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Richard Palmer-James – Takeaway – Recensione

26 Novembre 2016 0 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Classic Rock / Pop Rock
anno: 2016
etichetta: Cherry Red Records

Componente fondatore dei Supertramp e songwriter per i King Crimson: è questo il background musicale del cantautore e polistrumentista inglese Richard Palmer-James, al debutto nell’ottobre 2016 con il suo primo album solista Takeaway, uscito per Cherry Red Records.

Dopo decenni di composizioni per altri muscisti, Richard ha deciso di interpretare per la prima volta a suo nome una raccolta di brani che sentiva (per differenti ragioni) solo e soltanto suoi, producendo un platter di rock classico a venature melodiche e progressive, semi-acustico, nel quale sfrutta l’aiuto fondamentale di alcuni amici e collaboratori conosciuti nella fertile scena musicale di Monaco di Baviera, la città in cui da anni risiede. L’artista veste così i panni dello storyteller e da vita a un album dal tratto intimo, molto silenzioso e rilassante, che si mostra perfetto per il sottofondo musicale di una serata invernale, e che ricorda nel sound e nell’approccio alcune delle ultime pubblicazioni di David Bowie (vedi a riguardo il sesto brano del disco, Halfremembered Summer). Le liriche, che si riferiscono a storie inventate ma anche ad esperienze di vita personali, appaiono in particolare molto ispirate e perfette per la timbrica vissuta e matura del cantante, mentre le parti strumentali si limitano qui all’accompagnamento e all’arricchimento delle trame vocali, e non si spingono mai troppo avanti nella (peraltro ottima) produzione.

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Bad Bones – Demolition Derby – recensione

26 Novembre 2016 3 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Sliptrick Records

Attenzione! Attenzione! Nella mia cara e vecchia “provincia Granda” si fa del buon e sano melodic hard rock! Per chi non lo sapesse la provincia Granda altro non è che la provincia Cuneese, ossia quella provincia del Piemonte per il 50% coperta di alte vette (montagne) e che ha dato i natali al qui presente recensore e che mai e poi mai avrei pensato avrebbe potuto dare invece i natali ad una band di hard rock melodico di alta caratura… ma come si dice, mai dire mai…
… ed infatti la storia dei Bad Bones parte da Ceva (CN) nel 2007 per mano dell’ex bassista dei White Skull, Steve Balocco (Steve Bone). A quest’ultimo si uniscono il fratello Lele Balocco (Lele Bone), ex batterista dei Mirsie, Meku Borra (Meku Bone), ex chitarrista degli Anthenora e successivamente alla voce Max Malmerenda (Max Bone).
Con suoni che affondano inizialmente nei Thin Lizzy, Motörhead, AC/DC, Mötley Crüe, Ramones e ZZ Top danno vita ad un primo album autoprodotto Smalltown Brawlers (2008) che porterà la band a suonare anche in USA sul palco del famoso Whisky a Go Go.
Spostato il suono verso un hard rock sempre stradaiolo ma ben più melodico daranno poi alle stampe un EP (Dead Boy – 2009) e due album (A Family Affair – 2010 e Snakes and Bones – 2012) che faranno guadagnare ulteriori consensi alla band. Nel 2013 entra in formazione Sergio Aschieris (SerJoe Bone) alla chitarra sostituendo il dimissionario Meku Borra.

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RebelHot – RebelHot – recensione

26 Novembre 2016 1 Commento Denis Abello

genere: Classic rock
anno: 2016
etichetta: Metalapolis Records

RebelHot, un nome ed un album che sembrano arrivare direttamente dai mitici anni’70 con quel loro misto di classic rock, blues e funk e che invece vede i suoi natali nelle nebbiose lande della Pianura Padana.
Dietro infatti ai RebelHot si celano quattro talentuosi artisti italiani con un sacco di esperienza e live alle spalle. Ze e Paul, rispettivamente basso e chitarra sono infatti conosciuti su queste pagine anche per far parte della melodic hard rock band Lizhard. A loro si aggiungono la voce Husty e la batteria Frank!

