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29 Gennaio 2025 4 Commenti Denis Abello
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Allora, partiamo subito con il dire che se siete amanti dei “vecchi” Bonfire, quindi per chiarirci era Lessmann e roba tendenzialmente melodica, e non avete vissuto in un tombino negli ultimi anni (nel qual caso sappiate che Lessmann non c’è più alla voce) oltre al cambio di più voci sicuramente saprete anche che il sound della band capitanata dalla chitarra di Hans Ziller ormai ha virato verso un hard rock al limite con l’heavy metal! Non richiudetevi però nel tombino perché forse quello che leggerete vi potrebbe comunque incuriosire.
Ecco, questo nuovo album a titolo Higher Ground, prima fatica sotto la bandiera della nostrana Frontiers Music, conferma questa strada hard/heavy rock e porta con se l’ennesimo cambio dietro al microfono per la band Tedesca che vede ora Dyan Mair a giostrare la parte di frontman.
Stabili ormai da qualche anno troviamo invece Frank Pané alla chitarra e Ronnie Parkers al basso. Chiude la formazione Fabio Alessandrini alla batteria!
L’album attacca con un’intro carica di tensione ma sostanzialmente inutile per poi lanciarsi diretta sulle note del singolo I Will Rise. Un bel pezzo, niente di eclatante o fuori dagli schemi ma un brano nerboruto che sa di vecchia scuola heavy metal teutonica!
Sempre di scuola heavy metal la voce di Dyan fa parte dei bravi urlatori che tutto sommato convince non solo urlando… infatti pare funzionare anche su bravi che riportano ai Bonfire di matrice hard rock come sulle note di Higher Ground!
Si continua bene anche con la successiva, questa volta urlata, I Died Tonight (riconoscete la voce ai cori?) per perdersi un po’ sulla cavalcata power metal azzoppato di Lost All Control.
When Love Comes Down è la classica ballata che si lascia ascoltare senza colpo ferire, ma comunque con qualche scelta stilistica degna di nota.
Fallin’ è un buon intermezzo mentre la successiva Come Hell Or High Water piazza una sorta di doom rock che mi lascia un gusto insipido in bocca. Meglio con la successiva Jealousy che qui si che piazza una bella cavalcata in stile hard rock!
Si poteva chiudere tranquillamente in serenità con Spinnin’ in the Black ma i nostri piazzano ancora un colpo con la ripubblicazione in edizione 2024 del brano Rock N Roll Survivor… funzionava nel 2020, funziona ancora adesso (con una voce differente). Sicuro pezzo da casino nei Live!
Che dire, mi sono accostato a questo album con poche speranze e invece mi sono ritrovato ad ascoltare un album che regala un buon minutaggio musicale ascoltabile e godibile. I vecchi Bonfire sono i vecchi Bonfire ma questo nuovo corso in questa versione con il buon Dyan alla voce forse che forse qualcosa da dire all’alba di questo 2025 ce l’ha ancora!
So che a questo punto da buoni vecchi occupatori abusivi di tombini vi state facendo la fatidica domanda… ma quindi, cosa rimane dei “vecchi” Bonfire?
Hans Ziller ed il nome…
23 Gennaio 2025 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Melodic Hard Rock/ AOR
anno: 2025
etichetta: Pride & Joy
“Becoming The Enemy” è il quarto album della band britannica Trishula. La formazione è guidata dal chitarrista e compositore Neil Fraser, noto per le sue collaborazioni con Ten, Ged Rylands e Tony Mills. Insieme a lui ci sono il cantante Jason Morgan (Rage of Angels), il tastierista Rick Benton (Magnum), il bassista Dan Clark (Rebecca Downes Band) e il batterista Neil Ogden (Demon).
L’album propone un mix di ritmi energici e melodie accattivanti, con brani che spaziano dall’hard rock grintoso a ballate emozionali. Le influenze musicali attingono ampiamente dalla scena britannica, con richiami a band come Magnum, Ten ed anche Thunder quando si vanno a toccare le sfumature blues. Tra le tracce più riuscite emergono i due brani di apertura, “Wardance (Long Live The Rising)” e “Will Heaven Ever Give Us What We Need”, in cui il vocalist Jason Morgan riesce a dare il meglio di sé. Degna di nota è anche l’incalzante e orecchiabile “The Walls of Eden”. La parte centrale del disco, invece, zoppica un po’, non riuscendo ad incidere e restando solo un gradevole sottofondo. Tuttavia, il colpo da maestro, e vero gioiello del disco, arriva in conclusione, ed è la ballata “Hold My Hand”. Se, dopo 40 anni di ascolto di questo genere, una canzone riesce ancora a commuovermi, significa che c’è davvero qualità.
