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Fatal Vision – Three Times Lucky – Recensione

20 Dicembre 2024 0 Commenti Francesco Donato

genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Burning Mind

Esce per l’italiana Art of Melody Music, una divisione di Burning Minds Music Group, il terzo album in studio dei canadesi Fatal Vision.
La band proveniente da Ottawa dopo il debutto con “Once” (2022) che rompeva un silenzio di ben 30 anni, sforna lo scorso anno il secondo album “Twice” e sulla spinta di una fervida vena compositiva torna già sulle scene con questo “Three Times Lucky”.

Che non sia un disco prodotto di fretta giusto per cavalcare il ritrovato entusiasmo lo confermano le blasonate presenze in supporto alle fasi di registrazione.
Presenze collaborative del calibro di Jeff Scott Soto (Talisman, W.E.T. e tanti altri), Paul Laine (Danger Danger e The Defiants), Joel Hoekstra (Night Ranger e Whitesnake) Harry Hesse (Harem Scarem) e tantissimi altri aggiungono esperienza e lustro ad un album che si distende per quasi un’ora e venti minuti.

Si parte spediti con l’energica e melodica “Time Of Lives”, uno dei primi singoli dell’album, un pezzo che stabilisce immediatamente le coordinate dell’album: arrangiamenti ben curati e buone linee melodiche messe a terra per lasciare il segno, tant’è che il pezzo viene anche riproposto in chiusura del disco in duetto con Christine Corless. Si prosegue sulla stessa linea con “Dangerous”, con arrangiamenti curati e un ritornello molto accattivante. “Once in A Life Time” è una delle canzoni più riuscite di questo lavoro e, non a caso, è uno dei brani scelti come singoli promozionali, mostrandoci buone melodie che affondano le radici tra Styx e la scuola di casa, ovvero quella canadese. Arriva poi il momento della dolce e delicata “Another Life”, una canzone toccante scelta come ulteriore pezzo trainante dell’album. Tra i pezzi più riusciti troviamo “Goodbye”, un brano che soddisferà pienamente gli amanti dell’AOR più sincero. Il resto del disco si sviluppa mantenendo uniformi le coordinate artistiche senza particolari slanci o cali d’intensità, ma regalando sempre un gradevole sottofondo melodico.

Per concludere, se da un lato è da premiare la cura posta nell’assemblaggio generale di questo lavoro; dall’altro, non mi convincono appieno l’eccessiva durata e la carenza di veri e propri pezzi di spicco. Inoltre, per quanto mi riguarda, la voce di Marwood non  sempre riesce a infondere la giusta energia a molti dei brani presenti, ma questi sono gusti personali.

Tak Matsumoto Group – II – Recensione

14 Dicembre 2024 1 Commento Denis Abello

genere: Hard rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers Music Srl

TMG II segna il ritorno dei Tak Matsumoto Group dopo una pausa di 20 anni. Il trio, formato dal chitarrista giapponese Tak Matsumoto , Eric Martin (Mr. Big) e Jack Blades (Night Ranger, Damn Yankees, ex Revolution Saints), è affiancato da Matt Sorum (Guns N’ Roses, Velvet Revolver) alla batteria e Yukihide Takiyama negli arrangiamenti e supporto alla chitarra. L’album rappresenta un’evoluzione nel sound della band, mantenendo comunque il mix unico di rock orientale e occidentale, e includendo ospiti speciali come BABYMETAL e LiSA.

Apertura piena di energia sulle note di Crash Down Love, caratterizzata da riff carichi. Eternal Flames vede la partecipazione delle BABYMETAL creando un connubio unico tra il rock melodico di Eric Martin e la carica dance-metal delle BABYMETAL. La combinazione di elementi diversi rende la traccia tanto originale quanto probabilmente “strana” ai fan più talebani del genere.
The Story of Love (feat. LiSA) è una ballata intensa a cui viene aggiunto un tocco orchestrale che si intreccia bene con il sound rock della band​.
Color in the World è un brano ottimista, mentre Jupiter and Mars aggiunge qualche tocco prog che a onor del vero qua e la in tutto l’album si possono riscontrare a mio parere proprio nell’uso della chitarra.
My Life è un pezzo più introspettivo che con il successivo Endless Sky con le sue liriche evocative crea un bel connubio durante l’ascolto.
Si passa al blues con Dark Island Woman con un tratto che ricorda il rock anni ’70.
Si volge alla chiusura del disco e passando per Faithfull Now e The Great Divide si chiusde sulle note strumentali di un brano autocelebrativo come Guitar Hero.

