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Storace – Crossfire – Recensione

27 Novembre 2024 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Marc Storace è tornato, come ha sempre fatto quando i Krokus si sono fermati, anche stavolta che la band madre, seppur riformatasi per alcuni concerti, è finita in naftalina, lui continua a sparare hard rock’n’roll ad alto voltaggio; tutti sappiamo dell’amore dei Krokus per gli Ac/Dc, ma sappiamo anche che in diversi momenti, hanno toccato a più riprese il metal classico, l’hard melodico e l’hair metal, ecco, in “Crossfire” si ritrova tutto questo, quasi come se fosse un compendio della carriera di Fernando Von Arb e soci.

Ma la domanda è, dato che l’album arriva da un’etichetta che sta facendo uscire quasi solo gruppi nostalgici, il più delle volte interessanti quanto un programma di televendite, è proprio necessario che Marc ritorni con qualcosa che ha già proposto decine di volte in passato? Stavolta sì, perché lui sa fare questo e maledettamente bene, ci sono artisti che, non è che non possono, non devono variare la loro idea musicale, un po’ come se i già citati Ac/Dc si mettessero a fare aor o death metal, sarebbe comunque un disastro! Per cui, dato che Marc questo lo sa fare davvero in maniera egregia e dato che ha queste idee che per il momento non possono essere usate per i Krokus, perché cambiare? Quindi, già dall’opener “Screaming demon” ci da giù a colpi di rock’n’roll coinvolgente con un riff e un ritornello che si stampano in testa, prosegue con un interludio come “The new unity” che funge da apripista per il mid tempo ottantiano di “Rock this city”, subito doppiato da “Adrenaline”, che rimane su quelle coordinate, salvo avere un incedere più “strisciante”, ma il primo amore non si scorda mai e allora ecco “Love thing stealer” e “Let’s get nuts” che sono in pieno stile della band più famosa proveniente dalla terra dei canguri, chi indovina il nome vince un funko pop di Angus Young…

Sparate un nome a caso dei gruppi che invadevano il Sunset Boulevard negli anni ottanta e sicuramente ci prendete con il riferimento che esce da “Thrill and a kiss”, ariosa e muscolosa al tempo stesso, si ritorna a bomba nel rock’n’roll più puro con “We all need the money”, dal classico giro in quattro note che è sempre e comunque coinvolgente e seppur con “Hell yeah” non sembra neanche di ascoltare lo stesso gruppo, tanto è prevedibile (sì, ancora di più dei brani Ac/Dc oriented) e fin troppo ‘facile’, l’hard blues di “Millionaire blues” risolleva da subito l’adrenalina, semplice, ma efficace, tanto che il piedino mi si muove in automatico ogni volta che l’ascolto e allora voi direte, ok, ma i Krokus sono anche più muscolari e io vi rispondo, vero, difatti questa è la differenza principale tra questo progetto di Marc e la sua band più importante, però se qualcuno di voi ha nostalgia degli autori di “Headhunter” e pensa che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere, può ritenersi soddisfatto di “Sirens”, un bel metallone diretto con tanto di cori potenti e atmosfere epico/apocalittiche e se il titolo della canzone precedente può aver fatto venire in mente i Savatage, senza però aver alcun contatto con il brano dei fratelli Oliva, la chiusura con “Only love can hurt like this”, sembra quasi uscita dalla mente e i tasti d’avorio di Jon, sia come atmosfere, che come trasporto nel cantato di Marc.

Di solito non mi piace citare quello che le etichette scrivono nell’info sheet, ma mi sembra giusto rimarcare il lavoro fatto da Tommy Henriksen alla produzione e al songwriting condiviso con lo stesso Marc, si sente che questo signore ha suonato con Doro e tuttora fa parte degli Hollywood Vampires e della band di Alice Cooper e quello svolto al mixing da Olle Romo, l’ingegnere del suono di un certo John “Mutt” Lange, tutto questo depone nettamente a favore degli Storace, che, ripeto, magari non fanno nulla di eccezionale, ma lo fanno davvero, ma davvero molto bene!