In sintesi, “Becoming The Enemy” dimostra la capacità dei Trishula di creare canzoni coinvolgenti, con melodie curate, assoli di chitarra ispirati e ritmi incalzanti. Nonostante le influenze evidenti, la band riesce a mantenere una propria identità sonora, evitando di cadere nel semplice copia e incolla. Nel complesso, si tratta di un album che merita attenzione da parte degli amanti del rock melodico. A mio personale avviso, è senza dubbio il miglior disco di gennaio in questo ambito musicale.
23 Gennaio 2025 1 Commento Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Iniziamo il 2025 con l’energia e la potenza di “Avenger”, ultima fatica di studio degli Wildness, band svedese dal degnissimo curriculum live e dal sound riconoscibile.
Ritmiche serrate e taglienti ci danno il benvenuto: “Wings Of Fire” è una buonissima presentazione, con tutti i crismi del genere e una esecuzione di livello. “Crucified” è un esempio di coralità e di trame ben strutturate, dal ritornello che fa presa e dall’arrangiamento convincente. Arriviamo a “Broken Heart”, dalla grande dinamica, capace di mischiare ritmiche toste a un’ambientazione delicata e suadente. Con “Caught Up In A Moment” ci addentriamo in un brano introspettivo e convinto, tradizionale nella struttura strumentale, ma dagli slanci non banali, soprattutto nella parte del solo. Caliamo il tiro: “Wasted Time” risulta piacevole e leggera, senza grandi lampi di fantasia e di originalità, passando senza grandi ricordi. Ci imbattiamo nella title track “Avenger”, poderosa, potentissima, quadrata, un brano che resta impresso, sia nella strofa che nel ritornello cantabilissimo: un piccolo gioiello. “Poison Ivy” è un pezzo che si lascia ascoltare, dalle atmosfere oscure, che ancora pecca in originalità, così come la successiva “I’ll Be Over You”, che lascia un po’ quella sensazione di già sentito. “Stand Your Ground” sale di livello: le ritmiche tornano a rombare e la voce si fa più crudele e tirata, facendo scatenare l’ascoltatore. Asciutta e cadenzata, “Eye Of The Storm” non stupisce più di tanto, facendoci tornare quella sensazione “montagne russe” che caratterizza questo lavoro: un saliscendi tra alti e bassi costante. Concludiamo l’ascolto con la scatenata “Walk Through The Fire”, in linea con il disco, che globalmente risulta essere ben eseguito ma discontinuo per dinamica ed energia.
23 Gennaio 2025 2 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Power Metal
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Devo essere sincero, avevo abbandonato i Labyrinth dopo “Return to heaven denied pt.II”, che forse proprio per il richiamo al suo illustre predecessore, non mi aveva particolarmente colpito, probabilmente avevo richiesto molto a quell’album, il quale non mi aveva dato le sensazioni che perlomeno in piccola parte mi aveva dato il primo episodio, ora, con le premesse di un incattivimento del sound, ritorno a dare una possibilità alla band toscana, pur addentrandomi nel ginepraio del power metal, genere da me oramai completamente tralasciato, e delle produzioni Frontiers, tutte molto simili soprattutto a livelli di ispirazione e di suoni.