“TMG II” è un album valido, che scorre bene e che può piacere sia a chi cerca un ascolto veloce e diretto che a chi vuole optare per un rock più ricercato. Manca però forse di un paio di pezzi che portino a segno colpi decisivi e, ma questo può essere anche solo un appunto personale, trovo la voce spesso messa troppo in secondo piano e ovattata rispetto alla parte strumentale.
Un buon ritorno per un album da cui forse però mi sarei aspettato una marcia in più!

Violet – Mysteria – Recensione

12 Dicembre 2024 2 Commenti Vittorio Mortara

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Metalopolis Records

A due anni dal clamoroso debutto, tornano i giovanissimi teutonici Violet. Forti dell’esperienza fatta dal vivo sui palchi di mezza Europa che ha portato un maggiore affiatamento ed alla consapevolezza dei propri mezzi, Jamie, Manuel & company ci propongono un album che muove i passi dal suo predecessore, ma aggiusta decisamente il tiro verso canzoni più lunghe ed ambiziose. Così facendo, tuttavia, il loro sound perde parte di quella freschezza ed immediatezza che straripava dai solchi del debutto, scivolando talvolta nello stucchevole.

A partire dall’opener “Sex and harmony”, rigonfia di tastiere e dal refrain pomposissimo. “Angelina (talk to me)” è invece un singolo abbastanza piacione e sfodera persino un azzeccato solo di sax. Bellissima “Bad dream”, così clamorosamente anni ’80 che non avrebbe sfigurato neppure in un album di Samantha Fox! Unica pecca: il lungo intermezzo di tastiere appesantisce inutilmente il tutto. “That night” rimane un po’ troppo sepolta sotto una coltre di tastiere. Tastiere presentissime anche in “Only you”, ma qui la bella vocina di Jamie riesce a prenderci per mano e condurci piacevolmente lungo tutto il pezzo dai forti colori pop. “Arms around you” paga un pesante tributo ai seminali Roxette, a partire dalla linea vocale assolutamente degna della compianta Marie Fredriksson. Tastiere e cori fanno da padroni su “I don’t want to fall in love”, carina ed immediata. La title track a chi vi scrive non dice un granché… al contrario di “Eighteen in love” che pare aver assimilato perfettamente i duetti Meat Loaf/Cher, ma pure Olivia Newton John/John Travolta. L’atto di chiusura del lavoro è affidato alla ballata pomp “If I had you”, troppo poco romantica per i gusti del vostro recensore.

Com’è questo disco? Beh, preso di per sé è un bel lavoro. Ma se avete ascoltato il suo predecessore, probabilmente sarete d’accordo con me sul fatto che fosse di una spanna superiore. Comunque, i ragazzi sono giovanissimi ed hanno davanti a loro giganteschi margini di miglioramento e sicuramente la possibilità di far maturare il loro sound fino ad assumere una personalità meglio definita.

