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21 Dicembre 2024 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1987
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Come tutte le questioni trattate sull’italico suolo, quando si parla dei Dokken ci sono sempre i Guelfi e i Ghibellini, o nel caso specifico, gli ‘Attackisti’ e i ‘Lockiani’, ovvero chi preferisce “Back For The Attack” o “Under Lock And Key”. Cercherò di spiegare perché, per chi vi scrive, questo sia il disco migliore, cercando di uscire dalla lotta di fazioni per partito preso.
L’album si apre con la travolgente “Kiss of Death”. Fatico a ricordare un pezzo di apertura di un disco altrettanto efficace: un inno hard rock che affronta il tema dell’AIDS con un’intensità sorprendente per l’epoca. “Prisoner” è un brano più introspettivo, con un’atmosfera cupa e un assolo struggente di Lynch. “Night by Night” e “Standing in the Shadows” sono due inni hard rock energici, con riff accattivanti e melodie orecchiabili che danzano sul sottile filo che separa e allo stesso tempo unisce l’hard rock e l’heavy metal. “Heaven Sent” è una power ballad di grande impatto, con un’interpretazione vocale intensa di Dokken e un assolo di Lynch che bilancia potenza e melodia. “Mr. Scary”, la strumentale dell’album, è un’esplosione di virtuosismo chitarristico, con Lynch che si scatena in un vortice di assoli e riff complessi, dando sfoggio di tecnica e feeling.
L’album rimane un testamento del talento di un gruppo che, nonostante i suoi demoni interiori e qualche critica per la sua eccessiva lunghezza, ha saputo lasciare un segno indelebile nella storia dell’hard rock, coniando il sound tipico che sarà poi definito come Class Metal e al quale, da lì in avanti, miriadi di band si ispireranno.
Per chi scrive dunque, Back For The Attack resta il vertice artistico dei Dokken, capace di coniugare potenza, melodia, virtuosismo ed alcuni brani da tramandare alla storia. Ed è proprio questo equilibrio a renderlo superiore a Under Lock And Key, ma lasciamo pure che la battaglia tra ‘Attackisti’ e ‘Lockiani’ continui, perché comunque sia, entrambi rappresentano un’eredità indelebile nella storia del rock.
14 Dicembre 2024 5 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 1988
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Paul Sabu è una figura quasi mitologica nell’universo dell’AOR e del melodic rock. Nel corso della sua carriera, ha collaborato con grandi nomi della musica come Paul Stanley, Sammy Hagar, Joe Lynn Turner e Blackie Lawless. Oltre a essere un musicista e cantante di talento, Sabu si è distinto come talent scout, scoprendo band come i Silent Rage e le Precious Metal, senza contare le sue numerose produzioni e il suo naturale talento nel songwriting. La sua vasta esperienza ha dato vita a capolavori indimenticabili, tra cui spicca “Only Child”, un album che fin dalla sua uscita ha mostrato le caratteristiche di un classico in divenire.
Pubblicato nel 1988, “Only Child” fu accolto con entusiasmo dalla critica e venne inserito da *Kerrang!* tra i 40 migliori album AOR di sempre, ottenendo l’eccezionale valutazione di “L”, superiore alla tradizionale scala di cinque “K” usata dalla rivista. Questo riconoscimento sottolinea il valore di un disco che cattura l’essenza del sound anni ’80, con un hard rock melodico sofisticato e accattivante, prodotto che sarebbe dovuto essere perfetto per le radio dell’epoca.
La produzione è impeccabile, con le chitarre di Sabu intrecciate magistralmente alle tastiere di Tommy Rude, creando un tappeto sonoro coinvolgente e dinamico. La sezione ritmica, composta da Murril Maglio al basso e Charles Esposito alla batteria, fornisce una base solida e potente che esalta le melodie.
La voce di Sabu è il vero punto di forza dell’album: potente, versatile e capace di modulare la sua intensità per adattarsi ad ogni brano. Con una timbrica che richiama spesso e volentieri il Coverdale più sanguigno, Sabu alterna toni aggressivi a momenti di grande dolcezza, evitando eccessi e offrendo interpretazioni equilibrate e appassionate. Questa capacità rende ogni canzone un piccolo capolavoro.
