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28 Novembre 2024 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1990
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Nel 1990, i Quireboys fecero un’entrata trionfale nel panorama musicale con il loro album di debutto, “A Bit Of What You Fancy”. Questo lavoro rappresenta una miscela esplosiva di rock’n’roll autentico e blues vibrante, riuscendo a raggiungere la seconda posizione nelle classifiche britanniche e a consolidare la band come un astro nascente da non sottovalutare nel mondo del rock d’oltremanica.
“A Bit Of What You Fancy” trasporta l’ascoltatore in un viaggio musicale attraverso i fumosi club rock d’altri tempi, dove le chitarre ruggivano, le note di piano scintillavano e la voce graffiante di Spike intratteneva il pubblico come solo un vero frontman sa fare, evocando la vera epoca d’oro del rock. I critici hanno spesso paragonato il sound dei Quireboys a quello di una versione più ruvida dei Faces, con chiari richiami ai Rolling Stones del periodo aureo, ma anche chi adora i Cinderella più bluesegianti trova qui pane per i suoi denti… L’armonica e il piano, sapientemente suonati da Chris Johnstone, aggiungono un tocco raffinato e complesso al sound della band, creando un’atmosfera ricca e multiforme, andando oltre al ‘semplice’ brano di rock’n’roll. Le chitarre di Guy Bailey e Guy Griffin si fondono in riff potenti e melodie avvincenti, mentre la solida sezione ritmica sostiene le acrobazie vocali di uno Spike che sembra la versione scatenata di Rod Stewart.
L’album è costellato di brani memorabili che sono diventati veri inni per i fan. “7 O’Clock”, con la sua energia esplosiva e l’atmosfera festosa, incarna perfettamente lo spirito dei Quireboys. “Hey You”, altro singolo di successo, è un inno rock irresistibile che si imprime subito nella mente. Tuttavia, “A Bit Of What You Fancy” non è solo un album energico, festoso e goliardico. Brani come “Whippin’ Boy” rivelano il lato più blues e introspettivo della band. L’atmosfera cupa e malinconica, arricchita da cori femminili, crea un contrasto intrigante con i pezzi più vivaci. “Roses & Rings”, con le sue sfumature vicine al country, dimostra la versatilità dei Quireboys e la capacità di Spike di adattarsi a stili diversi. Come non menzionare poi la triste ballad “I Don’t Love You Anymore”, il cui video ho visto passare a ripetizione sull’ allora Videomusic… quanti ricordi…
A oltre trent’anni dalla sua pubblicazione, “A Bit Of What You Fancy” continua ad essere una pietra miliare nella storia del rock britannico. Le sue sonorità autentiche e potenti, unite alla capacità dei Quireboys di creare brani che lasciano il segno, hanno lasciato una traccia profonda nella memoria di noi appassionati del genere. Che è da avere per forza neanche ve lo devo dire.
12 Novembre 2024 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1992
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“Mad Hatter”, il secondo album dei Bonham, uscito nel 1992, si presenta come un lavoro maturo e ambizioso, in cui Jason Bonham cerca di scrollarsi di dosso l’etichetta di “figlio di” e di affermare una propria identità musicale, pur mantenendo un forte legame con il rock classico e le sonorità del gruppo paterno. Rispetto al precedente “The Disregard of Timekeeping”, “Mad Hatter” segna una netta svolta verso sonorità più dure e decise. Le atmosfere spensierate e i richiami al rock più ‘progressivo’ del primo album lasciano spazio a un sound tempestoso, drammatico e struggente, che rimanda all’imponenza dei Led Zeppelin, ma con un’energia e una modernità che tenta di guardare al futuro.