Se i natali sono ben saldi nel nostro “bel paese” il sound è invece inconfondibilmente legato a lidi d’oltreoceano con band quali Cry Of Love, Humble Pie e Free ben in mente, senza disdegnare qualche incursione in territorio Bad Company il tutto sorretto dalla voce roca e dai richiami a “zio Glenn” (Hughes) di Husty.
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Pretty Maids – Kingmaker – recensione

26 Novembre 2016 19 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Frontiers Music

La musica è come i gatti… o meglio la musica può rendere certe Band come i gatti, con più di una vita sulle spalle… un po’ quello che è successo ai Pretty Maids, una di quelle band che, nel periodo in cui tante “old stars” non sono più riuscite a riprendersi, ha saputo invece rinascere a nuova vita e ridando così vita alla propria carriera.
Con un passato glorioso basato sul loro heavy metal melodico la band Danese capitanata dal duo Ronnie Atkins (voce) e Ken Hammer (chitarra) ha dal 2010 con l’album Pandemonium (qui la recensione) saputo, con fare sartoriale, ritagliarsi un nuovo abito che oltre al classico sound heavy metal melodico ha saputo aggiungere orpelli rock melodici ruffianacci e commerciali.
Diciamo quindi che questo Kingmaker, dopo la “particolare” parentesi di Louder Than Ever (qui la recensione), riprende il discorso iniziato dal già citato Pandemonium e continuato nel 2013 con Motherland (qui la recensione).

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John Wetton – The Official Bootleg Archive-Vol 1 – Recensione

22 Novembre 2016 2 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Pop Rock / Prog Rock
anno: 2016
etichetta: Cherry Red Records

Gli amanti degli Asia e del genio solista del loro bassista e voce John Wetton possono godere da qualche giorno di una nuova interessantissima raccolta di materiale fuori stampa dell’artista: il The Official Bootleg Archive Vol.1, uscito per la label Cherry Red Records.

Questo splendido archivio in sei CD raccoglie tre bootleg ufficiali di concerti di Wetton fuori stampa da più di dieci anni. Si tratta nel dettaglio del Live In Argentina del 1996, del Live in Osaka del 1997 e infine del Live at the Sun Plaza di Tokyo del 1999. Totalmente rimasterizzati con la superivisione dello stesso frontman, questi show mostrano l’anima più pura di un John Wetton in grande forma vocale, splendido performer capace di regalare uniche energie ed emozioni alle sue platee, sempre pronte a ricambiarlo con lunghi e sentiti applausi. Le ottime prove strumentali dei differenti ed eccellenti musicisti di supporto permettono a Wetton di concetrarsi liberamente sulle sue linee vocali, venendo ben supportato da cori e melodie ariose e cristalline, in perfetto bilico tra po rock e prog rock. Setlist eccellenti ripercorrono inoltre tutti i grandi classici della sua carriera, partendo dai successi degli Asia per arrivare al suo materiale solista e infine a qualche estratto dalla Red era dei King Crimson, in un idilliaco conubio di momenti elettrici e acustici.

Indimenticabili a riguardo le prove in canzoni da classifica come Sole Survivor o Only Time Will Tell, senza dimenticare la classica Heat of the Moment, da sempre fulcro dei concerti di Wetton. Il massimo della magia è però toccato nelle tracce acustiche o semi-acustiche The Smile Has Left Your Eyes, Hold Me Now, Battlelines, Emma, che mostrano tutta l’innata capacità di questo musicista di trasmettere sentimenti attraverso l’uso delle sue corde vocali e dei suoi strumenti. Lasciando il pubblico in silenziosa estasi di fronte ad ognuno dei tre palchi di questa release.

IN CONCLUSIONE

Le vostre collezioni non potranno non contenere al loor interno questo bellissimo primo volume dell’archivio bootleg di John Wetton, un perfetto testamento live della grandezza di questo artista.

Essenziale, per tutti e non solo per i fans di vecchia data o i più accaniti collezionisti.

Il Tusco – Il Tusco feat. Luke Smith – Recensione

19 Novembre 2016 0 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Rock / Hard Rock / Prog Rock
anno: 2016
etichetta: Andromeda Relix

Da più di quindici anni sulle scene rock italiane, il cantante Diego Tuscano torna a far parlare di se con un nuovo progetto, Il Tusco, nel quale collabora oggi con Luke Smith, leader degli inglesi Ulysses. Esce così nei negozi il disco IlTusco feat. Luke Smith, un platter registrato a Bristol e pubblicato dalla label Andromeda Relix nel corso di questo 2016.