Le tracce del disco offrono una varietà stilistica accompagnata da una qualità costante. Prendiamo ad esempio “Always”, un mid-tempo elegante e trascinante, con un ritornello che si imprime nella mente fin dal primo ascolto. Proseguendo, si incontra l’energia contagiosa di “I Wanna Touch”, un vero inno AOR dove le tastiere di Tommy Rude brillano in primo piano. “I Believe in You” è un iconico esempio di AOR di alta scuola, con un sound che richiama band storiche come Journey e Foreigner. La ballata dell’album, “Save A Place In Your Heart”, è un momento di grande ed intima emozione: raffinata e intensa, è dominata dalle tastiere e dalla voce appassionata di Sabu.
“Only Child” è stato elogiato per la sua coerenza e per l’alta qualità delle composizioni. È considerato superiore persino a *Heartbreak*, il precedente album solista di Sabu. Nonostante non abbia raggiunto il successo commerciale di altri album AOR dell’epoca (anche a causa della distribuzione limitata sotto Rampage, una sottodivisione della già poco nota Rhino Records), l’album ha però conquistato il rispetto degli appassionati, guadagnandosi lo status di oggetto di culto.
Il sound dell’album richiama l’energia, la potenza e il coinvolgimento delle migliori colonne sonore dei film d’azione degli anni ’80. Considerando che Sabu ha spesso prestato il suo talento a colonne sonore di film più o meno noti, questa associazione appare perfettamente naturale.
Stiamo dunque parlando di un album imprescindibile per ogni amante dell’AOR, un capolavoro che incarna lo spirito degli anni ’80 e che, nonostante il tempo, continua a risuonare con la stessa forza e autenticità di allora.
12 Dicembre 2024 1 Commento Samuele Mannini
genere: Pop Rock/Aor
anno: 1985
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Ok, prendiamo la macchina del tempo e torniamo indietro ai miei 12 anni quando il sabato pomeriggio guardavo Discoring sul divano ascoltando tutto ciò che quelli anni magici proponevano… È il novembre 1985, ed i Mr. mister rilasciano “Welcome To The Real World” uno di quei lavori che ha lasciato un’impronta indelebile negli anni ‘80 ed il singolo “Broken Wings” spazza le classifiche di mezzo mondo. Un successo travolgente che ha scalato la Billboard 200 fino al primo posto, conquistando il disco di platino negli Stati Uniti e addirittura il triplo platino in Canada, questo album ha reso la band un simbolo di quel decennio irripetibile.
Il segreto del successo di “Welcome To The Real World” sta nella sua alchimia musicale. Richard Page (voce e basso), Steve George (tastiere e cori), Steve Farris (chitarra e cori) e Pat Mastelotto (batteria) hanno saputo unire con maestria AOR, new wave e pop rock, creando un’esperienza sonora raffinata e coinvolgente. Ogni traccia è un viaggio tra melodie orecchiabili e arrangiamenti elaborati, resi ancora più potenti dalla produzione curatissima.
Rendiamoci conto di che razza di disco sia questo e che canzoni abbia donato al mondo.”Kyrie” è un autentico inno, che combina l’intensità emotiva a un’architettura musicale perfetta, il riff di synth che apre il brano è immediatamente riconoscibile, mentre la chitarra di Farris e la voce di Page si fondono in un crescendo spirituale che trascina chi ascolta in un’esperienza quasi mistica. “Broken Wings” è uno di quei brani che possa vantare la delicatezza e la potenza emotiva degni di una grande ballata, destinata a sfidare il tempo, con un testo che esplora la vulnerabilità dell’amore e una melodia eterea, la canzone è diventata un classico senza tempo, amplificato da un videoclip che è pura poesia, anche visiva. “Black/White” è l’apertura perfetta per l’album, pezzo energico e ricco di arrangiamenti sinfonici che cattura subito l’attenzione, mettendo in evidenza l’abilità dei Mr. Mister di coniugare potenza e raffinatezza. “Uniform of Youth”, è invece una gemma funky che dimostra la versatilità della band, con ritmi complessi, un assolo di chitarra incisivo e melodie di tastiera che catturano al volo. Anche le tracce meno ‘conosciute’ meritano attenzione. “Don’t Slow Down” e “Into My Own Hands” tengono alta l’energia dell’album con un pop rock vibrante e dinamico, mentre “Run to Her”, magari pur non raggiungendo le vette dei singoli principali, aggiunge però un tocco introspettivo, mostrando un lato più riflessivo della band.