L’album si apre con la furia di “Bing”, un brano che fonde l’energia del rock classico con un’aggressività più contemporanea. La title track, “Mad Hatter”, spiazza con un’incursione nel funk, un ambito musicale pressoché inedito per gli Zeppelin, che dimostra la voglia di sperimentare e di uscire dagli schemi predefiniti. Che l’influenza di band come i Bang Tango, noti per le loro contaminazioni funk, stesse facendo presa nella scena di quegli anni si percepisce in questo brano energico e travolgente. “Change of a Season”, una ballata malinconica con archi orchestrali e un ritornello iconico, rimanda invece allo stile del serpente bianco Sailing Ship version, mostrando così la versatilità della band.
Non mancano, ovviamente (e ci mancherebbe altro), i riferimenti al sound dei Led Zeppelin. Brani come “Good With The Bad” e “The Storm” presentano chitarre lancinanti, tastiere avvolgenti e atmosfere epiche che ricordano i momenti più intensi della premiata ditta Page & Plant. Ma anche in questi brani, i Bonham riescono ad infondere una propria personalità, un’energia ed una vena più moderna che li distingue e li smarca dalla semplice imitazione.
La voce di Daniel MacMaster, potente e versatile, è uno dei punti di forza assoluti di “Mad Hatter” e la sua prematura scomparsa all’età di 39 anni, ha lasciato un grande vuoto nel panorama rock. Brani come “Hold On” e “The Storm” testimoniano la sua grand capacità di trasmettere una vasta gamma di emozioni, aggiungendo un’intensità unica alle canzoni. La sua abilità nel richiamare lo stile di Robert Plant, pur mantenendo una propria individualità, è evidente in brani come “Bing” e “Change of a season”.
Malgrado la qualità musicale di “Mad Hatter”, l’album non ottenne il successo sperato, nonostante mi ricordi nitidamente i numerosi passaggi dei video sull’allora Videomusic. Tra il 1991 e il 1992, come spesso abbiamo già detto e rimarcato, ci fu l’esplosione del grunge, un genere che, per qualche anno, monopolizzò l’attenzione del pubblico e delle case discografiche, oscurando il rock più classico pur pescando (spesso e volentieri) anch’esso nelle radici zeppeliniane.
In definitiva, “Mad Hatter” è un album che, pur partendo dalle solide fondamenta del rock classico, cerca di costruire un’identità propria, sperimentando con nuovi sound e arrangiamenti. Un lavoro coraggioso e ambizioso che, seppur oscurato dal contesto discografico dell’epoca, merita di essere riscoperto e apprezzato per la sua energia, la sua passione ed il suo tentativo di creare un ponte tra l’eredità dell’hard rock e la spinta verso l’innovazione.
10 Novembre 2024 3 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 1985
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“On A Storyteller’s Night” è molto più di un semplice album AOR. È un disco che incarna una transizione, un punto di svolta nella carriera dei Magnum. Pubblicato nel 1985, in un’epoca dominata dalle influenze d’oltreoceano e dalle sonorità sintetiche, i Magnum scelgono una strada diversa. Abbandonano in parte le complessità del progressive rock che aveva caratterizzato i loro primi lavori, e si dirigono verso un sound hard rock più diretto e melodico, influenzato dall’AOR, ma con un tocco ben riconoscibile di epicità che li distingue dalla massa.
Bisogna contestualizzare la nascita di questo album. I Magnum, nati a Birmingham nella prima metà degli anni ’70, si erano formati in un periodo assai fertile per il progressive rock. Band come Genesis, Yes e Jethro Tull dominavano le classifiche, e i primi lavori dei Magnum, come “Kingdom of Madness” (1978) e “Marauder” (1980), mostrano chiaramente questa influenza. Con l’arrivo degli anni ’80 però il panorama musicale comincia cambiare. Il progressive rock si avvita un po’ troppo su se stesso e perde popolarità, nuovi generi come l’heavy metal e l’AOR cominciano ad emergere con forza. I Magnum, con “On A Storyteller’s Night”, dimostrano di sapersi adattare ai tempi, senza però rinunciare alla propria identità.