Influenzata dagli anni d’oro del rock, ovvero quelli in bilico tra i ’60s e ’70s, questa opera presenta un songwriting maturo ed evoluto, dalle tonalità progressive secondo la maniera italiana (PFM, Biglietto Per L’Inferno) unite a tonalità stoner contemporanee (Queens Of The Stone Age), e forte di un cantato in lingua italiana molto ispirato e capace di innalzare in alto il nostro tricolore musicale come accadeva in un tempo ormai lontano. Colpiscono qui, oltre ai suoni molto retrò, la qualità espressiva del cantato di Tuscano e la sua capacità di interpretazione dei testi, ben al di sopra della media dei cantautori medi italiani, con Luke Smith degno compare attraverso le sue parti di chitarra varie ed ispirate e gli ottimi arrangiamenti di tastiere, talvolta hard rock alla maniera dei Deep Purple.

Concentrandoci infine sui brani, colpisce fin dal primo ascolto l’opener in due parti Ossessione, una canzone moderna e classica allo stesso tempo e capace di immergere subito l’ascoltatore nel clima musicale del disco. Pulsazioni e Libero proseguono poi mostrando il talento di Luke Smith, con la sua chitarra che costruisce le strutture della canzoni senza lasciarsi mai andare a inutili tecnicismi ,ma concentrandosi sulle atmosfere e melodie. Danzatore nel lurido banco dei pegni avvicina il gruppo ai Deep Purple, con il rock di Babilonia della psiche che apre a uno dei brani più interessanti del lotto, la chiaro-scura Giorni perduti, prima del riuscito commiato finale affidato alla bella Nuovo Anno Zero.

IN CONCLUSIONE

Gli amanti del rock italiano anni ’60 e ’70 non potranno rimanere impassibili di fronte a questa opera de Il Tusco. Le belle influenze prog, unite a tonalità stoner su un approccio decisamente rock, rendono infatti questo platter una delle pubblicazioni più riuscite nel madrelingua musicale del 2016.

Da ascoltare.

Kee Marcello – Scaling Up – recensione

18 Novembre 2016 8 Commenti Matteo Trevisini

genere: Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Frontiers Music

Ricevo il promo dell’ultimo album di Kee Marcello…il mio primo pensiero e’: “Oh signore…e adesso ???”. Ripenso a trent’anni fa quando sopra al letto, nella mia stanzetta faceva bella mostra di se un anch’esso giovane Kjell Hilding Lövbom (…naturalmente il vero nome svedese del buon Kee…) di chitarra gialla munito che sorrideva al mio giovane io e al suo fulgido e roseo futuro nella band più “hot” del momento a quei tempi remoti, ovvero gli Europe. Poi, ripenso all’ultima volta che l’ho visto dal vivo alla sagra della birra alla fiera di Udine su un palchetto minuscolo, sempre sorridente e sempre pronto a ripetere all’infinito il suo celeberrimo ”volo del calabrone”.

Penso al divario di anni che è passato tra questi due momenti della mia vita e anche della sua e quante cose sono successe nel mezzo…mi rilasso un po’ quando leggo in giro le prime recensioni ed i primi commenti entusiasti di questo nuovo Scaling Up, uscito su Frontiers. Allora mi rilasso ancor di più e penso che, dopo tutto, non sarà un’ardua salita l’ascolto di questo disco…poi mi devo ricredere da subito…no! Non sarà facile per niente. Nel momento stesso che alcuni miei colleghi me ne parlano male…”Lui non sa cantare!…è suonato male e prodotto peggio!!…si, effettivamente la faccenda si fa ardua!!!

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Rik Emmett & RESolution9 – RES 9 – Recensione

12 Novembre 2016 9 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Rock / Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Provogue Records

Rik Emmet, la mente e chitarra della storica band Triumph, ritorna sulle scene nel novembre 2016 con un disco 100% rock americano, intitolato RES 9, e sotto il moniker artistico Rik Emmett & RESolution9. Ospiti di questa opera, due nomi eccellenti come James La Brie dei Dream Theater e Alex Lifeson dei Rush.