L’impatto di questo album fu straordinario, rendendo i Mr. Mister una delle band più riconoscibili del decennio. Tuttavia, il loro successo è stato, seppur clamoroso, fugace. Gli album successivi non hanno saputo replicare la magia di “Welcome To The Real World”, portando poi allo scioglimento della band nel 1990. Questo non è solo un album, ma una finestra aperta su uno dei momenti più luminosi della musica degli anni ‘80. Con brani indimenticabili che hanno definito un’era, la capacità di combinare generi musicali in modo fluido e innovativo ed arrangiamenti e produzione che ai giorni nostri provocano solo sogni erotici, un punto di riferimento per gli amanti del genere e una testimonianza della capacità dei Mr. Mister di trasformare emozioni in musica. Oggi, ascoltarlo significa rivivere un’epoca in cui le melodie erano regine ed ogni nota sembrava avere qualcosa da dire. Un classico che merita di essere celebrato, perché purtroppo la macchina del tempo non può farvi restare lì su quel divano per sempre…
05 Dicembre 2024 9 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR/Prog
anno: 1988
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Nel 1988, il progressive rock era un lontano ricordo degli anni ’70, soppiantato da sonorità più accessibili e commerciali come il pop rock e l’AOR. In questo contesto, due pilastri del prog, Keith Emerson e Carl Palmer, si uniscono a Robert Berry, polistrumentista americano di grande talento, per formare il supergruppo 3. Il loro unico album, To the Power of Three, rappresenta una chiara svolta rispetto al passato: un lavoro radicato nel sound radiofonico dell’AOR, con qualche strizzata d’occhio alle loro origini prog.
L’album si posiziona in un territorio pericoloso, cercando di bilanciare due mondi diversi. Le sonorità ambiziose degli Emerson, Lake & Palmer vengono semplificate, adattandosi ai canoni di un’epoca che privilegiava melodia e immediatezza. Questo cambiamento ha generato reazioni contrastanti: la critica lo ha accolto freddamente, lamentando la distanza dai fasti di capolavori come Tarkus o Brain Salad Surgery, mentre il pubblico, poco interessato al pedigree progressive dei musicisti, non ha premiato l’album, che ha raggiunto solo il 97° posto nella Billboard 200. Ma il vero quesito è un altro: ‘To the Power of Three’ è davvero un passo falso?
Pur abbracciando sonorità AOR tipiche di band come Asia o Journey, l’album conserva elementi che richiamano l’eredità musicale dei protagonisti. Robert Berry, autore principale, dimostra grande versatilità: la sua voce calda e potente si adatta perfettamente al genere, e la sua abilità come compositore emerge in brani orecchiabili e ben costruiti. In tracce come “Talkin’ Bout”, il singolo che ha raggiunto la top 10 della classifica Mainstream Rock di Billboard, Berry sfodera un ritornello irresistibile e un sound immediato, confermando il suo talento. Keith Emerson, pur defilato rispetto al passato, impreziosisce le tracce con arrangiamenti ricercati. I suoi sintetizzatori conferiscono profondità e colore, spingendo i confini dell’AOR verso territori più raffinati, come dimostrano le atmosfere complesse di “Desde La Vida”, una suite in tre parti che è il cuore prog dell’album. Infine, Carl Palmer, forte dell’esperienza con gli Asia, conferma di saper integrare il suo stile tecnico in un contesto più commerciale, senza sacrificare la precisione e l’energia che lo caratterizzano. La sua batteria, sempre potente e impeccabile, fornisce una solida base ritmica, sostenendo le melodie senza mai risultare invasiva. Ed infine vorrei citare anche “On My Way Home”, una ballata emozionante, che regala un tocco epico e nostalgico. Può essere discutibile la versione di ‘Eight Miles High’, la band ha infatti optato per una rielaborazione riscrivendo anche parte del testo del brano dei Byrds, con un risultato che va lasciato al giudizio personale.
