Jupp), non vuole essere una semplice riproposizione del sound di quei tempi ormai lontani, ma una totale reinterpretazione dei pezzi da parte di una nuova formazione, completata dai bravi Jem Davis alle tastiere e dal chitarrista solista Jim Kirkpatrick, che si è ritorvata in studio e in concerto sempre più coesa e compatta. E per questo pronta a una release come questa.
In tutta onestà diciamocelo, tra tutti i grandissimi dischi pubblicati dagli FM, forse proprio Indiscreet era l’unico a poter valere una idea come questa senza cadere nei soliti discorsi de le riproposizioni dei classici fatte apposta per guadagnarci su ancora qualche quattrino che i maligni hanno spesso affibbiato a molte formazioni storiche che si sono gettate in imprese come queste. E dico ciò perchè Indiscreet suona come l’unico platter degli inglesi a soffrire il cambio dei tempi. Mi spiego meglio.
Prendete il disco in questione e il seguente Tough It Out (1989). E’ chiaro, anche dopo un primo ascolto, come tra i due sia il secondo album a godere di suoni più freschi e dinamici, e volendo più attuali e moderni. Indiscreet, che non fraintendetemi suona magnificamente, ha però nel suo sound una patina di antico che lo rende sì differente e unico, ma anche troppo vintage e grezzo per poter essere gustato a pieno dai più giovani o da chi è più abituato alle produzioni di oggi.
Così, prodotto oggi dagli FM stessi e registrato ai Tremolo e Coal House Studios di Staffordshire (con il mix affidato a Jeff Knowler), Indiscreet 30 elimina totalmente quella patina di polvere dai suoni dell’originale, andando però a perdere qualcosa (ma era lecito aspettarselo) della sua corposità sonora e del suo groove antico. Di contro, è però incredibile constatare come Steve Overland sappia cantare esattamente allo stesso livello di allora (e anzi, forse anche in modo più tecnico e preciso!), regalando una nuova prova di indiscussa qualità e classe. Eccellente anche il lavoro di Merv Goldsworthy e di Pete Jupp, che ricreano un groove ritmico molto vicino all’originale, con Jem Davis e Jim Kirkpatrick che sicuramente non sfigurano rispetto a Chris Overland e Didge Digital, ma in tutta onestà non riescono del tutto a eguagliare il tocco molto particolare che i componenti fondatori avevano donato al disco negli anni ’80.
Guardando infine la tracklist, si resta seriamente impressionati dalla resa di canzoni come That Girl, Other Side Of Midnight, I Belong To The Night e Frozen Heart, che non a caso sono quelle che più spesso la band ripropone al pubblico in sede live, e che appaiono ora diverse e svecchiate, ma comunque molto fedeli alle originali. Nelle bonus track, spazio a una ottima versione dell’immancabile Let Love Be The Leader, mentre l’inedita Running On Empty – caspita! – sembra davvero rubata a quegli anni d’oro che erano gli anni ’80. Motivano l’acquisto anche le altre bonus Rainbow’s End, Shot In The Dark, Bad That’s Good In You e Love And Hate, che qua e là avevamo già avuto modo di ascoltare in passato, ed eccelle anche la avvolgente versione acustica di una That Girl che si candida a tutti gli effetti a traccia simbolo di questa ottima rivisitazione di quell’Indiscreet che nel 1986 diede inizio alla leggenda degli FM, e di Steve Overland.
IN CONCLUSIONE
Gli FM non sbagliano un colpo e nella loro seconda giovinezza riescono a gettarsi in una operazione rischiosa come quella di risuonare su disco un loro classico uscendone assolutamente a testa alta, e a tutti gli effetti vincitori.
Toglietevi dalla mente gli stupidi e sterili paragoni con il passato e godetevi a pieno la musica contenuta in questa nuova registrazione. Solo così potete immergervi in un ascolto ancora una volta di un altro livello, ad opera di uno dei pochi gruppi storici in grado di placare, oggi, le nostre angoscianti nostaglie ottantiane. Gli FM!
23 Ottobre 2016 22 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Hard Rock / Classic Rock
anno: 2016
etichetta: Razor & Tie
Taylor Momsen ha 23 anni, e fa terribilmente effetto dover parlare oggi dell’album della sua maturità. A un certo punto ci si rende però conto che la sua band The Pretty Reckless è ormai attiva da quasi un decennio (anno di fondazione 2007), che lei al suo esordio discografico (2010) aveva appena compiuto i 17 anni, e che Who You Selling For (uscito il 21 ottobre per Razor & Tie) è in realtà il suo terzo album in studio, e allora quell’espressione iniziale che poteva sembrare folle, beh, ora inizia ad apparire già un po’ più ragionevole.