Blind Golem – Wunderkammer – Recensione

10 Dicembre 2024 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Andromeda Relix

Per parlare del secondo album dei veronesi Blind Golem, dovrei riuscire a quantificare visivamente quanto sia il mio amore per le sonorità in questione, quell’hard rock settantiano di matrice chiaramente inglese e che vede Uriah Heep e Deep Purple come principali esponenti, ma è impossibile misurare una cosa talmente smisurata e scusate la ripetizione, ma non trovo altre parole adatte a farvene rendere conto. Disco che, come vedremo è molto variegato come composizioni, pur mantenendo una matrice hard/prog chiara e netta, qua e là, fanno capolino anche realtà più oscure come i Black Widow o gli High Tide, è certo che con queste premesse non si può ricercare qualsivoglia forma di originalità, ma la freschezza delle undici canzoni che compongono l’album è lì da vedere, ma soprattutto da sentire e questo perché i musicisti coinvolti nei Blind Golem non sono dei ragazzini alle prime armi, dato che Silvano Zago e Francesco Dalla Riva militano anche nei Bullfrog, band di hard blues attiva fin dal 1993 e con ben cinque album alle spalle, Simone Bistaffa ha suonato con Tolo Marton e con la tribute band Forever Deep, Andrea Vilardo canta con i progsters Moto Armonico e con la rock band Trifase, mentre Walter Mantovanelli è stato il batterista dei doomsters All Soul’s Day, di Paul Chain e tuttora suona con gli hard rockers Rocken Factory. Con questo bagaglio di esperienza, non poteva che venir fuori un’opera curata in tutti i sensi, sia come songwriting che come esecuzione, sia come artwork, che come produzione, basti pensare che i Blind Golem hanno “scomodato” Rodney Matthews, per copertina e retro, uno che, come saprete, ha curato gli artwork per Tygers of Pan Tang, Magnum, Asia, Diamond Head, cosa peraltro già successa con il precedente e altrettanto bello “A dream of fantasy” del 2021.

Rispetto all’esordio, in questo “Wunderkammer” (che significa stanza delle meraviglie, ossia una stanza che aveva di solito un’importanza per chi l’aveva fatta costruire o l’aveva decorata, come quella scoperta circa vent’anni fa a Palermo), c’è un certo spostamento verso l’Heep sound, quello che aveva caratterizzato la band di Ken Hensley (che è stato ospite in un brano del disco precedente) almeno fino a “Return to fantasy”, quindi quell’hard rock con tanti riferimenti al prog e tanti inserti melodici, sia vocali che. soprattutto, tastieristici e anche se l’opener “Gorgon” è più orientata verso i Deep Purple, con il suo assalto frontale di riff chitarristico e l’Hammond in stile John Lord, già dalla successiva “Some kind of poet” si ritorna verso gli Heep, con i cori polifonici e l’alternanza dei solos di chitarra e di tastiera, con “Endless run” ci si sposta verso lidi prog e si respira un’atmosfera quasi incantata, tipica di certe scelte attuate da alcuni gruppi nostrani quali la P.F.M. e Le Orme. Il Moog diventa protagonista con “Man of many tricks” a sostenere un brano dove la voce e la chitarra vanno a braccetto, in “How tomorrow feels” prende il microfono il bassista Francesco Dalla Riva e si sente la differenza con l’ottimo Andrea Vilardo, ma penso che la cosa sia voluta, quasi a ricalcare una similitudine con il timbro attuale di Bernie Shaw e quindi un aversione più aggiornata dell’Heep sound, bello lo stacco acustico che precede un finale coinvolgente, mentre con “Golem!” si arriva ad un songwriting più variegato, il che ricorda più le canzoni dell’esordio, belle le ripartenze continue e l’acustica nel finale, “Just a feeling” parte soffusa per poi sfociare in un susseguirsi di tutti gli strumenti, molto interessante l’uso del basso, e della voce molto enfatica, “It happened in the woods” si apre con l’intro letto da Alessandra Adami, la moglie di Dalla Riva, il quale si cimenta ancora con la voce principale a sostenere un brano dal mood orrorifico, con un synth squarciante e se volevate un singolo ecco “Born liars”, brano dall’andamento chiaramente orecchiabile, ma non per questo meno appetibile rispetto al resto dell’album, con un ritornello decisamente insistente, “Green eye” è stata “presa in prestito” dagli Uriah Heep stessi ed in particolare da Ken Hensley, che ne aveva scritta una versione demo nel 1972, mai finita su alcun disco degli Heep, i Blind Golem la hanno terminata e ne hanno portata alla luce la bellezza classica, la chiusura è affidata a “Coda…entering the Wunderkammer”, ideale seguito di “Golem!”, un quasi strumentale poggiato su voce e Hammond, farcito di assoli tanto lunghi, quanto affascinanti.