In sostanza ‘To the Power of Three’ non è stato probabilmente l’album che i fan degli Emerson, Lake & Palmer speravano, ma non per questo merita di essere liquidato come un errore di percorso. È un lavoro ben prodotto e interpretato, che riflette il tentativo sincero di adattarsi ai gusti dell’epoca senza però abbandonare del tutto la propria identità artistica. Con una maggiore attenzione promozionale da parte della Geffen Records ed un pizzico di fortuna in più, questo disco avrebbe potuto aprire la strada ad un secondo capitolo per i 3. È rimasto invece un’opera, forse incompresa, che attende solo di essere rivalutata da un pubblico più aperto alle contaminazioni tra prog e AOR ed a tal proposito nel 2018 e nel 2021 sono usciti due dischi a nome 3.2 dove Robert Barry tenta di riprendere l’esperimento lì dove era stato interrotto. Da riscoprire.
01 Dicembre 2024 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Pop Rock/Aor
anno: 1988
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Nel 1988, i 1927 debuttarono con …ish, un album che, con oltre 400.000 copie vendute e due ARIA Awards in bacheca, catapultò la band agli onori della scena rock australiana, donando al gruppo quel po’ di fama per varcare i confini nazionali e far giungere anche dalle nostre parti un disco (anzi due, perché anche il seguente “The Other Side” è meritevole) che sinceramente non dovreste sottovalutare.
Ho scoperto questa band proprio grazie al loro secondo lavoro, “The Other Side”, acquistato approfittando delle offerte di CD “forati” a 3900 lire su Sweet Music. Questo mi spinse a cercare anche il loro album di debutto, e fin dalle prime note mi fu chiaro che …ish non era semplicemente un altro album pop rock degli anni ’80.
Il loro album si apre con “To Love Me“, una traccia esemplificativa del pop rock australiano anni ’80, che imposta perfettamente il tono del disco. Segue ‘That’s When I Think of You’, un singolo di successo dal ritmo accattivante, impreziosito da un raffinato assolo di chitarra. La ballata rock “If I Could” si distingue per la sua intensità emotiva. Proseguiamo con “Compulsory Hero”, uno dei pezzi più iconici della band, vincitore dell’ARIA Award per il Miglior Video nel 1990, un racconto epico sui temi del sacrificio e della speranza, del quale abbiamo parlato ampiamente nella nostra sezione dedicata alle power ballads (LINK). Infine, la vivace e dinamica “You’ll Never Know” chiude una prima parte dell’album di grande impatto.
La seconda parte dell’album inizia con “All The People”, un solido pezzo pop/rock che, pur non raggiungendo le vette delle precedenti canzoni, si integra armoniosamente nell’album. “Nothing In The Universe” offre un’esperienza d’ascolto piacevole e rilassante, mentre “Propaganda Machine” sperimenta con un mix interessante di electro punk e pop, aggiungendo varietà al disco. “Give The Kid A Break” infonde energia con i suoi riff di chitarra e il ritmo coinvolgente, preparando il terreno per la chiusura con “The Mess”, che onestamente pur non lasciando il segno mantiene comunque una coerenza sonora con le altre tracce.
Se ascolterete il disco vi salteranno subito alle orecchie svariate assonanze col sound di diverse band pop rock melodiche di quell’epoca quali: Boulevard, Mr. Mister e Glass Tiger. Il cantante Eric Weideman ha una vocalità morbida ed espressiva e ci culla con le sue armonie per tutto il disco. Il songwriting dell’album, in gran parte opera del chitarrista Gary Frost, ha la capacità di creare immagini vivide e raccontare storie evocative punteggiate poi efficacemente e con gusto nell’esecuzione.
Se anche a più di trent’anni dopo la sua uscita, …ish è considerato in patria un punto di riferimento, ci sarà dunque un perché. L’album riesce infatti a catturare l’essenza del periodo in cui è stato prodotto e contiene tutte le virtù del pop rock nel suo periodo di massima espressione. Con i suoi numerosi pregi ed al netto di qualche imperfezione, …ish è un debutto significativo che vi consiglio caldamente di ascoltare, scoprire o riscoprire.