Un ascolto al nuovo platter poi, e ogni ombra di dubbio è spazzata via da una prova anni luce superiore ai già incredibilmente alti valori dei dischi precedenti. Se con Light Me Up (2010) la Momsen e compagni facevano i primi passi nel mercato discografico al suono di un alternative metal che aveva punti in comune con l’espressività giovanile e la voglia di ribellione di una Avril Lavigne, e se con l’ultimo bellissimo Going to Hell (2014) il gruppo approfittava della voglia di provocatoria nudità della sua bellissima frontwoman per attirare il pubblico maschile e non solo mentre evolveva ancora il sound verso dimensioni più vicine all’hard rock, oggi con questo nuovo platter la Momsen non ha bisogno di mostrare carni o esporsi con le sue gesta o parole. E ce lo dimostrano subito anche lo scarno e semplicissimo video che ha accompagnato il primo singolo del disco, Take Me Down, o l’essenziale copertina di corredo all’album. No, oggi, anno domini 2016, i The Pretty Reckless vogliono fare una sola cosa: riportare in vita il puro rock ‘n’ roll. E la cosa buffa è che ci riescono.
In Who You Selling For potrete infatti ascoltare Taylor Momsen e il suo fedele chitarrista (e co-autore dei brani) Ben Phillips al lavoro su dodici tracce soldie come la roccia, che ibridano al loro interno lo spirito hard rock (l’opener The Walls Are Closing In / Hangman, il singolo Take Me Down, e Prisoner) e l’anima alternative metal (il riffing heavy di Oh My God o Living in the Storm) da sempre presenti nella testa del gruppo, con uno spirito bluesy (quella Back to the River che non a caso vede la comparsata di Warren Haynes alla chitarra, o Already Dead) e rock classico (The Devil’s Back, il quasi soul di Wild City, o la sensuale e ammaliante traccia finale Mad Love) che fino ad ora era soltanto rimasto qua e là sulla soglia in alcuni brani di Going To Hell. Al punto che, volendo essere proprio attenti ad ogni singolo dettaglio sonoro, possiamo addirittura affermare che la band prova a cimentarsi con qualche spunto folk e country, magari proprio nella title track del disco Who You Selling For (che tanto ricorda il sound tipico di un’artista immenso come Jackson Browne, misto allo spirito più soft e acustico del Bruce Springsteen di Nebraska) o nella acusticità nostalgica di Bedroom Window.
Capirtete allora come questa grande varietà di suoni dia vita a un pacchetto finale di una bellezza unica, merito anche di una produzione calda e antica come non se ne ascoltava da tempo. Con il disco che non teme di necessitare di più ascolti per piacere, oltre che di risultare anacronistico (con quel suo mix di stili che va dagli anni ’60 fino agli anni ’80 del genere rock) ma allo stesso tempo moderno, sfruttando proprio il talento tecnico e compositivio dei suoi interpreti, Taylor Momsen su tutti con quella sua voce sensuale e ammiccante che scioglie il cuore. Dimenticatevi però della ragazzina carina carina, provocante sì ma ancora per certi versi tenera nel suo fare da ribelle adolescente. Addio. Perchè oggi Taylor è una femmina adulta, assetata soltanto di fama, gloria e successo. In breve: di un posto nella storia del rock.
IN CONCLUSIONE
Ho sempre definito la Momsen e i suoi compagni come uno degli ensemble più intelligenti presenti sul mercato discografico moderno. Con Who You Selling For ogni mia predizione è stata avverata e i The Pretty Reckless si avviano definitivamente sul tappeto rosso della fama e del successo internazionale grazie a una strategia di marketing perfetta, che li ha fatti diventare in poco tempo delle star globali nonostante la giovane età dei componenti e i pochi anni di presenza sulle scene.
Il 2016 regala alla musica il primo album monumentale di questa formazione americana. Con la certezza che ascoltaremo ancora tanta altra loro musica di qualità negli anni a venire. Anche perchè il rock ‘n’ roll, beh, è davvero tornato in vita, ed è nelle mani di una bionda e bellissima modella, attrice, ma soprattutto cantante, di soli ventitrè anni d’età.