Ebbene, nonostante in fase di presentazione attraverso il press kit del promo, i componenti della band abbiano dichiarato: “ci sentiamo sempre più liberi da formule e confini stilistici che a volte intrappolano una band in un genere musicale specifico. Con questo album, ci siamo prefissati di raggiungere la totale libertà, consentendo a ciascuno di noi di esprimersi pienamente”, alla fine lo schema è quello, ossia power metal con ritornelli ariosi, velocità, doppia cassa e schema compositivo dei brani molto lineare, per cui, niente di nuovo sotto il sole, ma allora, ha senso pubblicare ancora un album con uno stile rimasto quasi invariato da trent’anni? Se si ricerca la novità a tutti i costi, no, anzi, ma se si vuole ascoltare quasi un’ora di musica ben suonata, ottimamente cantata da uno splendido Roberto Tiranti e prodotta con i controc…i, beh, direi che ci siamo e fidatevi, se lo dico io, che uso i miei cd di power metal comperati negli anni novanta come sottobicchieri…
Apertura devastante quella affidata a ‘Welcome twilight’, classico speed power metal, ma con ritmiche rocciose e la prima delle fantastiche esibizioni di Tiranti che declama un testo di amara verità, ossia la progressiva perdita della libertà che, attraverso gli avvenimenti degli ultimi anni si sta letteralmente disgregando sotto i colpi di chi decide, molto simile per approccio stilistico la successiva ‘Accept the changes’ che non dice niente di nuovo, così si arriva al secondo singolo, quella ‘Out of place’, dall’andamento simil prog metal, una semiballad che non segue i canoni, complice una furiosa accelerazione nella parte centrale e se il ritornello risulta decisamente classico, l’assolo di Andrea Cantarelli fa sognare portando il pezzo su lidi quasi onirici e fin qui abbiamo qualcosa che rappresenta l’anima dei Labyrinth da sempre e si potrebbe andare avanti con la solita, tediosa, track by track, ma ha senso? Assolutamente no, perché sappiamo benissimo che lo stile dei Labyrinth è quello del power speed metal classico e descrivere una canzone dopo l’altra sarebbe come scoprire l’acqua calda e allora, andiamo a vedere dove veramente la band riesce a tirar fuori quella grinta di cui sopra o stupirci con idee particolari e allora ecco “Heading for nowhere” che, a dispetto di un ritornello classicissimo valorizzato da un Tiranti maestoso, spazza con furia thrash qualsiasi dubbio sulla direzione che i Labyrinth hanno impostato già dal precedente “Welcome to the absurd circus” e mi preme di sottolineare come Oleg Smirnoff si inserisca alla perfezione su questo tappeto sonoro, laddove Andrea Cantarelli e Olaf Thorsen normalmente sparano le loro ritmiche e per far capire che la classe non è acqua, se ce ne fosse ancora bisogno, ecco la ballad “To the son I never had”, in bilico tra malinconia e splendore, grazie anche, e non temo di dire una bestemmia, al giro acustico che ricorda certe cose degli Alice in Chains e se vogliamo passare da una pulsione all’altra basta ascoltare “The right side of this world”, mid tempo dal refrain melodico e subito dopo “Inhuman race”, un monolite di stampo prog-thrash, in cui tutti, ma proprio tutti i musicisti dei Labyrinth danno il meglio di se, come idee e come esecuzione, a questo proposito, tanto fa la sezione ritmica del bassista Nik Mazzucconi e del terremotante, bravissimo batterista Matt Peruzzi, spiazzante infine il break di piano centrale, che porta verso la fine del disco in modo ancora una volta vigorosamente maestoso.
Prima di concludere mi piace parlare del duo d’asce Cantarelli-Thorsen, con il primo sugli scudi in fase di assoli al fulmicotone ed il secondo, più posato, quasi in stile Gilmouriano, tutto questo è stato registrato, come capita spesso ultimamente ai Domination Studio di Simone Mularoni, che da un tocco meno finto, meno pompato, quasi live e io non posso che esserne contento, data l’omologazione dei suoni oramai presente in quasi tutti gli album pubblicati, soprattutto, dalle grandi etichette, quindi, stranamente, promuovo a pieni voti un disco power metal, ma forse perché, quando si tratta dei Labyrinth, il termine risulta molto, molto stretto!
23 Gennaio 2025 0 Commenti Vittorio Mortara
genere: AOR
anno: 2025
etichetta: Pride & Joy
Ormai ho perso il conto di quanti dischi abbia fatto Mikael, tra progetti solisti, collaborazioni e bands. Comunque, nonostante ciò, il non più giovanissimo svedesone riesce sempre a confezionare ottimi prodotti. Certo, ormai da lui sappiamo cosa aspettarci e soprattutto cosa non aspettarci. Ma alla fine le sue canzoni le ascoltiamo sempre volentieri. Sono garbate, ben suonate, orecchiabili. Insomma, ogni uscita ci garantisce un’oretta di piacevole svago. Il che non è assolutamente poco. E così succede anche per questo “The Second 1”, il cui titolo si rifà al debutto solista, “The 1”, del lontanissimo 1994.