28 Novembre 2024 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1990
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Nel 1990, i Quireboys fecero un’entrata trionfale nel panorama musicale con il loro album di debutto, “A Bit Of What You Fancy”. Questo lavoro rappresenta una miscela esplosiva di rock’n’roll autentico e blues vibrante, riuscendo a raggiungere la seconda posizione nelle classifiche britanniche e a consolidare la band come un astro nascente da non sottovalutare nel mondo del rock d’oltremanica.
“A Bit Of What You Fancy” trasporta l’ascoltatore in un viaggio musicale attraverso i fumosi club rock d’altri tempi, dove le chitarre ruggivano, le note di piano scintillavano e la voce graffiante di Spike intratteneva il pubblico come solo un vero frontman sa fare, evocando la vera epoca d’oro del rock. I critici hanno spesso paragonato il sound dei Quireboys a quello di una versione più ruvida dei Faces, con chiari richiami ai Rolling Stones del periodo aureo, ma anche chi adora i Cinderella più bluesegianti trova qui pane per i suoi denti… L’armonica e il piano, sapientemente suonati da Chris Johnstone, aggiungono un tocco raffinato e complesso al sound della band, creando un’atmosfera ricca e multiforme, andando oltre al ‘semplice’ brano di rock’n’roll. Le chitarre di Guy Bailey e Guy Griffin si fondono in riff potenti e melodie avvincenti, mentre la solida sezione ritmica sostiene le acrobazie vocali di uno Spike che sembra la versione scatenata di Rod Stewart.
L’album è costellato di brani memorabili che sono diventati veri inni per i fan. “7 O’Clock”, con la sua energia esplosiva e l’atmosfera festosa, incarna perfettamente lo spirito dei Quireboys. “Hey You”, altro singolo di successo, è un inno rock irresistibile che si imprime subito nella mente. Tuttavia, “A Bit Of What You Fancy” non è solo un album energico, festoso e goliardico. Brani come “Whippin’ Boy” rivelano il lato più blues e introspettivo della band. L’atmosfera cupa e malinconica, arricchita da cori femminili, crea un contrasto intrigante con i pezzi più vivaci. “Roses & Rings”, con le sue sfumature vicine al country, dimostra la versatilità dei Quireboys e la capacità di Spike di adattarsi a stili diversi. Come non menzionare poi la triste ballad “I Don’t Love You Anymore”, il cui video ho visto passare a ripetizione sull’ allora Videomusic… quanti ricordi…
A oltre trent’anni dalla sua pubblicazione, “A Bit Of What You Fancy” continua ad essere una pietra miliare nella storia del rock britannico. Le sue sonorità autentiche e potenti, unite alla capacità dei Quireboys di creare brani che lasciano il segno, hanno lasciato una traccia profonda nella memoria di noi appassionati del genere. Che è da avere per forza neanche ve lo devo dire.
12 Novembre 2024 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1992
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“Mad Hatter”, il secondo album dei Bonham, uscito nel 1992, si presenta come un lavoro maturo e ambizioso, in cui Jason Bonham cerca di scrollarsi di dosso l’etichetta di “figlio di” e di affermare una propria identità musicale, pur mantenendo un forte legame con il rock classico e le sonorità del gruppo paterno. Rispetto al precedente “The Disregard of Timekeeping”, “Mad Hatter” segna una netta svolta verso sonorità più dure e decise. Le atmosfere spensierate e i richiami al rock più ‘progressivo’ del primo album lasciano spazio a un sound tempestoso, drammatico e struggente, che rimanda all’imponenza dei Led Zeppelin, ma con un’energia e una modernità che tenta di guardare al futuro.
L’album si apre con la furia di “Bing”, un brano che fonde l’energia del rock classico con un’aggressività più contemporanea. La title track, “Mad Hatter”, spiazza con un’incursione nel funk, un ambito musicale pressoché inedito per gli Zeppelin, che dimostra la voglia di sperimentare e di uscire dagli schemi predefiniti. Che l’influenza di band come i Bang Tango, noti per le loro contaminazioni funk, stesse facendo presa nella scena di quegli anni si percepisce in questo brano energico e travolgente. “Change of a Season”, una ballata malinconica con archi orchestrali e un ritornello iconico, rimanda invece allo stile del serpente bianco Sailing Ship version, mostrando così la versatilità della band.