CWF (Champlin-Williams-Friestedt) – III – Recensione

24 Novembre 2024 2 Commenti Redazione MelodicRock.it

genere: Wstcoast/AOR
anno: 2024
etichetta: Black Lodge Records

di: Yuri Picasso e Samuele Mannini

Alle volte, presi da un sacco di cose da fare, ci perdiamo alcuni dischi e complice il fatto che la distribuzione dei promo è, per usare un eufemismo, alquanto caotica, cerchiamo di rimediare non appena possibile. Eccovi dunque in clamoroso ritardo la nostra disamina su questo III. 

Difficile produrre brutta musica quando ti chiami Bill Champlin,Joseph Williams,Peter Friestedt. Difficile sorprendere od essere originali quando ti chiami Bill Champlin,
Joseph Williams,Peter Friestedt.

Il terzo album del progetto Champlin Williams Friestedt, intitolato semplicemente “III” esce a distanza di 9 anni dal debutto e 4 anni dal secondo capitolo, ed è senzadubbio un omaggio raffinato e sofisticato alle sonorità Westcoast. Questo lavoro rappresenta un esempio lampante di maturità musicale e di profonda esperienza e su questi elementi non possono esservi dubbi. Le influenze di band leggendarie come Chicago e Toto sono palpabili, e il risultato è un sound maturo e avvolgente, perfetto per un pubblico alla ricerca di melodie rilassanti e arrangiamenti di alta classe.

L’album si apre con “Brighter Day”, un brano che incarna perfettamente lo spirito dell’intero progetto. Le armonie vocali di alta qualità, un segno distintivo del trio, sono sostenute da una strumentazione morbida e melodica. “Wings of Tomorrow” e “Carrie” continuano su questa linea, offrendo melodie piacevoli e facilmente orecchiabili, in grado di catturare l’ascoltatore sin dal primo ascolto. Uno degli aspetti più interessanti di “III” è l’equilibrio tra le parti vocali e strumentali. Tuttavia, una piccola critica può essere che il sound complessivo potrebbe risultare a tratti piatto e poco incisivo, specialmente nei momenti strumentali come in “Moments of Joy”. In queste parti, la chitarra elettrica, relegata a un ruolo di accompagnamento, non riesce a emergere come potrebbe. Il vero punto di forza dell’album risiede però nelle composizioni e negli arrangiamenti curati e brani come “Find The Love” e “I Will Find You There” sono esempi di eccellenza musicale, con melodie ben strutturate e armonie vocali che si intrecciano perfettamente. Il duetto tra Bill e Tamara Champlin in “The Last Unbroken Heart” è particolarmente emozionale, aggiungendo uno spessore sensoriale che eleva ulteriormente l’album.

“III” non cerca dunque di stupire con elementi innovativi o sperimentali. Piuttosto, si concentra sulla creazione di un’atmosfera elegante e rilassata, ideale per chi desidera un ascolto piacevole e sofisticato. Il progetto Champlin Williams Friestedt, con questo album, conferma ancora una volta il proprio talento e la propria esperienza nel genere AOR, regalando un lavoro che, pur non essendo rivoluzionario, rappresenta una garanzia di qualità per gli appassionati del genere.

In conclusione, “III” è un album che offre un porto sicuro in cui l’amante delle sonorità westcoast può attraccare per godere di melodie avvolgenti e di una produzione curata nei minimi dettagli. Per chi è alla ricerca di un’esperienza musicale di questo tipo è un disco che nel 2024 farete fatica a non apprezzare.

Van Zant – Always Look Up – Recensione

22 Novembre 2024 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Ritorno sulle scene per l’intramontabile duo southern rock dei Van Zant, dal gusto indiscutibile e ben riconoscibile.