Se cercate originalità, state alla larga da “Wunderkammer”, qui dentro non c’è niente che non si sia già sentito durante gli anni settanta, ma quello che conta è il trasporto, l’amore per certe sonorità da parte dei Blind Golem, che non fa storcere il naso, ma sa di vecchio, quanto di fresco, sembra un paradosso, ma in realtà, se ascoltate le idee compositive ed esecutive di Silvano Zago e soci, capirete che non siamo di fronte ad un semplice duplicato di band storiche, come se una cover band suonasse pezzi originali, una sorta di tribute band di un’ intera epoca musicale, spero dunque di aver reso l’idea, e che apprezzerete questo disco, così come l’ho apprezzato io.

Heart 2 Heart – Alley of Dreams – Recensione

08 Dicembre 2024 1 Commento Denis Abello

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Self Released

“Alley of Dreams” è il secondo album della band spagnola Heart 2 Heart, gruppo spagnolo che mescola l’AOR classico con un tocco moderno, aggiungendo una voce femminile che giocoforza porta a ricordare nomi quali Heart e Robin Beck.
Guidati infatti dalla talentuosa Sara Verge, cantante e tastierista, gli Heart 2 Heart riescono a bilanciare energia e melodia con un sound curato e una valida produzione.

L’album parte con “The Arrival”, un’introduzione strumentale che sembra una sorta di riscaldamento per quello che arriverà. Si passa poi subito a “Alley of Dreams”, la title track, che a fine ascolto potrebbe essere vista come il cuore dell’album. Chitarre potenti, tastiere che creano un’atmosfera sognante, e la voce di Sara che dà quel tocco di drammaticità perfetto. È un brano che sembra invitarti a perderti in un mondo fatto di ambizioni e nostalgia.
Con “2.000 Miles” il ritmo si intensifica unendo riff accattivanti a un ritornello infettivo, una di quelle canzoni che ti restano in testa fin dal primo ascolto. “Stay”, invece, abbassa un po’ i toni ma punta tutto sulle emozioni, con un ritornello che sembra fatto apposta per essere cantato a squarciagola.
“Empty Streets” è una ballata che ti conquista lentamente: l’inizio delicato lascia spazio a un crescendo emozionante, e l’interpretazione vocale di Sara dona un bel tocco di pathos. Uno di quei pezzi da ascoltare in una notte solitaria. “Hold Me” è un brano più orecchiabile, quasi pop-rock che lo rende leggero e perfetto per un ascolto spensierato.
A metà album troviamo “Turn Back Time”, un pezzo che esplora un lato più introspettivo della band, con arrangiamenti ricchi e una sezione ritmica che fa da collante. “Fire Inside” riaccende l’energia, con chitarre a dare una bella carica esplosiva, mentre “Under the Moonlight” aggiunge un tocco di mistero, grazie alle sue atmosfere soffuse e al gioco tra voce e strumenti.
Il disco, quasi a voler chiudere il cerchio iniziato con “The Arrival”, abbassa il sipario con “Final Horizon”, una traccia che combina elementi epici e nostalgici.

In definitiva questo lavoro può fregiarsi di una buona produzione, un songwriting con brani capaci di emozionare e intrattenere e un’interpretazione vocale di Sara Verge che convince. La varietà delle tracce mantiene vivo l’interesse dall’inizio alla fine. Potrebbe guadagnare punti extra con un tocco di originalità in più o qualche rischio maggiore nella struttura dei pezzi, ma è sicuramente un disco solido e godibile per gli amanti del rock melodico e dell’AOR.

Powell-Payne – Voilà – Recensione

06 Dicembre 2024 1 Commento Samuele Mannini

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Powell-Payne è una band gallese formata da quattro talentuosi musicisti. Fondata nel 2022 da Mark Powell (ex batterista dei Psycho Kiss) e Adam Payne (ex-cantante degli Airrace), la band ha iniziato il suo viaggio con l’obiettivo di creare una canzone speciale dedicata ai loro cari scomparsi. Durante il processo creativo, Mark e Adam hanno scoperto una straordinaria sintonia, che li ha portati a collaborare con altri musicisti per dare vita a un intero album. Questo è in estrema sintesi ciò che l’etichetta discografica dichiara a proposito della nascita di questo progetto.