22 Ottobre 2016 7 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Progressive Rock / Melodic Rock
anno: 2016
etichetta: Kyros Media Group
Quando il rock melodico perde un po’ la rotta e si lascia andare a lunghe sezioni strumentali e a qualche cambio di tempo, ecco allora che si può parlare di un preciso punto di incontro tra il genere il rock progressivo. Si apra perciò il sipario sulla musica magnifica degli inglesi Kyros (ex Synaesthesia), che il 5 novembre pubblicheranno il loro disco di debutto Vox Humana presentando punti in comune sia con la nostra musica che con quella dei miti prog inglesi degli anni ’70.
Il tutto – proseguendo il discorso – in un doppio CD dai suoni decisamente moderni e accattivanti, nitidi e molto commerciali, avvolgenti, che non potranno che colpire l’ascoltatore con la loro indubbia qualità. Se il pacchetto sonoro è di prim’ordine e anche l’artwork appare di certo gusto, non è certo da meno la prova tecnica dei cinque musicisti britannici, con il leader, cantante e tastierista Adam Warne davvero sugli scudi sia nella sua prova vocale (che trova un grande supporto corale, e non solo, dai suoi compagni), che in quella strumentale, eccellente per la varietà sonora che riesce ad esprimere nelle sue divagazioni soliste. Molto bravi davvero anche i due chitarristi Joey Frevola e Sam Higgings, che si dividono la posta in gioco tra intensi assoli e riff moderni di grande melodia, con la sezione ritmica di grande groove dei precisi Peter Episcopo al basso e Robin Johnson alla batteria e alle percussioni a fare da pura colonna spinale alla irrefrenabile voglia di cambiamento ed evoluzione di questa musica.
Peculiarità di questa produzione, lo dicevamo, è il modo in cui questa è capace di unire più generi, ma soprattutto il vecchio e il nuovo della musica contemporanea attraverso un gusto retrò (specie nelle voci) molto marcato, ma anche spunti decisamente attuali nell’utilizzo molto frequente di basi elettroniche e programmate a supporto delle melodie. Questo accade specie nel primo dei due CD contenuti della release, The Creation, che appare decisamente più arioso e semplice all’ascolto per i meno avvezzi ai cambiamenti di tempo tipici del progressive melodico. Non a caso è stato inserito proprio qui il primo, bellissimo, singolo di questa opera, la granitica traccia Cloudburst, immediata e orecchiabilissima, perfetta sintesi degli intenti artistici di questa band. Che, nel secondo disco The Human Voice, scappa via ancora più libera da precise etichettature di genere, aprendo sfiorando il metal nell’opener Mind Electric e proseguendo strumentale per tutta la durata della sensazionale Speak to Me. Per poi lasciarsi di nuovo andare alla melodia e all’ariosità, tra Yes e Marillion, tra Asia e Tesseract, in un puro inno rock dai mille volti e dalle centinaia di differenti emozioni.
IN CONCLUSIONE
Lascia a bocca aperta. Gli oltre ottanta minuti complessivi di musica contenuti nel doppio CD di esordio dei Kyros sono un sfoggio magistrale di bravura e di gusto melodico, in perfetto bilico tra progressive e melodic rock, tra sound classico e modernità.
In questo genere è difficile trovare album che lascino a bocca aperta fin dai primissimi ascolti, entrando nella nostra mente con le loro melodie ariose e decisamente musicali: Vox Humana ce la fa. E per questo merita quantomeno un ascolto. Top!
21 Ottobre 2016 4 Commenti Nico D'andrea
genere: AOR
anno: 2016
etichetta: AOR Heaven
Non avranno molto di che lamentarsi quest’anno i fanatici del puro AOR.
Iniziato in sordina, questo 2016 a metà del suo corso ha iniziato a regalarci dischi destinati a rimanere a lungo nei lettori dei Melodic Rockers più nostalgici.
Gruppi e progetti come Wild Rose, First Signal e sopratutto Palace si sono distinti per il saper riproporre con perizia le sonorità tipiche del filone AOR anni 80.
Sappiamo bene però che i seguaci più integralisti del genere non sono soliti amare questi (presunti) imberbi epigoni, troppo giovani e non del tutto credibili, per dare la dovuta continuità a quanto vissuto nella Golden Era.
Ecco allora che ritorno degli inglesi Angels Or Kings sembra arrivare quanto mai propizio per rimettere le cose a posto.
Fregiati del poco invidiabile titolo di “unsigned band”, questi attempati ragazzetti d’oltremanica sono infatti sfuggiti (proprio a metà/fine anni 80) al destino ed alla fama che hanno reso grandi i loro connazionali FM, Dare e Virginia Wolf.