Ok, per un Triumph-fan come il sottoscritto, il solo vedere il nome del suo assoluto beniamino posto a caratteri cubitali sulla cover di questo platter può valere circa un’ora di pianto ininterrotto. Non posso nasconderlo. In più, il leggere che Emmet collabora qui, sulla bonus track finale, con Gil Moore e Mike Levine (per chi non lo sapesse, gli altri due del terzetto Triumph), mi sta portando a un piccolo arresto cardiaco e una corsa forsennata.. dal mio negoziante di fiducia, per accapparrarmi subito una copia di questo platter.

Detto questo soprattutto per far capire subito che in questo articolo non sono per nulla di parte (ha-ha-ha), mi immergo nel mio ruolo di recensore affermando la bontà generale di questa esperienza di ascolto, fatta di suoni di chitarra bollenti e di quel groove antico di splendida fattura che caratterizza gran parte delle pubblicazioni più americane di questa label. Emmet, che statunitense non è ma bensì canadese, si getta oggi nella composizione del disco forse più a stelle e strisce della sua carriera, capace come è di avere rimandi al sound bluesy e southern di un Warren Haynes (per citarne uno) e di contenere al suo interno quella polvere desertica, un po’ folk e un po’ country, che aggiunge sfumature alla impostazione sempre di matrice rock del suo strumento. Chi lo accompagna, ovvero Dave Dunlop, Steve Skingley e Paul DeLong, cazzarola! (l’ho scritto davvero?!) tira fuori dal cilindro una prova essenzialmente perfetta, che permette al musicista leader di muoversi in primo piano con la sua voce e la sua chitarra, senza però mai suonare troppo avanti rispetto agli altri, ospiti illustri compresi. E, attenzione, che non è una cosa da poco.

Di questo insieme di fattori giovano certamente la composizione e la prova esecutiva del disco tutto, con undici brani dotati di un songwriting davvero maiuscolo, adulto, vario ed eccellente. Ora non lo scrivo da fan scatenato, lo giuro, ma persino i fan dei Triumph (intesi come i fan dei Triumph e basta.) troveranno qui almeno tre tracce di loro certo gradimento, perchè fedeli al sound storico della band. Mi riferisco a quel singolo stupendo che è I Sing, che pare la Hold On del nuovo millennio visto il suo testo di pura fede musicale, al grande hard rock ottantiano di Heads Up, e ovviamente al commovente commiato bonus Grand Parade, di cui abbiamo già detto in precedenza. Un trio di canzoni che, dai, fa sognare un nuovo ritorno dell’iconico terzetto canadese..

Al di là di questo espresso desiderio, godiamoci il rock groovy americano della sostenuta opener Stand Still, che mette in mostra il grande sprito di gruppo della formazione e la sua bravura tecnica. Altrettanto di valore è Human Race, che vede la presenza di Alex Lifeson dei Rush alla chitarra e chi lascia a bocca aperta con la sua trascinante energia, arrivando a My Cathedral che sposta il sound del disco definitivamente verso i lidi del rock americano (come canta qui Emmet!!), come dimostrano anche la seguente ed eccellente The Ghost of Shadow Town, tra le hit del platter, e la preziosa e bluesy When You Were My Baby. E’ da autostrada nel deserto poi Sweet Tooth, che sembra rubata ai primi Lynyrd Skynyrd, con la semi-acustica e melodica Rest of My Life e la muscolosa End of the Line (con Alex Lifeson & James LaBrie) a chiudere il cerchio su questa produzione intensa, e di indubbia qualità.

IN CONCLUSIONE

Uno dei dischi più belli ascoltati in questo 2016, RES 9 accende i riflettori sui Rik Emmett & RESolution9 e (ancora una volta) sul talento innato, sia vocale che strumentale, di Rik Emmet.

Blues, hard rock, rock americano, folk, country, musica cantautorale, e non solo, sono uniti qui in un unico pacchetto intenso ed emozionante. L’ascoltatore potrà godere così di un 360° musicale che scalderà il suo cuore e riempirà il suo spirito di quella magia che solo la grande musica riesce ad avere. Eccellente.