Passando alla musica, “Voilà”, offre un viaggio nostalgico nel sound classico dell’Adult Oriented Rock, ma non riesce a distinguersi completamente nel panorama musicale attuale. Sebbene le performance musicali siano generalmente apprezzabili e il disco si lasci ascoltare gradevolmente, emergono a mio modesto parere alcuni punti deboli che non possono essere ignorati.

Nonostante “Better Days” e “No Escape” siano tracce di apertura accattivanti e piene di hook melodici, l’album soffre di una marcata sensazione di déjà vu. Le composizioni aderiscono eccessivamente ai canoni classici dell’Hard Rock e dell’AOR degli anni ’80, risultando in una mancanza di originalità che fa sembrare molte canzoni un mero esercizio di stile. Ad esempio, il rock and roll alla Crue di “Voices” è efficace, ma non coinvolgente; l’hard blues Thunderiano di “Questions” è piacevole, ma odora di già sentito al primo giro di accordi; infine, la ballata “Distance Between Us”, pur essendo di ottima fattura, richiama troppo da vicino le atmosfere del Richard Marx d’annata.

Un altro aspetto critico è, a mio avviso, la produzione dell’album, che mi lascia alquanto titubante, almeno nella versione che ho avuto modo di ascoltare. Il suono appare chiuso e velato, con il canale sinistro non perfettamente bilanciato sulle frequenze più alte. Sebbene gli arrangiamenti siano accurati e le performance di buon livello, l’ottima voce di Adam Payne non riesce sempre ad emergere nel modo migliore, e le chitarre di Aydan Watkins, seppur taglienti e melodiche, a volte vengono sommerse da un mix poco equilibrato. Sottolineo che potrebbe trattarsi di una mia impressione personale o magari i file che mi sono stati inviati non sono la versione definitiva, ma questo è ciò che ho percepito e desidero condividerlo con voi.

In definitiva, “Voilà” è un album che ha il potenziale per piacere ai nostalgici dell’AOR, pur faticando ad offrire qualcosa di veramente distintivo. Sarà l’ascoltatore a dover decidere se il disco vale la pena di essere acquistato, io ne consiglio comunque l’ascolto perché il potenziale c’è e magari, rotti gli indugi, il prossimo disco ci potrebbe regalare grosse sorprese.

 

At 1980 – Forget To Remember – Recensione

04 Dicembre 2024 1 Commento Denis Abello

genere: Synthwave
anno: 2024
etichetta: Self Released

Si, l’album è uscito a fine marzo, ma visto che siamo in chiusura dell’anno e per varie vicissitudini non abbiamo potuto recensirlo al tempo, adesso, che ci siamo armati del tempo necessario per un ascolto approfondito, ci sembra giusto rimediare.

At 1980, formato da Adrian Quesada Michelena e Josh Dally, è un duo synthwave che unisce con maestria il fascino della nostalgia anni ’80 tipico dell’AOR/Synth con una produzione moderna e sofisticata. Negli ultimi anni, si sono fatti conoscere per la loro capacità di raccontare storie emozionanti attraverso melodie avvolgenti e testi toccanti, ritagliandosi un ruolo significativo tra gli amanti del genere. Il loro ultimo album, “Forget to Remember”, è un viaggio intimo e cinematografico che punta tutto sul lato emotivo.

L’album si apre con la title track “Forget to Remember”, che stabilisce immediatamente il tono malinconico e riflessivo del disco, con sintetizzatori eterei e testi evocativi. Seguono pezzi come “Pieces of Me”, realizzata con la collaborazione di Shadowrunner, che offre una ballata struggente e toccante. “Give a Little Love” rappresenta una parentesi più ottimista, esplorando l’importanza dell’amore nelle avversità. La traccia strumentale “The Magic Wind” trasporta l’ascoltatore in una dimensione onirica, creando un’atmosfera contemplativa. “Somebody Else” descrive il dolore della fine di una relazione, mentre “Let Me Go”, con le voci di Syst3m Glitch e Camille Glémet, si distingue nettamente come il brano emotivamente più intenso, narrando una separazione inevitabile. Infine, “Ab Aeterno” chiude l’album con una melodia luminosa e riflessiva, lasciando una sensazione di speranza e catarsi.