Si comincia con “Evil eye” dal ballonzolante ritmo funky, ma ciò che permea i solchi di quest’album, dall’inizio alla fine, è l’amore sconfinato per i Beatles. “Call my name” lo grida a pieni polmoni. Tempo di apprezzare l’aorreggiante “Ricochet” che si torna a Liverpool con il bel lento “Paper moon” e la successiva e più movimentata “Circus”. “Flamenco in the snow” tiene fede al suo titolo, invitandoci a balli andalusi nelle fredde lande svedesi. Ascoltiamo la canonica ma apprezzabile e ritmata “Bug” e poi arriva un lento da film hollywoodiano fine anni 80, “C’est la vie”, che a noi attempati rocchettari fa stringere un po’ il cuore. Seguono fab four e ancora fab four, allo stato puro in “Put some love in the world”, già pubblicata come CD-single (!!!) nel 2008, e piegati all’AOR nella mia traccia favorita “Knocking on a broken heart”. E siamo in chiusura sulle note sulla pomposa “Geronimo” con tutti i suoi cori e contro cori.
Si, so già che cosa penserà la maggior parte di voi lettori: ecco l’ennesimo disco di Erlandsson… Beh, finché il nostro instancabile biondo crinito cantante ci proporrà lavori così godibili, per me sarà sempre il benvenuto. Anzi, quando un bel giorno non vedrò uscire un suo disco nel corso di un anno comincerò seriamente a preoccuparmi! Mi verrebbe a mancare una delle certezze incrollabili! Grazie per esserci Mikael!
19 Gennaio 2025 5 Commenti Paolo Paganini
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Il power rock dei The Big Deal nasce e si sviluppa in Serbia a partire dal 2020 in un paese non certo tradizionalmente avvezzo a questo genere musicale. Al nucleo iniziale della band composto da Srdjan Brankovic alle chitarre, la compagna Nevena Brankovic alle tastiere/voce e Marko Milojevic alla batteria si uniscono nel 2021 la vocalist Ana Nikolic e quel vecchio volpone di Alessandro Del Vecchio che vide in loro un grande potenziale. I ragazzi in effetti sono degli ottimi musicisti ed interpreti convincenti; basti guardare le loro performance su YouTube dove reinterpretano cover di classici dell’hard rock rivisitati in chiave moderna.
Dopo il debutto del 2022 con l’album First Bite giunge ora il momento della prova del nove con il secondo capitolo uscito sempre per Frontiers in questi giorni. Come già detto in precedenza le capacità tecniche non mancano; Srdjan è un ottimo chitarrista con alle spalle diverse collaborazioni (Alogia, Steelheart), Nevena è una talentuosa pianista accademica. Se a questo aggiungete un’immagine preconfezionata estremamente accattivante potrete facilmente capire come mai i loro video siano stati i più visti nella quasi trentennale storia della label partenopea. Electrified si compone di dodici tracce ispirate al female power rock di origine nordeuropea sapientemente mixato alle atmosfere tipiche degli anni ottanta. L’introduzione affidata a Survivor ci proietta indietro nel tempo grazie all’abbondante presenza di tastiere e ad una melodia piuttosto semplice ma efficace. Sulla stessa falsa riga si pongono Like A Fire e la successiva Fairy Of White che sa tanto di Scorpions. A questo punto sarebbe lecito aspettarsi una variazione sul tema ma purtroppo ciò non avviene; Better Than Hell continua imperterrita a pestare sull’acceleratore di quel potente ma ormai ripetitivo speed rock che sembra diventato l’unico chiodo fisso del combo sloveno. Le nostre speranze di ascoltare qualcosa di diverso vengono definitivamente accantonate dall’incalzante Broken Wings. Piccolo break (ma non aspettatevi chissà che) grazie al power AOR di Don’t Talk About Love probabilmente il pezzo migliore del lotto. Bypassiamo direttamente Burning Up e Coming Alone dove la presenza massiccia di assoli di tastiere e chitarre unite a melodie abbastanza deludenti e scontate inizia a diventare irritante. They Defied prova ad inserire atmosfere orientaleggianti nel finale con un risultato alquanto discutibile. Da qui alla fine nulla da segnalare se non la conclusiva iper-power-ballad Dare To The Dream vicina alle Vixen più commerciali.