La chiave di questa ricetta per il successo sta nell’equilibrio tra innovazione e tradizione. I Magnum prendono le melodie accattivanti e i ritornelli orecchiabili dell’AOR, ma li arricchiscono con arrangiamenti complessi e testi che pescano anche da ambientazioni fantasy (a partire dalla cover) e che richiamano le loro radici progressive. L’uso sapiente delle tastiere di Mark Stanway contribuisce a creare atmosfere suggestive e a volte maestose, che avvolgono l’ascoltatore in un mondo fantastico.
L’anima di “On A Storyteller’s Night” è però la voce di Bob Catley. Capace di passare con disinvoltura da toni potenti ed emozionanti a momenti di grande intimità e fragilità, Catley dà vita ai testi di Tony Clarkin con una passione e una convinzione uniche. Ascoltate brani come “How Far Jerusalem” e “Les Morts Dansant”, e capirete perché Catley è considerato uno dei migliori vocalist hard & heavy di sempre. Questo disco però non è solo melodia e atmosfera. La chitarra di Tony Clarkin, pur non essendo protagonista assoluta come in altri generi, è sempre presente, con riff incisivi e assoli melodici che arricchiscono le composizioni.
L’album si apre con “How Far Jerusalem”, un brano epico che cattura immediatamente l’ascoltatore con la sua introduzione di flauti e voci echeggiate, seguita da un riffing brillante e i toni diretti di Bob Catley. “Just Like an Arrow” è un altro pezzo forte dell’album, caratterizzato da un ritornello superbo e melodico che trascina l’ascoltatore in un abisso di assuefazione musicale. La title track, “On a Storyteller’s Night”, è accattivante e senza tempo, con un ritornello imponente e un’atmosfera quasi mistica. La canzone “The Spirit” è un altro esempio della capacità dei Magnum di creare brani epici e coinvolgenti, con un testo che esplora temi di speranza e perseveranza. Come non citare poi, la straziante “The Last Dance” ed un brano che si scaglia contro la guerra come “Les Morts Dansant”, canzone struggente che racconta la storia di un soldato durante la Prima Guerra Mondiale.
L’album è stato lodato negli anni per la sua coerenza artistica e la qualità della produzione, con la chitarra di Tony Clarkin che alterna momenti dolci e suadenti a passaggi più pungenti ed analitici. Ogni canzone è praticamente un capolavoro a sé stante, contribuendo a creare un album vario e coinvolgente. La sezione ritmica, composta da Wally Lowe al basso e Kex Gorin alla batteria, fornisce una solida base che sostiene le complesse strutture delle canzoni.
“On A Storyteller’s Night” è indubbiamente un album che ha segnato un’epoca. Ha dimostrato che l’AOR può essere molto più di semplice musica da radio, e ha aperto la strada al successo commerciale che i Magnum avrebbero ottenuto con i successivi “Vigilante” e “Wings of Heaven”. “On A Storyteller’s Night” rimane quindi un disco speciale e cominciando dalla meravigliosa copertina, segna un punto di equilibrio perfetto tra la tradizione progressive e la modernità dell’AOR, un album che ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni, conserva intatto il suo fascino.
28 Giugno 2024 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1986
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Conobbi gli Zebra solo dopo avere ascoltato il disco dei China Rain di Randy Jackson ( Qui la ns. recensione) e sinceramente mi sarei aspettato un sound tutto sommato simile, quindi mai e poi mai avrei pensato di ascoltare un mix stilistico tra gli Zeppelin i Triumph ed i Rush, ma con mia somma sorpresa il tutto funziona alla grande.
La storia degli Zebra è quella di un gruppo che ce l’aveva quasi fatta. Autori di un esordio che raggiunse il disco d’oro negli Usa (500.000 copie) tutto faceva pensare ad una folgorante carriera ma, il successivo No Tellin’ Lies, non riuscì a bissare queste cifre, segnando così un raffreddamento dei rapporti con l’ Atlantic Records, che ai tempi era pronta a lanciare in pista miriadi di gruppi ben più radio friendly. Questo 3.V fu dunque una sorta di o la va o la spacca e la band, con un budget ridotto e privata del loro storico produttore si apprestò a registrare questo terzo disco con la spada di Damocle che le pendeva sulla testa. A livello di produzione il cambio di direzione è abbastanza evidente, mentre a livello di songwriting si nota il tentativo di mediare tra la vena artistica della band e la volontà di risultare fruibili ad un pubblico più largo possibile, probabilmente per placare le richieste della casa discografica. Commercialmente il disco fu però un flop (almeno per i canoni dell’epoca) e segnò quindi la fine prematura della band che ad eccezione di un live nel 1990 ed un disco nel 2003 cessò praticamente di esistere.