In conclusione, “Forget to Remember” è un album che colpisce per la sua coerenza narrativa e la profondità emotiva. Il mix di voci e sintetizzatori crea un’esperienza immersiva, e i temi trattati, pur essendo universali, sono resi unici dalla loro interpretazione sonora. Gli AT 1980 dimostrano la loro abilità nel creare musica che è sia nostalgica sia attuale, con un’estetica sonora che riesce a evocare immagini vivide e sentimenti autentici. Questo lavoro è un piccolo gioiello per gli amanti della synthwave e per chiunque apprezzi musica capace di trasportare in un altro tempo e luogo. Per rimanere ben ancorati nelle atmosfere ottantiane, l’album è stato reso disponibile in vari formati, tra cui una cassetta in edizione limitata, che aggiunge un tocco di autenticità retrò all’esperienza di ascolto.

Mystery Moon- Shine – Recensione

04 Dicembre 2024 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Pride&Joy

Fine anno col botto con una grande uscita: la coppia Pfeffer – Lundgren torna all’attacco con un nuovo lavoro a tratti esaltante e di grande impatto.

Partenza affidata alla granitica “Now’s The Time”, deliziosa nella dinamica, capace di alternare un riff poderoso con una parte vocale raffinata e suadente. La title track “Shine” non delude le aspettative: sound contemporaneo ed ottima esecuzione complessiva, un brano che non stanca e che scatena. “The Hidden Magic” ci porta ad un livello superiore, con la sua atmosfera misteriosa e la sua trama strumentale sopraffina: promossa a pieni voti. “The Mystery” non si discosta molto dalla filosofia dell’album, mantenendosi su altissimi livelli compositivi ed esecutivi. Come in tutti gli album hard rock che si rispettino, arriva il momento ballata: “Moment Of Life” rispetta perfettamente i canoni di genere e di tipologia di brano, attestandosi come una buonissima prova realizzativa. “Mindset (Road I’m On)” è un brano di transizione, dal riff spezzetato e incalzante, che vale la pena di essere ascoltato con calma, così da poterne capire le molteplici sfaccettature. Arriviamo alla quadrata “Crossroad In My Heart”, cupa, evocativa e dal sapore antico, che sfocia nella ben più cattiva “Sudden Rupture”, pestata, crudele, ugualmente speciale. Ci calmiamo e riflettiamo sulle note di “Nature’s Way”, delicata e dolce, che ci sta benissimo nel computo generale dell’opera: giusto prendersi delle pause dalla frenesia dell’hard rock per godersi una ballatona emozionante. Il riff graffiante di “Frustration” ci coinvolge pienamente, mettendo in mostra per l’ennesima volta una grandissima tecnica individuale. Arriviamo a “Stars In A Million Miles Away”, lunga, elaborata, sorprendente, una traccia che non ha paura di essere quello che è, varia e piacevolissima. La versione al piano di “Moment Of Life” ci congeda da questo album molto interessante, eseguito in maniera impeccabile, dagli spunti creativi importanti e meritevole di essere ascoltato e riascoltato: certezza.

Tessilgar – Growth – Recensione

03 Dicembre 2024 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard’n’heavy
anno: 2024
etichetta: Self Released

Chiariamo subito una cosa prima ancora di parlare di “Growth”, album d’esordio dei lodigiani Tessilgar, il fatto che uno dei due chitarristi scriva per questo sito, non influisce minimamente sul giudizio che do all’album e chi mi conosce lo sa che è così, ma onde evitare che qualche fenomeno, come già successo in passato su un altro sito, lo dica, è meglio far capire subito che qualsiasi sparata in tal senso, ha la stessa valenza di una banconota da due euro e adesso passiamo ai fatti!