La mancanza di pezzi lenti o comunque di un diversivo che si discosti dalla loro confort zone unita ad un sognwriting troppo ripetitivo fa sorgere qualche dubbio sul futuro del gruppo; quanti altri album “copia e incolla” potranno sfornare senza correre mai il rischio di mettersi in discussione? Ai posteri l’ardua sentenza.
17 Gennaio 2025 0 Commenti Yuri Picasso
genere: Melodic Metal
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Ronnie Romero, Mike Terrana, Magnus Karlsson.
3 talenti uniti dal 2017 sotto il moniker The Ferrymen, e con il qui presente ‘Iron Will’ al quarto capitolo discografico; come da tradizione (Allan/Lande – Primal Fear Docet), sappiamo cosa l’arte del polistrumentista svedese può partorire; un metal melodico dai tratti epici con sporadiche incursioni (almeno in questo turno) in territori strettamente rock.
Le qualità tecniche del combo sono fuori discussione, musicalmente 3 laureati con lode (Personalmente ho un vero debole per il drumming di Mike). E come suona il disco? Come i precedenti, con occasionali picchi, trascurabili cadute e quasi assoluta mancanza di sorprese (nel bene e nel male). In un genere saturo e ben delineato da perimetri sonori invalicabili o quasi, rimanere a bocca aperta per lo stupore appare pure utopia. Rimanendo concreti le undici tracce qui presenti risultano (in buona parte) essere un abile e sommo esercizio di ripetizione stilistica. Ronnie canta alla grande, Mike spacca a suon di ritmiche e fills, Magnus è abile nell’intrecciare riffs, Soli e ricami (anche tastieristici), ma gli episodi sentimentalmente coinvolgenti da tasto repeat latitano.
Si parte bene con il singolo “Choke Hold”, introdotta da una sezione orchestrale gotica che da campo al classico heavy epico, trademark della band. Non molto diversa per impostazione e feeling la seguente “Mother Unholy”, maggiormente versatile per mano del drumming imprevedibile di Terrana.
La title track aperta da un pianoforte oscuro gioca maggiormente su trame hard rock. “Adrenaline” è aggressiva e teutonica, e trascurabile per quanto il bridge migliori una strofa anonima.
“Dreams and Destiny” spezza l’eccesso di uniformità ascoltato fino ad ora portando all’ascoltatore una ballad teatrale, a tratti piacevolmente celtica, ben scritta e magistralmente interpretata.
Per quanto alcuni fraseggi suonino elaborati e ricercati, la formula canzone non lascia cicatrici in pezzi quali “Darkest Storm”, roboante in riffs corposi ma inefficace, tanto quanto l’heavy corposo e conclusivo di “You’re The Joker”.
Troppo omogeneo e poco distintivo per parlare in termini entusiastici di ‘Iron Will’; il sapore è tendente a quello di progetto e poco a quello di band in grado di distinguersi, nonostante l’elevata caratura degli elementi coinvolti sia nuovamente confermata.
17 Gennaio 2025 0 Commenti Giulio Burato
genere: Melodic Rock/Prog rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
La mia prima recensione del 2025 arriva dal continente sud-americano. La band brasiliana dei Landfall, rimasta invariata nei componenti, è alla terza uscita discografica.
“Wide open sky”, dalla copertina eterea, è in uscita il 17 gennaio con Frontiers records; ai primi ascolti noto subito la predisposizione più marcata al filone “prog” con canzoni dalle durate non tipicamente affini al melodic-rock. Tale virata di genere si era già intravista nel precedente album (link recensione) e che qui diventa un dogma evidente. L’apripista “Tree of life” dimostra subito il dinamismo sonoro della band capitanata dal frontman Gui Oliver. Altre canzoni che si fanno notare sono “No tomorrow”, la più vicina, assieme alla title-track, ai richiami AOR del precedente album “Elevate”; da segnalare anche la più moderata, quasi ballad, “A letter to you” e i virtuosismi chitarristici presenti in “Coming home” e in “Intoxicated”.