“Awesome God” ci immerge immediatamente nell’atmosfera christian music vicina al duo per ispirazione e tematiche, dandoci in brano complessivamente gradevole. Arriviamo a “Stand Up”, lieve, dolce, suadente, dalle caratteristiche canoniche, senza grandi voli pindarici. “Warrior” prosegue strizzando l’occhio al country e mantenendo le tematiche su livelli “catechistici”. Al di là dei testi, condivisibili o meno, la struttura musicale sembra centrata ma a tratti banale, come in “There You Are”, che spicca solo per qualche balzo di dinamica, così come la successiva “Speak His Name”, corale, quasi bonjoviana, ma non particolarmente originale. Proseguiamo senza troppi indugi con “Why God Brought Me Here”, sonnolenta e malinconica, con poco brio, che sfocia implacabilmente in “Praying”, che non si scosta minimamente dal resto del lavoro, dando l’impressione di star ascoltando un’unica lunga traccia. “It’s Up To You” ci riporta alla mente la passata tradizione dei Van Zant, senza però raggiungere grandi vette, soprattutto a livello emozionale, nonostante una buonissima intenzione nel cantato. Con “Holy Moment” saliamo un pochino di groove e di dinamica, facendo attestare il brano sul limite della sufficienza. Notiamo un po’ più di impegno e di profondità su “Leaning On The Cross”, musicalmente interessante e globalmente più curata. Arriviamo alla conclusione con l’intoccabile “Jesus Christ”, emblematica e che nulla lascia all’interpretazione, che chiude un lavoro sicuramente ben eseguito, ma assolutamente poco originale, il che lo fa risultare alla lunga un po’ troppo noioso e monocorde.

Sunstorm – Restless Fight – Recensione

22 Novembre 2024 1 Commento Yuri Picasso

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

‘Restless Fight’ rimane dopo ripetuti ascolti uno di quei lavori in grado di regalare sensazioni contrastanti; nulla di così amplificabile ne distorto a livello emotivo; ma alla fine dei conti il terzo lavoro con l’eccellente Ronnie Romero dietro al microfono dona qualche timore di troppo intervallato da istanti di piacevole benessere.

Sarebbe (e ora sarà) banale ricordare gli albori del progetto Sunstorm, con a capo l’idea di Joe Lynn Turner di rispolverare tracce rimaste inedite o cantate da altri performers dove lo stesso ha contribuito alla stesura, dagli anni 80 in poi; idea persistita sino al terzo album, ‘Emotional Fire’ (2012); dopo qualcosa si rompe. Sull’onde dell’interesse suscitato dal moniker, il progetto persiste e la formazione così come lo stile artistico si trasforma, snaturando inevitabilmente l’identità e il sound originario.

Il songwriting viene messo per la prima volta nelle mani dell’abile Aldo Lonobile (Ring Of Fire tra le altre) il quale riprende il discorso heavy ma melodico intrapreso con il precedente ‘Brothers In Arms’. Nulla da obiettare a livello tecnico/esecutivo, anzi; Tra le prime 6 tracce troveremo refrain validi spinti da un Romero Straordinario: l’opener “I’ll Stand For You” e “Hope’s Last Stand” coniugano machismo, melodia, attitudine e manifestano un manipolo di musicisti affiatati e di primissima categoria. Ancora “Love’s Not Gone” sposa perfettamente coordinate tipiche del classic Hard Rock con linee catchy tanto ricercate lungo l’intero airplay.

L’emozionale ballad “Without You” mostra l’apparente (e solo apparente) meraviglioso ossimoro del Romero più introspettivo a cospetto di una ballad costruita su armonie senzatempo. Tra le migliori del disco. Nella seconda parte non posso nascondere la sensazione di artificiosità che inizia a prendere campo. Il songwriting zoppica e si barcamena fino alla fine in soluzioni stilistiche scontate e reiterate, per quanto disegnate con precisione, tra melodie estremamente ordinarie e un eccesso di omogeneità stilistica. Ad eccezione della grintosa ma contenuta In & Out (Fire).

Non è sufficiente la performance accurata dell’intera band, ostacolati dalla consueta produzione estremamente fredda in grado da sola di elevare o sotterrare un intero lavoro. La magia degli esordi è inevitabilmente svanita e gli apparenti sforzi per riportarla in auge solo a tratti, e in forma diversa, escono infine a (ri)emergere.

Sound Delivery – Sound Delivery – Recensione

22 Novembre 2024 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Square Shaped Records

Dalla Svezia con furore: in arrivo l’album di debutto dei Sound Delivery, power trio che propone un buonissimo ed essenziale hard rock nostalgico.
Entriamo subito nel merito del disco con “Cry Wolf”, un inizio che già fa ben capire su quali orizzonti ci stiamo muovendo con i Sound Delivery.