Non mancano, ovviamente (e ci mancherebbe altro), i riferimenti al sound dei Led Zeppelin. Brani come “Good With The Bad” e “The Storm” presentano chitarre lancinanti, tastiere avvolgenti e atmosfere epiche che ricordano i momenti più intensi della premiata ditta Page & Plant. Ma anche in questi brani, i Bonham riescono ad infondere una propria personalità, un’energia ed una vena più moderna che li distingue e li smarca dalla semplice imitazione.
La voce di Daniel MacMaster, potente e versatile, è uno dei punti di forza assoluti di “Mad Hatter” e la sua prematura scomparsa all’età di 39 anni, ha lasciato un grande vuoto nel panorama rock. Brani come “Hold On” e “The Storm” testimoniano la sua grand capacità di trasmettere una vasta gamma di emozioni, aggiungendo un’intensità unica alle canzoni. La sua abilità nel richiamare lo stile di Robert Plant, pur mantenendo una propria individualità, è evidente in brani come “Bing” e “Change of a season”.
Malgrado la qualità musicale di “Mad Hatter”, l’album non ottenne il successo sperato, nonostante mi ricordi nitidamente i numerosi passaggi dei video sull’allora Videomusic. Tra il 1991 e il 1992, come spesso abbiamo già detto e rimarcato, ci fu l’esplosione del grunge, un genere che, per qualche anno, monopolizzò l’attenzione del pubblico e delle case discografiche, oscurando il rock più classico pur pescando (spesso e volentieri) anch’esso nelle radici zeppeliniane.
In definitiva, “Mad Hatter” è un album che, pur partendo dalle solide fondamenta del rock classico, cerca di costruire un’identità propria, sperimentando con nuovi sound e arrangiamenti. Un lavoro coraggioso e ambizioso che, seppur oscurato dal contesto discografico dell’epoca, merita di essere riscoperto e apprezzato per la sua energia, la sua passione ed il suo tentativo di creare un ponte tra l’eredità dell’hard rock e la spinta verso l’innovazione.
10 Novembre 2024 3 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 1985
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“On A Storyteller’s Night” è molto più di un semplice album AOR. È un disco che incarna una transizione, un punto di svolta nella carriera dei Magnum. Pubblicato nel 1985, in un’epoca dominata dalle influenze d’oltreoceano e dalle sonorità sintetiche, i Magnum scelgono una strada diversa. Abbandonano in parte le complessità del progressive rock che aveva caratterizzato i loro primi lavori, e si dirigono verso un sound hard rock più diretto e melodico, influenzato dall’AOR, ma con un tocco ben riconoscibile di epicità che li distingue dalla massa.
Bisogna contestualizzare la nascita di questo album. I Magnum, nati a Birmingham nella prima metà degli anni ’70, si erano formati in un periodo assai fertile per il progressive rock. Band come Genesis, Yes e Jethro Tull dominavano le classifiche, e i primi lavori dei Magnum, come “Kingdom of Madness” (1978) e “Marauder” (1980), mostrano chiaramente questa influenza. Con l’arrivo degli anni ’80 però il panorama musicale comincia cambiare. Il progressive rock si avvita un po’ troppo su se stesso e perde popolarità, nuovi generi come l’heavy metal e l’AOR cominciano ad emergere con forza. I Magnum, con “On A Storyteller’s Night”, dimostrano di sapersi adattare ai tempi, senza però rinunciare alla propria identità.
La chiave di questa ricetta per il successo sta nell’equilibrio tra innovazione e tradizione. I Magnum prendono le melodie accattivanti e i ritornelli orecchiabili dell’AOR, ma li arricchiscono con arrangiamenti complessi e testi che pescano anche da ambientazioni fantasy (a partire dalla cover) e che richiamano le loro radici progressive. L’uso sapiente delle tastiere di Mark Stanway contribuisce a creare atmosfere suggestive e a volte maestose, che avvolgono l’ascoltatore in un mondo fantastico.