Note che ricordano i lavori dei Queensryche in “Hourglass” e la successiva “Higher Than The Moon”, canzoni che superano i cinque minuti abbondanti di durata, con una stesura prog metal molto articolata.
Non degne delle stesse note “Sos” e “When the curtains falls” che appaiono sofisticate, prolisse e che non si elevano sul resto della tracklist.
“Wide open sky” è un album da ascoltare a lungo, di difficile assimilazione, vuoi per la lunghezza dei brani, che presi tutti di un fiato fanno appesantire l’ascolto, vuoi perché manca quel tocco di melodia, presente in passato, che avrebbe giovato e dato delle sfumature diverse al lotto delle undici canzoni. I Landfall dimostrano sicuramente perizia strumentale e con questo album danno un segnale chiaro sulla strada che stanno percorrendo. Buon anno, progressivo a tutti.
31 Dicembre 2024 4 Commenti Samuele Mannini
genere: Rock
anno: 2024
etichetta: Self Released
Ce la concedete una piccola marchetta per uno dei nostri scribacchini? Sì? Grazie mille, perché vorremo presentarvi una band di Reggio Calabria che, dopo aver suonato per anni nei locali della regione, si è finalmente decisa a compiere un piccolo passo discografico per dare un senso a tutta la passione infusa negli anni. Come tante band del nostro paese, che con dedizione e tenacia non si sono mai arrese di fronte alle sfide del mondo musicale.
L’EP si compone di tre tracce che, pur composte nel corso degli anni, appaiono fresche e profonde. I testi sono evocativi e si intrecciano sapientemente con un sound che, pur non dando precisi riferimenti, ricorda a volte un mix tra i Litfiba più melodici e certe arie degli Heroes del Silencio d’annata. Ogni canzone racconta una storia, trasportando l’ascoltatore in un viaggio sonoro ricco di emozioni e riflessioni.
Ecco, non siamo qui per offrirvi una recensione completa, dopotutto sono solo tre pezzi, ma per invitarvi ad ascoltare cinque ragazzi che con passione, dedizione e un amore sconfinato per la musica, da anni si muovono nel sottobosco musicale italiano. Non arrendendosi mai di fronte alle difficoltà, hanno perseverato nell’idea di proporre buona e onesta musica che viene dal cuore. La loro determinazione è un esempio di come la passione possa alimentare i sogni e trasformarli in realtà.
In allegato troverete le canzoni su YouTube che vi invito caldamente ad ascoltare. Questi brani sono un’anticipazione di quello che potrebbe essere un disco intero, che viste le premesse, ha tutti i presupposti per risultare estremamente interessante.
Speriamo che la loro musica possa ispirarvi, come ha fatto con noi. Buon ascolto!
31 Dicembre 2024 9 Commenti Stefano Gottardi
genere: Hard 'n' Heavy
anno: 2024
etichetta: MNRK Heavy
Dopo un po’ di mesi mi trovo a scrivere un altro capitolo della saga de l’umile “scribacchino”, che, così come ai tempi di Sanguivore dei Creeper (leggi qui la recensione), mi vede impegnato a parlarvi di un nuovo infatuamento musicale.
L’esordio delle Dogma, un lavoro forse non recentissimo ma che, complici una promozione ed una distribuzione non proprio capillari (quantomeno in territorio europeo), qualcuno di voi affezionati lettori potrebbe essersi perso. Di questo gruppo si è cominciato ad avere notizia nella tarda primavera del 2021, quando la prima immagine ufficiale è circolata sui loro profili social mostrando quattro avvenenti suore con tanto di face painting ed un look non propriamente convenzionale, che rispondevano ai nomi di Lilith (voce), Lamia (chitarra), Nixe (basso) e Abrahel (batteria). Nel marzo dell’anno successivo è invece giunta notizia della firma per la casa discografica americana MNRK Heavy, una grossa indie distribuita da Universal, che annovera fra le proprie fila artisti del calibro di Ace Frehley, Black Label Society, Crowbar, Judas Priest, Pop Evil e Zakk Wylde.