“How Long?” è il classico pezzone hard rock senza fronzoli, corale, rilassato, che non lascia moltissimo nella memoria dell’ascoltatore. Più sostenuto e cadenzato, troviamo “Just Like Fire”, dalla trama oscura e gradevole, ottimo nella dinamica, tra i brani più riusciti. “Live, Love, Laugh” è un lento ben strutturato, suadente, che lascia, nel finale, ampio spazio a una parte strumentale ben eseguita. Saliamo di intensità con “More”, scarna e pura, molto penetrante, così come la successiva “Cold Heart”, una cavalcata potente e decisa, che sa trasportare e soprattutto emozionare. Nonostante una buona resa strumentale e soprattutto vocale, il lavoro sembra non decollare mai veramente: “Voices From The Sky” coinvolge ma non incanta particolarmente, lasciando un senso di incompiutezza. “Constrained” si sviluppo molto bene, con una dinamica musciale particolarmente raffinata e ben definita. Scateniamoci ancora una volta sulle note di “It’s Dark Down Below”, particolare ed eclettica, sicuramente piacevole arrivati a questo punto dell’ascolto. La coerentissima e interessante bonus track “Life Ain’t Always Fair” conclude Sound Delivery, ovvero un buonissimo album debutto, con qualcosa da limare qua e là, soprattutto in fase di intensità sonora e che potrebbe essere per la band un buon trampolino di lancio per il futuro.

Lionville – Supernatural – Recensione

15 Novembre 2024 5 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Uno dei dischi più attesi del 2024 era sicuramente il nuovo lavoro dei Lionville, band fondata nel 2010 dal cantante e chitarrista genovese Stefano Lionetti che col tempo si è guadagnato una grande fama a livello internazionale. La sua creatura nata anche grazie al supporto iniziale di Alessandro Del Vecchio e Pierpaolo “Zorro” Monti ha trovato nel corso degli anni una formazione stabile e affiatata fino al qui presente Supernatural dove è avvenuto l’avvicendamento dietro al microfono tra l’uscente Lars Säfsund (Work Of Art) ed il nuovo arrivato Alexander Strandell (Art of  Nation, Nitrate). L’innesto di Alex ha comportato una leggera variazione nelle composizioni che ora suonano più fresche ed energiche pur mantenendo sempre un altissimo tasso melodico. Il risultato finale è di altissimo spessore e pone la band tra le migliori a livello mondiale nel loro genere.

Le 11 tracce che compongono l’album si collocano a metà strada tra Toto e Journey con almeno 4/5 brani da considerarsi delle vere e proprie hit. L’apertura affidata a Heading For A Hurricane ci introduce nella nuova versione della band grazie ad un ritornello da stadio e ad un tessuto chitarristico che affonda le radici nell’hard rock di fine anni 80 (alla Giant di Time To Burn per intenderci). Il singolo di lancio Supernatural vi si stamperà in mente già dal primo ascolto così come la seguente power ballad Gone degna dei Danger Danger dell’esordio. Breakaway sembra scritta per fare da colonna sonora a Rocky o Top Gun mentre l’eterea The Right Time (una delle vette dell’album) mi fa tornare in mente Stand Up dei Def Leppard. La moderna Nothing Is Over si piazza ai livelli di Creye, Degreed, Eclipse ed H.E.A.T., insomma il meglio che la scena melodic rock attuale possa proporre. La splendida ballad Unbreakable arriva dritta al cuore mentre la grintosa e moderna The Storm si rifà al già citato panorama rock scandinavo. Il classico Lionville-sound fa capolino nella suadente Another Life che vi riporterà ai dischi precedenti della band. Siamo ormai ai titoli di coda ma anche The One e la conclusiva Celebrate Our Life hanno un tiro incredibile e fanno venir voglia di riascoltare tutto dall’inizio. Un album impeccabile, praticamente perfetto sotto ogni punto di vista. Le chitarre robuste ma allo stesso tempo brillanti della coppia Lionetti-Cusato si innestano su abbondanti ma mai invadenti tappeti di tastiere (Fabrizio Caria) e si affiancano magnificamente ad una sezione ritmica (Dagnino-Malacrida) che non sbaglia un colpo.