Passando ai brani, l’impronta Triumph si nota immediatamente nell’opener Can’t Live Without, che parte a martello con atmosfere pomposissime e tirate, He’s Making You The Fool vira più sul lato Rush probabilmente grazie anche all’impronta vocale di Randy, mentre Time ci mostra il lato zeppeliniano del gruppo. In queste tre canzoni è possibile sviscerare i temi stilistici del disco, ma non voglio sbrigarmela con così poco, perché il disco merita di essere ascoltato in toto ed apprezzato in tutte le sue sfumature, alcune delle quali ritroveremo anche successivamente nei già citati China Rain. Vi citerò dunque l’up tempo Better Not Call dal refrain irresistibile, Hard Living Without You, hard rock serrato cantato in una tonalità impossibile ed infine la conclusiva Isn’t That The Way.
Per concludere invito chi non li conoscesse ad ascoltare con attenzione questo disco che forse, per l’epoca, era talmente avanti da non essere capito ed apprezzato in pieno.
14 Giugno 2024 17 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1995
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Questo è un disco di cui è difficile parlare è infatti molto più facile spararlo sull’impianto hi fi a tutto volume e goderselo appieno, anche perché è un disco che ha i crismi per piacere sia agli amanti dell’AOR più mollaccione, sia a chi ama il metal più melodico.
Il disco uscì nel 1995, anche se da noi arrivò nel 1996 grazie alla MTM che in quegli anni distribuiva, in maniera quasi carbonara, tramite un nugolo di etichette (tra le quali la nascente Frontiers) e rappresentò, per chi come me era alla spasmodica ricerca di hard rock melodico ed affini, una vera e propria luce nell’oscuro panorama musicale dell’epoca.
L’epoca d’oro del genere era finita da un pezzo ed anche il fenomeno grunge era già tramontato e solo il metal in formato power o neo power o symphonic regalava qualche gioia a chi non voleva avventurarsi in sonorità più estreme, io ero sempre alla ricerca di qualcosa che rinverdisse i fasti della melodia degli anni che furono, dunque, quando quasi per disperazione comprai a scatola chiusa questo cd, non avevo molte speranze, ma invece fu subito colpo di fulmine.
La storia di questo gruppo del Colorado non fu però particolarmente fortunata. Pur avendo come manager, produttore e guru Bobby Barth degli Axe (omaggiati con le cover di Silent Soldier e Steal Another Fantasy), sono dovuti passare attraverso ben due cambi di nome, infatti dopo aver dovuto rinunciare al moniker Caught In The Act per via di una boy band olandese che li minacciò di una causa legale, hanno dovuto ripiegare sull’acronimo CITA e dopo due album sempre a causa della suddetta (e maledetta!) boy band sono stati costretti a cambiare nome di nuovo in Guild Of Ages cosa che contribuì non poco a frenarne la carriera visto che il pubblico oramai li conosceva con la precedente denominazione, inoltre il successivo cambio di sonorità ha spostato un po’ anche il target di pubblico, che con i primi due album li aveva portati a raggiungere le quasi 50.000 copie vendute e per l’epoca ed il genere era quasi un colossale Boom.
Veniamo però a questo disco che racchiude un melange di influenze tali da poter affascinare chiunque abbia bazzicato il genere dall’ 87 al 92. Ci potrete sentire il Bon Jovi d’annata (e l’attacco di Through The Years è emblematico), il class metal tagliente dei Dokken, le tastiere maestose a la House Of Lords e persino qualche arrangiamento vagamente pomp a la Prophet. In alcuni tratti si sfiora addirittura il riff metal, rendendolo quindi fruibile a chiunque abbia masticato sonorità rock.