A distanza di pochi giorni il primo singolo “Father I Have Sinned”, accompagnato da un video, è apparso sul World Wide Web. La clip, aperta dal rintocco delle campane, ci porta all’interno di un monastero dove le nostre sexy sorelle se la cantano e se la suonano appassionatamente. Nel mentre, Lilith confessa i propri peccati ad un ignaro sacerdote, che ben presto diventa suo malgrado diretto protagonista degli stessi. Musicalmente si tratta di un robusto hard rock dalle atmosfere cupe ma addolcito da un ritornello irresistibile, che forse potrebbe portare alla mente i Ghost di “Square Hammer”. Il growl conclusivo è una sorpresa, la firma posta in calce ad un biglietto da visita decisamente accattivante.
Bisognerà aspettare la metà del 2023 per ascoltare nuova musica: l’opportunità la fornisce il video di “My First Peak”, in cui le suore sataniche interagiscono direttamente con il loro datore di lavoro, ottenendo il lasciapassare per proseguire la propria opera di blasfemia. A livello sonoro il pezzo riprende le coordinate del singolo d’esordio, aggiungendo persino una vena pop nel finale.
Stavolta bastano due mesi per sentire qualcos’altro. In “Forbidden Zone”, un brano strutturalmente un po’ più heavy, la melodia la fa ancora da padrone, anche grazie all’ennesimo refrain azzeccato. Dopo tre singoli di qualità, ed un altro videoclip sulla falsariga dei precedenti, il messaggio delle Dogma – seppur criptico – mette perfettamente a fuoco le intenzioni del quartetto, che cita un’altra volta i Ghost riuscendo però a mostrare sprazzi di spiccata personalità.
Ad Ottobre esce poi “Carnal Liberation”, sempre accompagnato da un video, senza dubbio quello dove la nostra Lilith osa di più, portando sulla cattiva strada un gruppo di devoti. Il pezzo, un heavy rock caratterizzato dal solito ritornello martellante, è il quinto centro consecutivo.
Il 17 Novembre vede finalmente la luce il debut album, nella sola versione digitale, abbinato al videoclip di “Made Her Mine”. Inutile dire che canzone (una cavalcata heavy e melodica) e video colpiscono ancora una volta nel segno. Il resto del materiale si conferma in linea e all’altezza di quanto ascoltato fino a quel momento, mostrando come punti di forza il songwriting e la concretezza dei brani stessi, eseguiti con padronanza dei propri mezzi e forte determinazione. Difficile individuare i picchi, perché oltre ai singoli già noti anche quasi tutte le altre canzoni del disco riescono a spiccare, ma forse si potrebbero citare in particolar modo le più catchy “Feel The Zeal” e “Bare To The Bones”.
Sul finale emerge l’oscura figura di The Dark Messiah: accreditato come uno dei songwtiter assieme agli altrettanto misteriosi The Light Messiah e The Dusk Messiah, la sua voce appare sul tempo medio “Make Us Proud”, mentre il brano posto in chiusura porta addirittura il suo nome.
Nell’estate del 2024 l’album è uscito anche in versione fisica, vinile e CD. Quest’ultimo vanta l’aggiunta esclusiva di due tracce extra: la lenta “Be Free” e il quasi tango “Banned”, probabilmente due b-sides che nulla tolgono ad un debutto strepitoso. La release, presumibilmente preparata ad hoc, è stata supportata dal primo tour della band che lo scorso Luglio ha toccato il Sudamerica e a Novembre gli Stati Uniti. Per queste date il gruppo ha aggiunto una seconda chitarrista: l’enigmatica Rusalka, successivamente confermata nella formazione “titolare” che ha da poco rilasciato la cover di “Like A Prayer” di Madonna, accompagnata dal solito esplicito video che in questo caso cita in maniera diretta quello originale.
IN CONCLUSIONE
Un disco da ascoltare a più riprese ed una band che, dopo la sopraccitata cover, sarà chiamata alla prova del fuoco: per bissare un esordio memorabile come questo dovrà essere capace di raggiungere quantomeno lo stesso livello di qualità. Fra un peccato e l’altro, Lilith e la sua congrega di suore discinte e disinibite riusciranno nell’impresa? Chi vivrà vedrà.