I Tessilgar arrivano, come già detto, da Lodi e zone limitrofe e nel tempo, dato che sono in giro da oltre quindici anni, hanno cambiato la loro proposta musicale, che inizialmente riguardava cover dei Bon Jovi e dei Motley Crue, fino ad arrivare ad inglobare influenze disparate che hanno definito un sound poco comune, nella loro bio citano Black Sabbath, Soundgarden, Avenged Sevenfold, Shinedown e sinceramente, per una volta, non dissento da quello che viene scritto, sarà che non c’è nessuna etichetta a pompare inverosimilmente con sproloqui molte volte inadatti, ma la sola e semplice voglia dei ragazzi lombardi di farsi conoscere molto onestamente.

il disco è molto ben ideato, confezionato ed è prodotto dagli stessi Tessilgar, che hanno usato un tipo di registrazione sì di stampo moderno, ma senza esagerare con iperproduzioni, che negli ultimi tempi sono tristemente frequenti nelle uscite delle grandi etichette e particolarmente interessanti, oltre agli intrecci sonori non tanto comuni per una band di estrazione hard rock, sono i testi ed in particolar modo mi interessano quelli dei brani che in assoluto ritengo gli highlights dell’album, ossia l’opener “Agony” dall’ottimo groove e centrata come apripista dell’album, il testo che, come tutti gli altri è ad opera del talentuoso cantante Stefano Panizzari, racconta delle sensazioni che avvolgono chi soffre di depressione e della conseguente agonia che attanaglia chi ne è colpito, quindi il primo singolo “By your side”, pubblicato quasi due anni fa che se da un lato, ricorda certo passato hard, dall’altro parla di bipolarismo e dell’alternanza di stati mentali, seguita poi da “Call on me”, sofferta ballad dal tiro novantiano che racconta una tristemente attuale storia di abusi da parte di un padre nei confronti della figlia e da “Narcissus”, pezzo dall’andamento un filo più complesso, che, capirete bene dal titolo tratta il tema del narcisismo, ma non mi voglio dilungare particolarmente su questi argomenti che tratteremo in maniera più approfondita in un’intervista di prossima pubblicazione con la band stessa.
Detto degli altri due singoli, ossia “You know” dal tiro snello e dal riff efficace e “Your fight”, incalzante ed incisiva, si passa al lato oscuro di “Growth”, con la pesantezza quasi doomy di “Bad game” spezzata da un assolo di ampio respiro, salvo poi spostarsi verso il metal più classico di “Wax circles”, che ha però la peculiarità di linee vocali striscianti ed insidiose; “The mind on the wave” risulta l’episodio che mi ha colpito di meno, non che sia una brutta canzone, anzi, ma il suo andamento in bilico tra post thrash e ricerca di melodia obliqua, non mi sembra che colga nel segno, come invece fa la conclusiva “Why you ever wandered” che pur muovendosi su simili coordinate, risulta più efficace, soprattutto nell’azzeccato ritornello e più in generale nelle soluzioni vocali del bravo Stefano, uno che mi ha ricordato il grande “Bud” Ancillotti della Strana Officina nei momenti più tosti e l’altrettanto grande Chris Cornell in altri frangenti più intimi, mi preme parlare anche della prestazione degli altri ragazzi, tutti all’altezza ed in particolare degli assoli con gusto di Gabriele d’Alessandro e Alberto Rozza, del pulsante e corposo basso di Luca Lodigiani e del grande lavoro di Matteo Lo Sicco dietro alle pelli.

Growth significa crescita, cosa che sicuramente i Tessilgar hanno ben presente cosa significhi, dato il passo già effettuato dal loro passato al loro presente e se tanto mi da tanto, il loro futuro riserverà altre sorprese, chiaramente non tutti accettano di buon grado i cambiamenti, ma chi lo fa, innanzitutto dimostra coraggio, a volte misto ad incoscienza, ma io penso che una band come loro vada premiata, specialmente se cerca di reinventarsi rimanendo fedele a se stessi, lo so, sembra un paradosso, ma se ascolterete l’album con attenzione, al di là di qualche passaggio da affinare, capirete di cosa sto parlando.