Arrivati a novembre possiamo ormai dire senza ombra di dubbio che questo lavoro abbia tutte le carte in regola per candidarsi a disco dell’anno senza se e senza ma.

Aursjoen – Strand – Recensione

14 Novembre 2024 2 Commenti Samuele Mannini

genere: pop wave folk
anno: 2024
etichetta: Stratis Capta Records

Oramai dovreste saperlo, ogni tanto amo andare clamorosamente off topic, però quando nella lista dei promo trovo materiale interessante e magari il carico di uscite da recensire lo permette, adoro proporre ai lettori del sito anche cose poco ortodosse. Certamente non considererò questo disco nella nostra abituale classifica di fine anno, prendetela come una scoperta che magari a qualcuno con gli orizzonti musicali più aperti ( e so che ce ne sono molti) farà piacere ascoltare.

Terminato il disclaimer andiamo a conoscere la protagonista di questo Ep, ovvero Ria Aursjoen.  Cantante e tastierista del gruppo post-punk di San Francisco, Octavian Winters. Ria Aursjoen è inoltre cantante e polistrumentista di formazione classica ed esperta di arti visive con un passato intriso di generi che vanno dal folk celtico e nordico alla darkwave e al progressive metal. (e qui almeno un aggancino tematico per il sito l’ho trovato :-))

Se volessimo definire il disco con un aggettivo quello che mi sembra più calzante è: etereo. Tutto si svolge intorno ad atmosfere nordiche leggiadre ed armoniose, crepuscolari ed evocative e, se vi venisse in mente la prima Bjork, non sareste poi così lontani dalla realtà. Le citazioni possibili sono però anche molte altre, tocchi i folk alla Lorena McKennitt e le atmosfere pianistiche che rimandano a Tori Amos, possono essere certamente altri punti di riferimento nel cercare di identificare le coordinate sonore, ma se volessimo estremizzare, anche certe pennellate presenti nei dischi degli Amorphis vanno a pescare nella tradizione del folk nordico, rendendo quindi certe assonanze facilmente assimilabili.

Certamente non è un disco per tutti, bisogna ascoltarlo con il giusto mood emotivo, ma è estremamente evocativo come raramente mi è capitato di ascoltare negli anni.  Prendiamo Nytar per esempio, riflette la transizione del mondo fuori dalla pandemia. Scritta durante la notte di Capodanno del 2022, questa traccia evoca immagini di cristalli di ghiaccio trasportati dal vento in una serata invernale, simboleggiando il desiderio collettivo di ritrovare la luce e il calore dopo tempi bui, Nytar infatti in danese significa anno nuovo. Su “Apollo” la voce svetta suprema andando a toccare registri mistici mentre ai odono echi di certe composizioni dei Type o Negative mentre “Lilypad” viaggia delicatamente in bilico tra evocazione  ed ossessività allo stesso tempo. Suns of Tomorrow è traslucida e diafana quasi incorporea ed ipnotica. “For Want Of”, il secondo singolo rilasciato, si svolge languida e sognante e ditemi poi se l’interpretazione non vi ricorderà la Tori Amos più introspettiva e sinfonica o la Anneke van Giersbergen più alternativa. Chiude la title track “Strand” dove  le atmosfere folk si mischiano ad arie che potrebbero appartenere alle ultime produzioni degli Anathema.

Insomma la faccio breve, se vi ho incuriosito e vi va di ascoltare qualcosa di diverso dal solito, prodotto da Dio e che inoltre possa stimolare emozionalmente tutti i vostri sensi, io vi consiglio vivamente di dargli un ascolto, la mente aperta non fa mai male.

7Th Crystal – Entity – Recensione

08 Novembre 2024 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Per rispetto a chi si impegna tanto per far uscire un disco di questi tempi, prima di scrivere una recensione ascolto l’album per intero almeno 4-5 volte, di cui almeno due sull’impianto Hi-Fi, seduto in poltrona. A volte è arduo mantenere questo impegno, ma non è questo il caso: la voglia di ascoltare la nuova fatica dei 7Th Crystal a ripetizione è venuta subito, e dopo numerosi ascolti, mi sento pronto per scriverne.