Destinati all’oblio, senza un contratto e senza una casa discografica,pur avendo respirato a pieni polmoni l’aria rarefatta della storica Oxford Street di Manchester (una sorta di Sunset strip per gli Chic Rockers britannici).
Riformatisi solo qualche anno fà e forti dei consensi ottenuti con il loro debut album Kings Of Nowhere (2014), confermano con questo nuovo Go Ask The Moon la bontà del loro sound AOR assolutamente DOC.
Il flavour tipico del tradizionale AOR britannico si assapora infatti lungo tutta la durata del disco,lasciando solo un retro gusto un po’ amaro per la discutibile qualità di registrazione e mix.
Immagino solo di quali meraviglie avrebbero goduto i nostri timpani, con un suono al livello di quello regalato da Pete Newdeck ai coetanei Blood Red Saints (usciti lo scorso anno su Frontiers) e con i quali gli Angels or Kings condividono similarità non solo territoriali ed anagrafiche.
Poco importa…difficile resistere al passo elegante e disinvolto di On The Corner Of Love And Lost e When The a Heart Is Wrong (quest’ultima da subito nelle top 5 AOR songs di quest’anno), pezzi dove l’influenza della miglior tradizione pop-rock inglese è più che marcata.
Ancient Fires preserva quel mood malinconico tutto albionico, grazie anche alla struggente interpretazione del vocalist Baz Jackson.
Convincente per intensità e forza espressiva, Jackson pilota con decisione ogni singolo pezzo del platter, tanto da farsi perdonare una somiglianza timbrica un pochino eccessiva con il primo Harry Hess.
The Nights Don’t Count, Breath e Waiting For The Thunder sono altri finissimi intarsi nel telaio di un lavoro spesso dominato da raffinate keys e melodie d’altri tempi.
IN CONCLUSIONE
Per chi ha apprezzato il precedente Kings Of Nowhere, questo come-back degli Angels Or Kings è un must assoluto.
Una produzione adeguata allo standard di buona parte dei brani proposti, avrebbe giovato non poco all valutazione finale.
L’album scorre comunque con disinvoltura e l’atmosfera che si respira è quella giusta.
Nulla di nuovo…nessun capolavoro ma, magari per una volta, si può anche non chiedere la luna.
17 Ottobre 2016 6 Commenti Lorenzo Pietra
genere: Hard Rock
anno: 2016
etichetta: AoR Heaven
Ritornano i Bulletrain, gruppo hard rock proveniente dalla profilica Svezia al suo secondo full lenght intitolato What You Fear Most. Il disco è il proseguimento naturale di Start Talking (datato 2014) ma il sound, pur confermando le sue radici hard rock, vira verso uno sleaze rock stradaiolo e più diretto. Confermato invece il gruppo con Sebastian Sundberg alla voce, Robin Bengtsson e Mattias Persson alle chitarre, Niklas Mansson al basso e Jonas Tillheden alle pelli. L’album è prodotto dal “guru” Tobias Lindell (H.e.a.t.) e come anticipato, ha un sound più stradaiolo, pur non dimenticando il classico rock melodico creando così un mix perfetto tra tre gruppi ben conosciuto tra i fan dello sleaze: Crashdiet ,Crazy Lixx e un pizzico di Hardcore Superstar. Rispetto a questi gruppi manca ancora qualcosa nel songwriting, ma come produzione e suoni il livello è tra i migliori in circolazione.
Le canzoni sono tutte di buon livello, a partire dall’iniziale Memory Lane col suo riff melodico ma diretto e tagliente e con un assolo travolgente; Love Lies , col suo ritornello che si stampa da subito in testa, ricorda il miglior “hair metal” degli anni ottanta. Una canzone trascinante che non esiterete a cantare a squarciagola. Il primo singolo, Fear, è un rock melodico con un refrain azzeccato. Non mancano i momenti più AoR con le bellissime We Salute You , quasi un tributo ai Def Leppard e Wet, Tired & Lonely perfetto connubio tra sound moderno e il classico AoR. L’hard rock più sanguigno si sprigiona nei riff quasi metal di Fight With Me, dove Sundberg raschia la sua voce dal fondo del barile di whisky, mentre il momento ballad è dato da Old Lighthouse; il suo arpeggio iniziale fa sognare e la chitarra acustica scandisce il ritmo; a metà canzone si cambia ritmo e un assolo melodico e molto tecnico crea un’atmosfera unica. Grande canzone. Da menzionare anche episodi minori dove le canzoni non riescono a rimanere impresse, come Can’t Get Away e Feed The Fire, che scivolano senza lasciare il segno.
