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24 Febbraio 2023 22 Commenti Samuele Mannini
Riflessioni in libertà sull’hard rock ed il suo ascolto.
Questo articolo vuol essere solo uno spunto per prendere coscienza di un argomento in realtà piuttosto dibattuto nei vari gruppi e forum che si occupano di musica in generale e di rock/hard rock in particolare, ovvero: quale futuro per la fruizione e l’evoluzione di questo genere? Qual è lo stato di salute di questo tipo di musica in mezzo a tutte le rivoluzioni, anche tecnologiche, che caratterizzano l’epoca odierna?
Ha senso per esempio avere 180 uscite l’anno di Hard rock più o meno melodico e Aor? Il numero è probabilmente arrotondato per difetto visto che noi su MelodicRock.it abbiamo fatto 150 recensioni lo scorso anno ed alcune uscite le abbiamo dovute tralasciare (dopotutto siamo umani)… Ha senso inoltre che la qualità media di tali uscite sia diciamo non eccelsa? Ed infine ha senso che gran parte delle produzioni (in senso di qualità sonora) sia abbastanza scadente? Per non parlare dei prezzi che il supporto fisico sta raggiungendo ai nostri giorni…
Per rispondere a questi interrogativi penso sia utile tornare a guardare il periodo in cui questo genere è stato in auge, ovvero gli anni tra il 1987 ed il 1991. In quegli anni infatti il genere hard rock ( in tutte le sue derivazioni, che non starò ad elencare) ha addirittura rischiato di diventare mainstream con camionate di dischi venduti, Whitesnake, Scorpions, Def Leppard, Guns N’ Roses, Bon Jovi, per non citare i Metallica del Black Album erano ascoltati comunemente persino qui in Italia, dove le atmosfere rock non sono mai state commercialmente redditizie. C’erano persino programmi Tv e Radio dedicati al genere nonché riviste specializzate in gran numero. Tutto ciò è stato solo frutto del caso? Oppure le colpe della situazione odierna sono da distribuire su molteplici fattori? C’è rimedio a questa situazione oppure dobbiamo rassegnarci all’ estinzione?
Un fattore sicuramente determinante è stata la politica delle allora major discografiche che hanno sempre inseguito solo il profitto e quasi mai arte e profitto vanno a braccetto (almeno nel lungo periodo). Mi ricordo che anche ai tempi ci lamentavamo delle tante uscite e dei tanti gruppi lanciati allo sbaraglio, ma è altresì vero che dal calderone della selezione naturale e selvaggia sono usciti poi gruppi che sono arrivati anche ai giorni nostri, e parlando di numeri, veniva considerato un flop un disco che vendeva 250000 copie, mentre oggi venderne 5000 è un successo.
Sicuramente l’avvento del digitale e tutta la faccenda Napster ha segnato un punto di svolta in negativo per tutto il music business, ma il modo in cui è stato gestito dalle etichette discografiche ha del paradossale e del suicida. Mentre all’inizio il fenomeno è stato combattuto con le più assurde tecniche di protezione digitale dei contenuti (vi ricordate i cd copy protected e la famosa copia legale?), successivamente il mezzo di diffusione digitale in formato mp3 ha fatto pensare alle etichette ad un facile guadagno tanto da far nascere i primi embrioni dei servizi di streaming… risultato? Molte case discografiche con i bilanci traballanti sono sparite dal mercato acquisite dalle più grandi ed alcune assorbite dagli stessi servizi di streaming con tutto il loro patrimonio di opere in catalogo. Questo diminuire di giro di affari alla lunga non solo ha distratto capitali da investire nella ricerca e promozione di nuove band e scene musicali, ma ha anche costretto le etichette a giocare sul sicuro con i soli grossi nomi che comunque garantissero un ritorno economico certo, il tutto in un circolo vizioso dove anche numerosi artisti si sono trovati fuori dal mercato o in ambiti estremamente ristretti con conseguente riduzione del giro d’affari complessivo.