“Entity” è un album che propone una rivisitazione completa del concetto di hard rock moderno. All’interno di ogni canzone, la band riesce a fondere elementi tipici dell’hard melodico scandinavo con potenti riff di origine power e heavy, oltre ad arrangiamenti che, oserei dire, sfiorano il progressivo. Ogni traccia è un patchwork riuscitissimo che mescola tutte le anime dell’hard and heavy, intrigando l’ascoltatore ad ogni passaggio e conferendo alla band un tratto distintivo unico nel genere.

In passato, avevo ascoltato alcune canzoni dei precedenti album dei 7Th Crystal e ne ero rimasto intrigato, tanto da voler recensire assolutamente questo nuovo disco. Devo dire che l’evoluzione del loro sound è davvero impressionante. Mi ripeto, pur non inventando nulla di completamente nuovo, la miscela creata è altamente coinvolgente ed il disco cresce con ogni ascolto, spingendo l’ascoltatore a coglierne ogni piccola sfumatura. Il contrasto e il contrappunto tra i vari brani sono sempre azzeccati, e la voce di Kristian Fyhr spesso raggiunge registri simili a quelli di Danny Vaughn, ma con una vena interpretativa originale, multicolore ed evocativa.

Qualche esempio random? Perché no… “404” è ossessiva e aggressiva, ma si canticchia subito con piacere nella sua sofisticata semplicità. “Architects of Light” inizia con un’introduzione funerea, crescendo nella strofa con punteggiature prog. La canzone sfocia in un cantato moderno che potrebbe sembrare un pop rock da classifica, per poi sorprendere con un ritornello iper melodico e catchy, ma epico allo stesso tempo. “Interlude” inizia con un’introduzione narrata, accompagnata da motivi sonori che non sfigurerebbero in gruppi più estremi. La canzone si sviluppa su un potente riff power ed un cantato aggressivo, per poi sorprendere con un ritornello in stile Eclipse. È incredibile come il tutto risulti estremamente funzionale e ben orchestrato, soprattutto per me che gli Eclipse non li reggo nemmeno tanto… Che faccio? Siete curiosi? Vado avanti? Ma sì, dai… “A Place Called Home” comincia così sempliciotta che sembra impossibile che poi si sviluppi in modo così arioso ed etereo, mentre la conclusiva “Song Of The Brave” è epica e sognante, e vorresti che durasse un quarto d’ora.

Questo disco entra direttamente nella mia top ten perché rappresenta un esempio di come si possa rinnovare e reinterpretare un genere ormai più che cinquantennale. Prestando attenzione ai testi, agli arrangiamenti e alla produzione, i 7Th Crystal non temono di attingere dalle varie tradizioni musicali delle numerose branche del genere, ma lo fanno con una perizia e una passione eccezionali. Ed ora via con il 58 esimo ascolto! Must Have.

 

 