IN CONCLUSIONE:
Gradito ritorno dei Bulletrain. Un buon disco a cui manca ancora un songwriting che può portare i ragazzi svedesi ad alti livelli. Ottima produzione e suoni perfetti non bastano.
13 Ottobre 2016 21 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Frontiers Music
Quattro anni dopo l’uscita del buon comeback Dig In Deep (2012), gli hard rockers statunitensi Tyketto ritornano nei negozi via Frontiers Music con Reach, il loro nuovo disco registrato ai leggendari Rockfield Studios nel Galles (Queen, Rush, Oasis).
Sfruttando nuove energie e un rinnovato spirito di insieme, la band capitanata dai componenti storici Danny Vaughn e Michael Clayton Arbeeny si avvale delle forze dei nuovi Chris Green (chitarre e cori), Ged Rylands (tastiere e cori) e Chris Childs (basso) per dare vita a un platter fedele alla tradizione hard rock melodica del gruppo (sempre pronta a sfociare nei territori hair metal), ma altresì ricco di quella freschezza compositiva che nel precedente Dig In Deep avevamo ascoltato soltanto a sprazzi. Certo, la mancanza in line-up del mitico Brooke St. James poteva creare qualche problema alla band, ma ascoltate le prime due o tre tracce – fidatevi – ogni sorta di nostalgia è spazzata via dalla prova di un Chris Green davvero in gradissimo spolvero, autore di una serie di riff hard rock da antologia, ruvidi ma melodici, che piazzano l’album – quantomeno per la sua qualità tecnico-strumentale – direttamente dietro i due leggendari platter d’esordio degli anni ’90. Il che non è poco, visto lo smisurato (e giusto) amore dei fans del genere per quelle due immense release.
Così, al secondo tentativo, i Tyketto ci spiegano definitivamente il perchè del loro ritorno alle scene. Ognuna delle dodici tracce che strutturano questa pubblicazione riesce infatti ad avere una storia da raccontare e un motivo da lasciare impresso nella mente, vuoi perchè Danny Vaughn continua a cantare come solo in pochi riescono a fare, vuoi perchè la prova strumetnale dei suoi compagni raggiunge non più solo di rado l’eccellenza, vuoi perchè la produzione in studio si avvale finalmente di suoni degni di questo nome, che permettono ad ogni nota di amalgamarsi perfettamente alle altre, in un tutt’uno caldo e avvolgente che ci riporta indietro nel tempo sulle ali della nostaglia.
E allora gustiamoci la bella atmosfera hard rock melodica delle title track di apertura e singolo Reach, seguita subito dopo dalle ben più stradaiole e sanguigne, forse grezze, Big Money e Kick Like A Mule, che ci gettano nella polvere per permetterci di assaporare meglio il gusto melodico della bellissima mid-tempo Circle The Wagons, per il sottoscritto pura hit di questo platter. Coinvolgente, emotiva, e solida come una roccia.
Sale poi in cattedra il chitarrista Green nella rocckeggiante I Need It Now, stupendoci ancora nella frizzante Tearing Down The Sky (ottimo il refrain), giungendo fino alla tipica power ballad strappalacrime che ogni pubblicazione del genere deve possedere, ovvero la ottima e semi-acustica Letting Go. Tocca allora a The Fastest Man Alive rilazare il tiro dell’opera con un hard rock dalle tinte southern possente e ritmato, di grande groove e immediato impatto, seguito da una Remember My Name eccellente nella musicalità (che strofe, e che cori!!) e da una Sparks Will Fly che ci fa salire forte la voglia di dimenarci al battito del suo ritmo.
E il sipario si chiude prima con la nostalgica ballad sui tempi passati Scream, che scioglierà in pianto i più sensibili con il suo efficace ritornello arioso, e infine con The Run, altra gemma del platter, un crescendo di energia che parte prima acustico e intimo, e si fa poi carico di emozione pulsante nel colpo secco sulle pelli e nel volteggiare della sua chitarra, in un perfetto commiato di un disco da incorniciare. Davvero.
IN CONCLUSIONE
Ecco la seconda giovinezza dei Tyketto! La raffinatezza delle melodie, la grande prova tecnica dei componenti, la solidità compositiva, l’eccellente prova di Vaughn alla voce, permettono agli americani di coprire finalmente quel posto vacante sul podio delle loro pubblicazioni: il terzo posto in classifica è da oggi tutto di Reach!