Roth Brock Project – Recensione

08 Novembre 2016 12 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2016
etichetta: Frontiers Music

Winger, Starship, Giant, Strangeways, Leroux… se con due nomi ed un disco in comune riusciamo a mettere insieme come dote i nomi citati allora risulta da subito abbastanza chiaro che questo matrimonio tra John Roth (Winger, Starship, Giant) e Terry Brock (Giant, Strangeways, Leroux) possa già partire sotto i migliori auspici e soprattutto… s’ha da fare!
Difficile aspettarsi magari qualcosa di troppo originale stile “matrimonio lanciandosi col paracadute” o robe del genere, e anzi qui andiamo proprio a parare sulla più classicissima delle cerimonie che musicalmente parlando si traduce in una profusione di melodia, voci urlate al cielo, riffoni hard rock mai troppo spinti uniti ai classicissimi soli di chitarra che nel melodic rock non possono mai mancare… un po’ come i confetti per la più tradizionale delle cerimonie nuziali! 😀

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Bon Jovi – This House Is Not For Sale – Recensione

05 Novembre 2016 46 Commenti Lorenzo Pietra

genere: Pop Rock
anno: 2016
etichetta: Island

A tre anni di distanza dal mediocre What About Now, tornano i Bon Jovi, o sarebbe meglio dire Jon Bon Jovi? L’album arriva dopo tre anni difficili per il rocker americano, prima con l’uscita forzata di un album a “contratto”, Burning Bridges voluto dall’etichetta Island, prima scaricata da Jon e soci e poi ritornata misteriosamente per l’uscita di questo nuovo This House Is Not For Sale. L’album rappresenta un nuovo corso, una rinascita per i Bon Jovi. L’uscita dello storico chitarrista Richie Sambora e la svolta di Jon verso un sound più intimista e Springsteniano rappresentano questo nuovo lavoro in studio. Le dichiarazioni di Jon che il disco sarebbe piaciuto sia ai fan di These Days che a quelli di Have a nice Day, il ritorno ai Power Station Studios, la conferma della collaborazione con il duo Shanks/Falcon hanno creato un alone di mistero sull’album…

L’attesa è stata ricambiata in parte. L’album e il songwriting sono decisamente più ispirati degli ultimi lavori in studio, ma il sound ricade a volte nel troppo moderno e troppo “finto”. Phil X alle chitarre si sente in pochissime occasioni , pochi assoli in tutto l’album, anche se bisogna dire che la produzione perfetta e scintillante rende alcune canzoni molto più interessanti. Dimentichiamoci totalmente il vecchio rocker Jon Bon Jovi e andiamo ad analizzare questo nuovo corso.This House Is Not For Sale è un disco coraggioso e trova i momenti più interessanti nelle canzoni più intime, dove la voce di Jon, ormai cambiata nel corso degli ultimi anni, riesce ad emozionare. Le canzoni più ritmate sfociano nel pop-rock più classico e come già detto, le chitarre sono più un riempitivo che un insieme di riff e assoli come ai vecchi tempi. Direi di fare un track by track per capire meglio:

1) This House Is Not For Sale : la canzone rimanda a Have a nice day nell’intro e nel sound, un rock da stadio, una canzone da urlare…trascinante, il ritornello ti si stampa in testa subito al primo ascolto. Phil X sforna un gran bell’assolo che non fa rimpiagere Sambora. Semplice ma di grande impatto.

2) Living With The Ghost : L’intro alla Springsteen, il sound moderno. Una canzone che non avrebbe sfigurato su HAND per farvi capire. Semplice ma diretta. Pop oriented.

3) Knockout : Spiazzante. Al primo ascolto ho controllato che fosse veramente il disco dei Bon Jovi. Ai successivi ascolti ho metabolizzato. Questa volta trovo la produzione troppo moderna, l’intro non mi piace. Peccato in quanto la canzone “poteva” essere molto bella…

4) Labor Of Love: la prima ballad è molto particolare. Personalmente mi fa venire in mente qualcosa di Destination Anywhere di Jon Bon Jovi solista. Se vi è piaciuta l’atmosfera di quel disco la canzone vi piacerà.

5) Born Again Tomorrow : Non ci siamo. Ancora una bella canzone (come songwriting) totalmente rovinata da una iperproduzione, effetti esagerati, voce filtrata. Peccato perchè c’era uno dei pochi assolidi Phil X. Bocciata. continua