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28 Agosto 2023 5 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 1987
etichetta: CBS
ristampe:
Tracklist:
01 – Future world
02 – We came to rock
03 – Love games
04 – Yellow rain
05 – Loud’n’proud
06 – Rodeo
07 – Needles in the dark
08 – Eye of the storm
09 – Long way to go
Formazione:
Ronnie Atkins: Lead Vocals
Ken Hammer: Guitars
Allan Delong: Bass
Alan Owen: Keyboards
Phil Moorhead: Drums
Ospiti:
Philip Hart: Backing Vocals on “We came to rock”, “Love games”, “Loud’n’proud”, “Rodeo”
Graham Bonnet: Backing Vocals on “We came to rock”, “Loud’n’proud”
Ho un rapporto di amore/odio con “Future world”, secondo album dei danesi Pretty Maids, uscito ad Aprile 1987 nel momento in cui molte metal bands cercavano di sfondare negli USA e vi spiego il perchè. Amore perchè, come si fa a non amare un disco così ben composto, suonato, prodotto ed eseguito? Dopo la cruda irruenza dell’esordio su lunga durata “Red hot and heavy” uscito tre anni prima, i Pretty Maids riuscivano finalmente ad unire alla perfezione le due anime che convivevano in loro fin da quando erano solo una cover band dei Thin Lizzy, con una ricerca spasmodica del suono lucido, cromato, perfetto per il pubblico statunitense che stava dichiarando la vittoria di gruppi come Ratt, Motley Crue, Dokken e Wasp. Odio perché, una potenziale band di nuovi metal gods, nel mio universo di imberbe metallaro capellone e casinista, stava sprecando tempo con canzonette zuccherose che stridevano con la vigoria dimostrata dai cinque danesi anche in sede live, dove supportarono nientemeno che i Deep Purple della riformata Mark II.
Ora, è palese che questo secondo sentimento nei confronti di “Future world”, visto con gli occhi di oggi fa un po’ ridere, ma quel senso di appiccicosa mielosità è rimasto in me e credo che non se ne andrà mai, ma è sicuramente relegato in secondo piano rispetto alla sfavillante bellezza di questo disco, mai più eguagliata a mio parere, da Atkins e soci, che pur negli anni a seguire, hanno saputo tenere la barra dritta anche nei vituperati (non da me, sia chiaro) anni 90, ma le vette compositive di questo album sono solo state sfiorate qua e là negli album successivi. Qui la CBS, che già aveva intuito le potenzialità dei nostri dopo l’uscita dell’ep d’esordio auto intitolato, mette a disposizione una pletora di collaboratori di prim’ordine, a cominciare da Eddie Kramer, produttore di fama mondiale, uno che ha lavorato con Jimi Hendrix, Beatles, Rolling Stones, David Bowie, Carlos Santana, Eric Clapton, Kiss, Led Zeppelin, ma anche con Anthrax, Raven, Icon, Loudness, Twisted Sister e i grandissimi quanto misconosciuti Sir Lord Baltimore, licenziato però in corso d’opera per incomprensioni con la band (c’è chi dice che si è addirittura addormentato sulla console), il suo lavoro venne completato da Chris Isca, meno conosciuto sicuramente, ma autore di un ottimo lavoro. Dicevamo dei collaboratori famosi e difatti troviamo due addetti al mixaggio di prim’ordine come Flemming Rasmussen, ricordato soprattutto per il suo lavoro con i Metallica di “Ride the lightning” e “Master of puppets”, ma lo troviamo dietro alla console anche con Blind Guardian, Rainbow e in territori più estremi con Morbid Angel e Saturnus, e Kevin Elson, di certo più addentro al materiale trattato su queste pagine, avendo lavorato con Journey, Europe, Mr.Big e Lynyrd Skynyrd e non dimentichiamoci infine dello stupendo disegno in copertina ad opera di Joe Petagno, autore di art covers per Led Zeppelin, Nazareth e soprattutto ideatore dello Snaggletooth, il simbolo dei Motorhead, apparso nelle copertine della band di Lemmy fino al 2006, insomma c’era tutto pronto, apparecchiato affinchè si potesse servire un lauto pranzo e così è stato.
Fin dall’intro “spaziale” della title track , si respira un’aria di serenità, seppur il brano sia dedicato a Phil Lynott, il leader dei Thin Lizzy morto l’anno precedente, sembra che ogni tassello di questo album componga un’immagine luminosa, positiva, persino quando ci si perde un pò nella malinconia della ballad “Eye of the storm”, ecco questo è uno dei principali motivi per cui ritengo che “Future world” sia uno dei classici imprescindibili, non solo per quanto riguarda la branca melodica qui trattata, ma per tutto lo scibile hard’n’heavy, qui c’è tutto e fatto benissimo, dall’anthem da arena “We came to rock” al singolone in salsa aor “Love games”, primo brano sul quale ha messo le mani Kevin Elson in sede di mixing e si nota la differenza con la successiva, energica “Yellow rain”, trattata diversamente da Flemming Rasmussen, la prima ha suoni più cromati, la batteria è triggerata (cosa da pochi a quei tempi), mentre la seconda ha un sound più crudo e diretto, il lato B si apre con “Loud’n’proud” per chi ha il vinile, traccia numero cinque per chi ha il cd, una saetta, inno al metal lifestyle, dal testo tanto ingenuo quanto coinvolgente: “throw a party, have a ball, raise your hands to rock’n’roll, let the rhythm take control”, la successiva “Rodeo” è un singolo dal sapore aor con tanto di tastiere preponderanti, difatti è di nuovo ‘trattata’ da Elson, l’alternanza di pezzi simil speed metal ritorna con “Needles in the dark”, il cui testo si differenzia dai cliché del metal, ma anche da quelli dell’aor, niente amore, niente party, ma la denuncia di un degrado sempre più evidente, insomma un testo attualissimo tuttora e discretamente profetico, di “Eye of the storm” ho già parlato in precedenza, musicalmente è un lento strappamutande, con arrangiamenti di alta scuola a dimostrare che la band sapeva già il fatto suo, la chiusura è affidata a “Long way to go”, altra potenziale hit , hard rock in bilico tra i Deep Purple più easy e gli Scorpions più ispirati, anche qui uscita dalla console di Kevin Elson.
Con uno scenario simile, era facile prevedere un botto di proporzioni immani e invece “Future world” ottenne sì successo rispetto a quello riscontrato da altri acts che avevano tentato il salto verso il Sunset Boulevard, vedasi Raven, Krokus, Heavy Pettin’, ma non tanto quanto si sarebbe aspettata la CBS, sarà stato per le frustate heavy e la voce di Ronnie, che non voleva lasciare del tutto la grinta metallica? Non lo sapremo mai, quello che sappiamo è che noi abbiamo goduto di questo album fino in fondo, io, come molti altri, l’ho sviscerato fin dalla sua uscita e ne ho apprezzato ogni nota, ogni sfumatura, ogni idea e ancora oggi questo platter batte la concorrenza di molti acts melodici e non, per molti motivi, ma uno su tutti è quello più valido: le canzoni, i Pretty Maids le sapevano/sanno scrivere e qui dentro ce ne sono di memorabili, punto!
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