Per avere un esempio di tutto ciò che ho scritto vi basterà ascoltare l’opener Everytime (I Close My Eyes) e avrete la sintesi estrema delle sonorità di tutto il disco rendendo il track by track del tutto inutile, perché ogni traccia è tutta da scoprire e godere. Non mi resta dunque da dire che se lo avete già forse è il momento di riascoltarlo per riscoprirne la sorprendente freschezza e se non lo avete… Beh che state aspettando? Correte a comprarlo visto che recentemente è stato ristampato anche nella versione doppia contenente anche il successivo Heat Of Emotion, anch’esso molto valido, seppur leggermente meno vario.
17 Aprile 2024 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1989
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Che, almeno, questo disco dei Kingdom Come debba essere presente in una collezione hard rock che si rispetti mi sembra persino lapalissiano, il dilemma è semmai come riuscire a giustificare il fatto che alcune band restino marchiate a fuoco da nomignoli malefici, mentre altre sembrino addirittura beneficiarne. Non vorrei addentrarmi in paragoni tra gruppi con sorti e benevolenze diverse, pur essendo tutti dei Led clones o derivati che durante gli anni sono apparsi sul mercato, ma farò solo l’esempio dei Greta Van Fleet, che a mio avviso, sono clonatori ben più spudorati di Lenny Wolf e soci e che hanno addirittura acquisito fama per questo, mentre i Kingdom Come sono stati letteralmente sepolti dal paragone… Mah, sono i misteri del music business.
Che poi, soprattutto il primo disco, sia estremamente zeppelin oriented, nessuno lo negherà mai, ma dove molti vedevano il plagio, io ho sempre visto la devozione ed in questo secondo In Your face si nota un evidente tentativo di discostarsi dall’ omaggio ad ogni costo, andando a toccare territori più votati al sound hard rock made in Usa, addirittura andando in qualche caso fino a fare qualche puntatina vicina al class metal di scuola Dokken.
Il disco parte a martello con Do You Like It, hard rock serrato ed avvincente che con un riff tutto sommato semplice, spacca subito il cervello. Who Do You Love gioca sulla sensuale interpretazione di Lenny e sull’alternanza tra riff e tastiere,mentre la seguente The Wind paga pegno al dirigibile formato kashmir. Gotta Go è forse più simile agli Whitesnake che agli Zeppelin ed il ritornello catchy fa da contrasto alla atmosfera crepuscolare che avvolge il brano. Higway 6 è il brano che non ti aspetti, americano fino al midollo, con un intro acustico che va a schiantarsi su una struttura torrida e tirata, in un’ ottica, come dicevo prima, vicina al class metal. Con Perfect O si ritorna a volare sul dirigibile, anche perché il riff portante è assolutamente made in Page. Just Like A Wild Rose è intrisa di blues e trasuda le atmosfere torride e polverose del midwest americano. Overrated è invece un semplice, ma efficace, arena rock e lascia il passo a Mean Dirty Joe, nuovamente zeppeliniana nel suo concetto. Chiude il disco l’ennesimo gioiellino, ovvero, Stargazer, che dopo un intro tastieristico fila via a 100 all’ora col piedino che patte il ritmo fino alla tallonite.
Non amo eccessivamente fare il track by track di un disco, ma in questo caso mi era funzionale a dimostrare che pur ovviamente presente, il richiamo agli Zeppelin non è assolutamente predominante, l’ispirazione viene pescata nello sterminato bacino dell’hard and blues, dove miriadi di band hanno attinto a piene mani, senza magari inventare nulla, ma donandoci, come in questo caso, emozioni a raffica. Da avere…passo e chiudo!