Fighter V – Heart Of The Young – Recensione

07 Novembre 2024 2 Commenti Giulio Burato

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Rock Atack Records

Tornano dopo ben cinque anni e diversi cambi di line-up i promettenti svizzeri Fighter V che seguono le orme dei connazionali Gotthard e che già si erano fatti notare col loro album di esordio.
Il cambio di frontman è sempre un passaggio delicato e difficile da digerire per i fans di qualsiasi band. Nel primo album alla voce dei Fighter V c era Dave Niederberger che nel 2021 ha lasciato la band per problemi vocali; subentra ora Emmo Acar, dal timbro vocale più roco.
“Heart of the young” è un album con varie influenze che passano dagli adorati anni ’80 del hard rock melodico ai recenti gruppi della scena scandinava.
Nel primo singolo rilasciato intitolato “Eye to eye” viene a galla la voce più ruvida di Emmo che mi destabilizza rispetto alla precedente uscita discografica. Ascolto dopo ascolto però ci faccio l’orecchio.
La title track e la successiva “Run N Hide Away” sfoggiano un fiume di tastiere, sapientemente gestite da Felix Cammerell, presenti in maniera copiosa in tutta la release.
Un piccolo gioiello è la quarta traccia “How low” dal coro molto “leppardiano” che sposa alla perfezione quanto espresso negli anni dagli H.e.a.t. Acar risulta più controllato nei toni vocali e tutto fila alla perfezione.
Andatura molto serrata, mitigata solo dall’intro blues chitarristico, per “Speed Demon” che ricorda le sfuriate di Y.Malmsteen. La power ballad “Bringing It Back” spara un altro incredibile ritornello che mi trafigge il padiglione auricolare. E il sax come assolo? Canzone fantastica.
Sapore da colonna sonora ottantina per “Miracle heart” che ci ricorda quanto erano grandi i Surviror mentre con “Stepped On A Landmine” vengono omaggiate band come Deep Purple e Van Halen.
Tappeto rosso per il lento “I’m There”, emozionante e dalle orchestrazioni sonore da brividi, arricchite nuovamente da un sax che fa salire la pelle d’oca in chiusura di canzone.
In “There Is No Limit (Speed Limit)” sembra cha appaia un clone di David Coverdale, e il serpente bianco stringe il “Heart of the young”. Combo di voci grazie alla presenza di John Diva nella adrenalinica “Power”. Si chiude con “Radio Tokyo”, devota ai Brother Firetribe, che riassume e sintetizza perfettamente la caratura di questo album.

Nationwide – Echoes – Recensione

01 Novembre 2024 2 Commenti Francesco Donato

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

Gli scandinavi Nationwide esordiscono sulle scene con un album piacevole che si lascia ascoltare andando “diritto alla meta” senza inciampare mai nella noia.
Per sintetizzare quello che troverete dentro questo “Echoes” è un ottimo album di hard rock melodico fondato su una minuziosa ricerca dell’orecchiabilità, caratteristica che rende il lavoro non di certo originalissimo per via delle influenze entro cui si muove la band, ma sicuramente altamente valido. Pur essendo autoprodotto dalla band, dietro le fila di “Echoes” si è mosso in fase di mixaggio e mastering uno dei big della scena, ovvero Erik Martensson degli Eclipse.

L’opener “Fade Away” costruita su ottime melodie e una trascinante interazione di chitarre e tastiere ci consegna subito una band in grande forma, con un’ incisiva prova vocale di Daniel Groth. “Echoes” è anche un album in cui i suoni risultano finalmente freschi e poco “addomesticati”, cosa non da poco rispetto alle molte uscite di genere.
La seconda traccia è l’ottima “Dreams” , pezzo ben suonato e arrangiato dove è ancora la melodia a far da padrona con chiari richiami AOR.
Si prosegue con “Can’t Get Over You”, pezzo dal netto taglio Danger Danger, sorretto da una bella linea vocale incisiva e da un ritornello urlante.
“Without You” è uno dei tre singoli estratti, anche in questo caso si viaggia su territori marchiati da band come i già citati Danger Danger e tutta la derivativa scena scandinava degli ultimi decenni.
Ottime prove risultano anche le ritmate “In Your Eyes” e “Passion Ignite”. La titletrack strizza l’occhio ai migliori Bon Jovi degli anni 2000, rivelandosi un’altra grande canzone dell’album. Sul finale di solito ci si aspetta qualche filler, ma ecco “The One”, secondo singolo, che mantiene in piacevole tensione l’ascolto.
A far passare il mio voto da 80 a 85 è la delicata ballad “The Last Goodbye”, un pezzo aperto da piano e voce nella premiata tradizione bonjoviana, che alla lunga risulterà vincente proprio nella sua semplicità. Riffone di chitarra e parte “Reason”, il primo singolo con i quali i Nationwide si sono presentati. Chiude l’hard rock potente di “The Other Side”, giocata su ottimi intrecci chitarra e tastiera.

“Echoes” è un ottimo album, maturo, non scontato e soprattutto suonato ed arrangiato molto bene. I Nationwide sono una bella scoperta, un esordio che certamente lascia il segno in questo 2024.