L’anima di “On A Storyteller’s Night” è però la voce di Bob Catley. Capace di passare con disinvoltura da toni potenti ed emozionanti a momenti di grande intimità e fragilità, Catley dà vita ai testi di Tony Clarkin con una passione e una convinzione uniche. Ascoltate brani come “How Far Jerusalem” e “Les Morts Dansant”, e capirete perché Catley è considerato uno dei migliori vocalist hard & heavy di sempre. Questo disco però non è solo melodia e atmosfera. La chitarra di Tony Clarkin, pur non essendo protagonista assoluta come in altri generi, è sempre presente, con riff incisivi e assoli melodici che arricchiscono le composizioni.
L’album si apre con “How Far Jerusalem”, un brano epico che cattura immediatamente l’ascoltatore con la sua introduzione di flauti e voci echeggiate, seguita da un riffing brillante e i toni diretti di Bob Catley. “Just Like an Arrow” è un altro pezzo forte dell’album, caratterizzato da un ritornello superbo e melodico che trascina l’ascoltatore in un abisso di assuefazione musicale. La title track, “On a Storyteller’s Night”, è accattivante e senza tempo, con un ritornello imponente e un’atmosfera quasi mistica. La canzone “The Spirit” è un altro esempio della capacità dei Magnum di creare brani epici e coinvolgenti, con un testo che esplora temi di speranza e perseveranza. Come non citare poi, la straziante “The Last Dance” ed un brano che si scaglia contro la guerra come “Les Morts Dansant”, canzone struggente che racconta la storia di un soldato durante la Prima Guerra Mondiale.
L’album è stato lodato negli anni per la sua coerenza artistica e la qualità della produzione, con la chitarra di Tony Clarkin che alterna momenti dolci e suadenti a passaggi più pungenti ed analitici. Ogni canzone è praticamente un capolavoro a sé stante, contribuendo a creare un album vario e coinvolgente. La sezione ritmica, composta da Wally Lowe al basso e Kex Gorin alla batteria, fornisce una solida base che sostiene le complesse strutture delle canzoni.
“On A Storyteller’s Night” è indubbiamente un album che ha segnato un’epoca. Ha dimostrato che l’AOR può essere molto più di semplice musica da radio, e ha aperto la strada al successo commerciale che i Magnum avrebbero ottenuto con i successivi “Vigilante” e “Wings of Heaven”. “On A Storyteller’s Night” rimane quindi un disco speciale e cominciando dalla meravigliosa copertina, segna un punto di equilibrio perfetto tra la tradizione progressive e la modernità dell’AOR, un album che ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni, conserva intatto il suo fascino.
28 Giugno 2024 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1986
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Conobbi gli Zebra solo dopo avere ascoltato il disco dei China Rain di Randy Jackson ( Qui la ns. recensione) e sinceramente mi sarei aspettato un sound tutto sommato simile, quindi mai e poi mai avrei pensato di ascoltare un mix stilistico tra gli Zeppelin i Triumph ed i Rush, ma con mia somma sorpresa il tutto funziona alla grande.
La storia degli Zebra è quella di un gruppo che ce l’aveva quasi fatta. Autori di un esordio che raggiunse il disco d’oro negli Usa (500.000 copie) tutto faceva pensare ad una folgorante carriera ma, il successivo No Tellin’ Lies, non riuscì a bissare queste cifre, segnando così un raffreddamento dei rapporti con l’ Atlantic Records, che ai tempi era pronta a lanciare in pista miriadi di gruppi ben più radio friendly. Questo 3.V fu dunque una sorta di o la va o la spacca e la band, con un budget ridotto e privata del loro storico produttore si apprestò a registrare questo terzo disco con la spada di Damocle che le pendeva sulla testa. A livello di produzione il cambio di direzione è abbastanza evidente, mentre a livello di songwriting si nota il tentativo di mediare tra la vena artistica della band e la volontà di risultare fruibili ad un pubblico più largo possibile, probabilmente per placare le richieste della casa discografica. Commercialmente il disco fu però un flop (almeno per i canoni dell’epoca) e segnò quindi la fine prematura della band che ad eccezione di un live nel 1990 ed un disco nel 2003 cessò praticamente di esistere.