14 Febbraio 2024 1 Commento Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1990
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Un colpo e via, come accadde a tante band all’inizio dei novanta, la scena stava cambiando e le Major cannibalizzavano gruppi come se non ci fosse un domani ed altre amenità di cui abbiamo ripetutamente già discusso in altre occasioni.
Il ripescaggio di questo disco potrebbe anche fare discutere, perché ai tempi ci furono reazioni opposte tra chi lo adorò e chi lo stroncò senza pietà. Naturalmente, il qui presente scribacchino, fa parte della prima schiera, anche se non senza qualche iniziale incertezza. Il tratto distintivo della band, che salta subito all’orecchio, è infatti la voce al vetriolo di Jimmi Bleacher che mi risultò di difficile digestione, abituato com’ero alle voci calde, sensuali e pulite ascoltare uno latrare come un indemoniato dopo aver usato l’acqua ragia al posto del collutorio, fu un tantino problematico, anche se alla fine devo ammettere che dopo tanti ascolti, mai e poi mai vorrei che fosse cantato in maniera diversa. Il disco in questione, è un hard blues sporco e acido come non mai e questo modo di cantare, è esattamente quello che serve per rendere l’idea delle atmosfere viscerali e primigenie, tipicamente USA, che segnano ogni singola nota delle canzoni.
Questi quattro tamarrissimi ragazzacci ci regalano perle a ripetizione, pescando a piene mani e senza ritegno da ogni influenza blueseggiante proveniente dai seventies, e ci sentirete sicuramente rimandi agli Zeppelin ai Bad Company ed i primi Aerosmith, ma anche roba (a loro) più contemporanea come Tora Tora, Faster Pussycat o Kix e chi più ne ha più ne metta; il tutto naturalmente inacidito ed impolverato a dovere.
Un esempio? Prendete Spoonful, cover di Willie Dixon, sviscerata e rivoltata come un calzino fino a portarla a temperatura di fusione. Altri esempi? L’opener Come Along, è come prendere i Bang Tango ed i loro ritmi funkeggianti miscelarli agli ZZ Top più grezzi ed immergere tutto nell’acido fino a che non rimangano solo gli scheletri intrisi di blues. Continuo? Ecco allora Where The Sun Don’t Shine, vi piacciono i Badlands? Bene prendete un pezzo di Voodoo Highway, intamarratelo per bene, cantandolo a squarciagola come un lupo che ulula alla luna piena ed il gioco è fatto. Non mancano certo i pezzi easy e più lenti e vi citerò Sacrifice Me, dove il sound si fa più vicino ai Guns N’ Roses più sporchi e primitivi.
Insomma non vi farò certo un track by track, perché ritengo di essere stato minuzioso quanto basta nel descrivere quello che potrebbe palesarsi ai vostri padiglioni auricolari, qualora doveste decidere di scoprire (o riscoprire) questo disco, ovvero il rock and roll più vicino possibile alle proprie radici: sporco, grintoso e lascivo, esattamente come dovrebbe essere!
11 Gennaio 2024 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1985
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Mark Free (da molto tempo ormai Marcie, ma nella recensione lo chiamerò Mark perché a quei tempi così era) è senz’altro una delle voci più iconiche dell’intero panorama hard and heavy. Sarà per questo forse che detiene il record di partecipazione alla nostra rubrica dei classici con ben quattro diverse incarnazioni: il solista Long Way From Love, con i Signal, con il primo Unruly Child ed infine con i King Kobra di questo Ready To Strike.
Eccoci dunque nel 1985 con una formazione che è una sorta di supergruppo in divenire. Attorno al carismatico batterista Carmine Appice (che troverete nei classici con i Blue Murder) si riuniscono il chitarrista Mick Sweda (che militerà poi nei Bullet Boys) ed appunto il nostro Mark Free. Siamo in un’epoca di grande vivacità per l’hard & heavy e con Ready to Strike la band si proporrà, insieme ai Dokken ed ai Ratt, come alfiere del metal californiano (o Class Metal che dir si voglia), sfornando riff taglienti e ritmiche serrate mediate però dal cantato grintoso, ma pur sempre melodico, di Mark.