Storace – Crossfire – Recensione

27 Novembre 2024 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Marc Storace è tornato, come ha sempre fatto quando i Krokus si sono fermati, anche stavolta che la band madre, seppur riformatasi per alcuni concerti, è finita in naftalina, lui continua a sparare hard rock’n’roll ad alto voltaggio; tutti sappiamo dell’amore dei Krokus per gli Ac/Dc, ma sappiamo anche che in diversi momenti, hanno toccato a più riprese il metal classico, l’hard melodico e l’hair metal, ecco, in “Crossfire” si ritrova tutto questo, quasi come se fosse un compendio della carriera di Fernando Von Arb e soci.

Ma la domanda è, dato che l’album arriva da un’etichetta che sta facendo uscire quasi solo gruppi nostalgici, il più delle volte interessanti quanto un programma di televendite, è proprio necessario che Marc ritorni con qualcosa che ha già proposto decine di volte in passato? Stavolta sì, perché lui sa fare questo e maledettamente bene, ci sono artisti che, non è che non possono, non devono variare la loro idea musicale, un po’ come se i già citati Ac/Dc si mettessero a fare aor o death metal, sarebbe comunque un disastro! Per cui, dato che Marc questo lo sa fare davvero in maniera egregia e dato che ha queste idee che per il momento non possono essere usate per i Krokus, perché cambiare? Quindi, già dall’opener “Screaming demon” ci da giù a colpi di rock’n’roll coinvolgente con un riff e un ritornello che si stampano in testa, prosegue con un interludio come “The new unity” che funge da apripista per il mid tempo ottantiano di “Rock this city”, subito doppiato da “Adrenaline”, che rimane su quelle coordinate, salvo avere un incedere più “strisciante”, ma il primo amore non si scorda mai e allora ecco “Love thing stealer” e “Let’s get nuts” che sono in pieno stile della band più famosa proveniente dalla terra dei canguri, chi indovina il nome vince un funko pop di Angus Young…

Sparate un nome a caso dei gruppi che invadevano il Sunset Boulevard negli anni ottanta e sicuramente ci prendete con il riferimento che esce da “Thrill and a kiss”, ariosa e muscolosa al tempo stesso, si ritorna a bomba nel rock’n’roll più puro con “We all need the money”, dal classico giro in quattro note che è sempre e comunque coinvolgente e seppur con “Hell yeah” non sembra neanche di ascoltare lo stesso gruppo, tanto è prevedibile (sì, ancora di più dei brani Ac/Dc oriented) e fin troppo ‘facile’, l’hard blues di “Millionaire blues” risolleva da subito l’adrenalina, semplice, ma efficace, tanto che il piedino mi si muove in automatico ogni volta che l’ascolto e allora voi direte, ok, ma i Krokus sono anche più muscolari e io vi rispondo, vero, difatti questa è la differenza principale tra questo progetto di Marc e la sua band più importante, però se qualcuno di voi ha nostalgia degli autori di “Headhunter” e pensa che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere, può ritenersi soddisfatto di “Sirens”, un bel metallone diretto con tanto di cori potenti e atmosfere epico/apocalittiche e se il titolo della canzone precedente può aver fatto venire in mente i Savatage, senza però aver alcun contatto con il brano dei fratelli Oliva, la chiusura con “Only love can hurt like this”, sembra quasi uscita dalla mente e i tasti d’avorio di Jon, sia come atmosfere, che come trasporto nel cantato di Marc.

Di solito non mi piace citare quello che le etichette scrivono nell’info sheet, ma mi sembra giusto rimarcare il lavoro fatto da Tommy Henriksen alla produzione e al songwriting condiviso con lo stesso Marc, si sente che questo signore ha suonato con Doro e tuttora fa parte degli Hollywood Vampires e della band di Alice Cooper e quello svolto al mixing da Olle Romo, l’ingegnere del suono di un certo John “Mutt” Lange, tutto questo depone nettamente a favore degli Storace, che, ripeto, magari non fanno nulla di eccezionale, ma lo fanno davvero, ma davvero molto bene!