Passando ai brani, l’impronta Triumph si nota immediatamente nell’opener Can’t Live Without, che parte a martello con atmosfere pomposissime e tirate, He’s Making You The Fool vira più sul lato Rush probabilmente grazie anche all’impronta vocale di Randy, mentre Time ci mostra il lato zeppeliniano del gruppo. In queste tre canzoni è possibile sviscerare i temi stilistici del disco, ma non voglio sbrigarmela con così poco, perché il disco merita di essere ascoltato in toto ed apprezzato in tutte le sue sfumature, alcune delle quali ritroveremo anche successivamente nei già citati China Rain. Vi citerò dunque l’up tempo Better Not Call dal refrain irresistibile, Hard Living Without You, hard rock serrato cantato in una tonalità impossibile ed infine la conclusiva Isn’t That The Way.
Per concludere invito chi non li conoscesse ad ascoltare con attenzione questo disco che forse, per l’epoca, era talmente avanti da non essere capito ed apprezzato in pieno.
14 Giugno 2024 17 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1995
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Questo è un disco di cui è difficile parlare è infatti molto più facile spararlo sull’impianto hi fi a tutto volume e goderselo appieno, anche perché è un disco che ha i crismi per piacere sia agli amanti dell’AOR più mollaccione, sia a chi ama il metal più melodico.
Il disco uscì nel 1995, anche se da noi arrivò nel 1996 grazie alla MTM che in quegli anni distribuiva, in maniera quasi carbonara, tramite un nugolo di etichette (tra le quali la nascente Frontiers) e rappresentò, per chi come me era alla spasmodica ricerca di hard rock melodico ed affini, una vera e propria luce nell’oscuro panorama musicale dell’epoca.
L’epoca d’oro del genere era finita da un pezzo ed anche il fenomeno grunge era già tramontato e solo il metal in formato power o neo power o symphonic regalava qualche gioia a chi non voleva avventurarsi in sonorità più estreme, io ero sempre alla ricerca di qualcosa che rinverdisse i fasti della melodia degli anni che furono, dunque, quando quasi per disperazione comprai a scatola chiusa questo cd, non avevo molte speranze, ma invece fu subito colpo di fulmine.
La storia di questo gruppo del Colorado non fu però particolarmente fortunata. Pur avendo come manager, produttore e guru Bobby Barth degli Axe (omaggiati con le cover di Silent Soldier e Steal Another Fantasy), sono dovuti passare attraverso ben due cambi di nome, infatti dopo aver dovuto rinunciare al moniker Caught In The Act per via di una boy band olandese che li minacciò di una causa legale, hanno dovuto ripiegare sull’acronimo CITA e dopo due album sempre a causa della suddetta (e maledetta!) boy band sono stati costretti a cambiare nome di nuovo in Guild Of Ages cosa che contribuì non poco a frenarne la carriera visto che il pubblico oramai li conosceva con la precedente denominazione, inoltre il successivo cambio di sonorità ha spostato un po’ anche il target di pubblico, che con i primi due album li aveva portati a raggiungere le quasi 50.000 copie vendute e per l’epoca ed il genere era quasi un colossale Boom.
Veniamo però a questo disco che racchiude un melange di influenze tali da poter affascinare chiunque abbia bazzicato il genere dall’ 87 al 92. Ci potrete sentire il Bon Jovi d’annata (e l’attacco di Through The Years è emblematico), il class metal tagliente dei Dokken, le tastiere maestose a la House Of Lords e persino qualche arrangiamento vagamente pomp a la Prophet. In alcuni tratti si sfiora addirittura il riff metal, rendendolo quindi fruibile a chiunque abbia masticato sonorità rock.
Per avere un esempio di tutto ciò che ho scritto vi basterà ascoltare l’opener Everytime (I Close My Eyes) e avrete la sintesi estrema delle sonorità di tutto il disco rendendo il track by track del tutto inutile, perché ogni traccia è tutta da scoprire e godere. Non mi resta dunque da dire che se lo avete già forse è il momento di riascoltarlo per riscoprirne la sorprendente freschezza e se non lo avete… Beh che state aspettando? Correte a comprarlo visto che recentemente è stato ristampato anche nella versione doppia contenente anche il successivo Heat Of Emotion, anch’esso molto valido, seppur leggermente meno vario.