Sicuramente i pezzi forti del disco sono il trittico iniziale. Nell’iniziale Ready To Strike, dopo un intro sognante, irrompono un riff rovente ed una batteria martellante che si snodano in un pezzo anthemico da paura. La storia di Hunger è invece particolare: scritta dal produttore Spencer Proffer e dai canadesi Kick Axe e registrata da questi ultimi sotto il moniker Spectre General, la canzone finirà nella colonna sonora dei Transformers e successivamente registrata dai King Kobra, sarà il singolo trascinatore di questo disco. Shadow Rider è un invece un cadenzato mid tempo con una intrigante costruzione chitarristica. Altri pezzi interessanti sono l’altro singolo Shake Up che strizza più l’occhio alle radio hit, l’articolata e particolare Tough Guys, la più lenta ed appassionata Dancing With Desire ed infine la conclusiva ed infuocata Piece Of The Rock.
In quel calderone in ebollizione che era il music biz di metà anni 80, il gruppo rilasciò nel 1986 l’album Thrill Of A Lifetime ma , per pressioni della casa discografica, la direzione sonora mutò verso un sound più radio friendly decretandone però l’insuccesso commerciale, con la conseguente fuoriuscita di Mark Free dal gruppo ed a vari cambi di formazione negli album successivi. Insomma, come spesso accadeva ai tempi, tante band di valore si perdevano proprio alle soglie del successo e, questo disco in particolare, offre la possibilità di ascoltare uno dei più grandi vocalist del panorama rock in un ambito più ‘robusto’ di quello che lo ha reso poi celebre e poterne apprezzare la duttilità e la già immensa classe, oltre a gettare lo sguardo sulla vivace scena californiana che portò alla ribalta un genere preso poi a modello di riferimento da molte band di epigoni.
19 Settembre 2023 6 Commenti Samuele Mannini
genere: Aor/Pop Rock
anno: 1992
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Nel 1992 ero nel pieno della mia epoca ipermelodica, dopo gli inizi a base di heavy duro e puro e le abbondanti dosi di hard rock (la fase più power e quella prog. arriveranno più tardi), la melodia si era sempre più insinuata in me fino a costringermi alla spasmodica ricerca di dischi e sonorità sempre più soft. Di massima utilità era a quei tempi la suddivisione in rubriche specifiche della rivista Flash, che categorizzava le uscite per generi e dove nella sezione dedicata all’ Aor ed affini, si trovavano recensite anche cose che erano al limite del genere, come appunto questo disco dell’ australiano Rick Price. Qui ci muoviamo in territori musicali più vicini al pop rock, ma qualcosa di Aor c’è, anche se come ci dimostrerà il prosieguo della carriera di Rick, la vena pop risulta prevalente, comunque, la presenza di un paio di songs più rock e la militanza in formazione di Michael Thompson, rendono senz’altro fruibile questo disco anche ai cultori di sonorità più ‘robuste’.
Ed è proprio nella prima canzone What’s Wrong With That Girl, che il tocco Thompsoniano valorizza un pezzo che poteva stare tranquillamente sull’ How Long marchiato MTB. Not A Day Goes By è easy e sognante quanto un pomeriggio primaverile e ci traghetta verso il power pop di A House Divided, con i suoi giochi vocali quasi soul. Walk Away Renee è una cover di un pezzo del 1966 dei The Left Banke, graziosa canzoncina pop rivisitata in chiave radio friendly, ma poi la title track irrompe col suo tappeto pianistico e ci porta in un regno delicato ed etereo e sono queste le melodie che ti segnano nel tempo: semplici, efficaci ed emozionali. Church On Fire arriva giusto in tempo per svegliarti e riportarti a battere il piedino con un sofisticato mid tempo rockeggiante. Life Without You intrattiene con la sua spensieratezza e le sue venature folk, mentre Foolin’ Myself, riporta la barra sul rock dalle arie blueseggianti ed un guitar work più presente. Forever Me And You è un delicato pop rock come usava ai tempi per far sognare i ragazzini, mentre Fragile è una ballata acustica che si gioca sulla voce e la chitarra acustica, vi ricordate i fuochi la sera sulla spiaggia? Il tipo con la chitarra che suonava? Beh l’atmosfera è più o meno quella.