E’ questa la migliore uscita hard rock melodica del 2016? Aspettiamo i prossimi mesi, ma probabilmente la risposta è sì. Un album da avere, assolutamente.
11 Ottobre 2016 0 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Rock / Hard Rock / Prog Rock
anno: 2016
etichetta: Aluca Music
Ottiene la ristampa, nel 2016 via Aluca Music, anche Strange Hobby, il secondo disco solista del polistrumentista olandese Arjen Anthony Lucassen, pubblicato nel 1996 e andato in breve tempo fuori stampa.
Lucassen, storico membro di band quali Ayreon, The Gentle Storm, Guilt Machine, Star One, Stream of Passion, Vengeance, etc, ri-edita oggi il suo secondogenito platter fornendo al fan la possibilità di ascoltare ben quattro bonus track, una delle quali (Pretty Girls) inedita e scritta dal palmo di questo artista. Il resto dell’opera, lo saprà bene chi ha già in collezione il disco, non è altro che una raccolta di cover reinterpretate dall’olandese e scelte nel suo bagaglio di influenze fedeli al sound rock classico o psichedelico. Originariamente scritto come momento di svago durante le impegnative composizioni del nuovo album degli Ayreon, Strange Hobby diventa un must per gli amanti dello stile di un Lucassen che si cimenta nei differenti pezzi fornendo ad essi la sua peronale visione, in un sound più massiccio e corposo rispetto a quello degli originali.
Così, brani di Pink Floyd, The Beatles, Status Quo, The Who, Bob Dylan, etc, assumono una dimensione progressiva e hard rock che, pur differenziandosi notevolmente dalle concezioni primordiali dei differenti gruppi, non sfigura affatto, ma soprattutto aiuta a concepire meglio da quali basi nascano le idee geniali di un musicista e compositore a tutto tondo come questo olandese. Peccato soltanto per i suoni di produzione, non ottimali e non ritoccati in questa ristampa, che se migliorati avrebbero reso questo ascolto ancor più interessante e istruttivo.
IN CONCLUSIONE
La ristampa di Strange Hobby (1996) permette al fan di Arjen Anthony Lucassen di riscoprire le influenze di base di questo polistrumentista, comprendendo meglio da dove nascano le idee compositive che hanno dato vita al progetto Ayreon.
Per il resto, il mercato discografico torna ad avere in catalogo un buon album di cover hard rock psichedeliche ormai da un decennio andato perduto. Il che, diciamolo, non è mai un male!
10 Ottobre 2016 7 Commenti Denis Abello
genere: AOR / Melodic Rock
anno: 2016
etichetta: Frontiers Music
Sentire la voce di Goran Edman è sempre un piacere assoluto. Quel suo modo unico di cantare e quel suo timbro personale che arriva direttamente all’Anima lo differenziano da qualsiasi altra voce in circolazione e rendono praticamente ogni pezzo baciato dalla sua ugula subito riconoscibile e, grazie al suo grande talento, anche subito degno di nota.
Nella sua carriera ha spaziato diversi generi che vanno dal Heavy Metal fino praticamente all’AOR e lavorando con nomi quali John Norum, Yngwie Malmsteen, Brazen Abbot, Glory, senza contare tutte le sue brevi comparsate qua e la tra cui merita menzione la sua apparizione sulla prima incarnazione dei The Theander Expression a cui regalava la voce ad alcuni buoni pezzi tra l’AOR ed il Westcoast (tanto per non farsi mancare nessun genere… 😀 ).
Cry of Dawn è il nuovo progetto che vede Goran piombare direttamente nel più puro AOR / Melodic Rock. Alle spalle del talentuoso Scandinavo troviamo un’armata ormai conosciuta su queste pagine che vede al comando l’ottimo Daniel Flores (The Murder of MY Sweet, Find Me, l’ultimo first Signal e tanti altri) qui in veste, oltre che di produttore, anche di batterista con in più l’ormai fidato Michael Palace (Palace) a chitarre e basso e Soren Kronkvist alle tastiere.
Se non bastasse tutti i pezzi sono scritti da alcuni tra i migliori songwriter attualmente disponibili su piazza tra cui gli stessi Palace e Kronkvist oltre a Steve Newman, Alessandro Del Vecchio, Daniel Palmqvist e Robert Säll.