In sostanza un disco semplice, oserei dire delicato, ma easy e senza pretese, che riporta alla giovinezza ed alla spensieratezza di quei tempi, però se dopo più di trent’anni a me fa ancora questo effetto, forse vuol dire che proprio male questo Heaven Knows non era…..
08 Settembre 2023 6 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 1989
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Quando in gioventù dovevo spiegare al prossimo cosa fosse il genere Aor, del quale decantavo tanto le lodi, questo disco dei Drive She Said era uno dei primi quattro o cinque che immancabilmente citavo, senza che praticamente nessuno sapesse di cosa stessi parlando, dovevo così ripiegare su un nome che fosse conosciuto alle masse, magari un Michael Bolton, per fare si che l’ombra di una connessione neuronale si palesasse negli occhi del mio interlocutore di turno. Tutto ciò per dire che spesso la gente a quei tempi ignorava quasi del tutto questo nobile genere musicale, pur avendolo numerose volte incontrato in colonne sonore di film e casuali ascolti radiofonici, nonostante il desolato panorama dell’etere italico. Nel caso specifico, il richiamo Boltoniano non è che fosse poi nemmeno tanto campato per aria, anche se parliamo dell’epoca dei BlackJack o di The Hunger, ma questi sono dettagli che in certe conversazioni non era il caso di sviscerare, mica vogliamo mettere in testa alla gente che il buon Michael abbia fatto anche rock ‘cazzuto’, prima di finire nel giro delle ballad a ripetizione e del pop da classifica. Il fatto che poi, Mark Mangold, abbia pure collaborato con Bolton, chiude virtualmente il cerchio degli accostamenti.
Drive She said è dunque la creatura di Mark Mangold, uno dei veri e propri Keyboard hero che fin dalla metà degli anni 70, con gli American Tears prima e con i Touch poi, lasciava sontuose tracce di Pomp e proto Aor. L’altro componente della formazione è il compianto vocalist, chitarrista e polistrumentista Al Fritsch, purtroppo prematuramente scomparso nel 2017.
Il perché questo disco sia da annoverare in questa rubrica è presto detto: contiene la sintesi di tutto ciò che l’Aor aveva proposto negli anni, lo perfeziona e lo attualizza fino a portarlo alla sublimazione nell’anno d’oro del genere, ovvero il 1989. Se non siete convinti l’opener If Is This Love vi spiegherà tutto in maniera semplice e dettagliata, con la sua atmosfera degna dei Journey più splendenti, un ritornello che fa innamorare ed una performance vocale degna delle più raffinate ugole del genere. Per ribadire il concetto che però l’Aor non è roba solo per ‘mollaccioni romantici’, Hard Way Home ci mostra che la vera radice di questo genere è nel rock ed il riff che caratterizza il brano spiega cosa significhi la r dell’acronimo. Il mid tempo di matrice hard Don’t You Know ci trascina verso la ballad But For You e qui non ce n’è veramente per nessuno, i lenti Aor hanno fatto e faranno scuola per sempre. Le influenze e gli arrangiamenti pop sono invece protagonisti di Love Has No Pride, un pezzo che appunto rimanda al Bolton più mainstream. Non mi dilungherò oltre col track by track anche perché questo disco o lo conoscete già oppure dovete correre a procurarvelo, ma citerò soltanto un’altra canzone, I Close My Eyes, che è un perfetto sunto dell’ opera, inizio pomposo, incedere da colonna sonora da film anni 80 e guitar solo fulmineo e tagliente, ma cosa volete di più dalla vita?
Lei ci dice di guidare? Bene, facciamolo a tutto gas e con lo stereo a palla, sarà una goduria unica!