Il cambiamento tecnologico ha infine ulteriormente portato ad un mutamento delle abitudini degli ascoltatori. Il rendere fruibile la musica su ogni genere di device tecnologico di basso livello ha fatto abbassare lo standard qualitativo delle produzioni rendendole tutte omologate e fatte apposta per essere ascoltate su un cellulare con le cuffiette o su You Tube dagli speaker del pc. Per chi come me è cresciuto con le produzioni stellari dei mid-eighties, fatte da produttori con i controcoglioni ( Alan Parsons, Beau Hill, Richie Zito… e l’elenco è sterminato) e magari abituato ad ascoltare la musica su un impianto hi-fi, è un vero e proprio trauma ascoltare certi pastrocchi moderni.
Siamo infine sicuri che l’aver trasformato gli ascoltatori in semplici fruitori a noleggio abbia giovato alla musica come forma d’arte? Prendiamo qualche dato economico: quanto è l’introito per una band che oggigiorno si appresta a rilasciare un disco? E quanto può essere il giro d’affari di una etichetta discografica che decide di investire dei capitali in un determinato artista? Crollando le strutture distributive delle major, anche la distribuzione delle copie fisiche ha subito una profonda ristrutturazione e col calo dei fatturati ( il famoso cane che si morde la coda). Sono poi aumentati i passaggi diminuendo così il margine operativo per le etichette e gli artisti, se prima infatti per esempio una Emi Records curava tutto dalla registrazione, stampa e distribuzione, il cambio verso realtà più piccole ha costretto ad affidarsi a distributori locali, aumentando i passaggi e diminuendo di conseguenza la catena del valore, oltretutto a scapito del prezzo dei supporti. Qualche numero per chiarire: se nel 1989 un disco stampato da una major al netto del costo garantiva un margine per l’etichetta di circa il 40/50%( da spartire poi con l’artista in base al proprio contratto) per copia venduta oggigiorno questo margine, soprattutto per le realtà medio piccole, si aggira se va bene al 20/25%. Esemplifichiamo: per una tiratura diciamo piccola/media (che però nel nostro genere ed al giorno d’oggi è praticamente uno standard) di 1000 copie e contando tutti i canali di distribuzione fisica ovvero, vendita diretta sul proprio sito, vendita coperta tramite distribuzione diretta e vendita in territori coperti da un distributore locale, a spanna il margine medio per un etichetta è di 4,5/5 euro a copia, mentre quello riconosciuto all’artista è 1/1,20 a copia, fate pure il conto di che cifre ridicole vengono fuori… (naturalmente poi ci sono le tasse, ma questa è un’altra storia). Ma lo streaming? Mi direte voi? Oggi lo streaming è il futuro ed è lì che si concentrano i guadagni… Beh fino ad un certo punto… Considerato che mediamente una piattaforma di streaming paga 0,005 Eur per brano, per fare 10 euro servono 2000 streaming ed anche qui l’introito va diviso tra etichetta ed artista, quindi tolta la percentuale che va al distributore digitale restano 4,5 euro a testa tra etichetta ed artista… ( anche da qui van tolte le tasse). Ergo, se per un artista dai grandi numeri che so una Shakira o una Rhianna non è un problema sbarcare il lunario, per una band del nostro genere oserei dire che l’apporto della musica liquida è in molti casi nulla più che un rinforzino ed ha più la valenza di farsi conoscere che un riscontro economico. Potrei aprire una piccola parentesi sul ritorno del Vinile, che come oggetto da collezione potrebbe garantire un piccolo margine in più sotto il profilo della remunerazione economica visti i prezzi di vendita, ma ad occhio e croce anche qui sembra che le grandi etichette si siano gettate sulla preda come squali affamati con il solo intento di mungere gli acquirenti senza realmente creare valore aggiunto per gli artisti.
Eccoci dunque al punto: al giorno d’oggi siamo diventati noleggiatori digitali di una musica creata da operai cottimisti, costretti dai numeri a fare dischi a ripetizione che suonano tutti uguali e che saturano un mercato sempre più piccolo. Questa è almeno la strada che io vedo percorrere da chi oggi gestisce il music business e viene da chiedersi se sia la strada giusta, oppure se sia necessario un radicale cambio di visione. Naturalmente le mie sono solo elucubrazioni di un ascoltatore e quindi ampiamente opinabili, ma viene da pensare che forse si dovrebbe puntare più sulla qualità che sulla quantità per sopravvivere in un ambito così di nicchia, fare magari meno uscite, puntare di più su gruppi artisticamente validi che siano in grado di abbracciare audience più vaste e destinare più risorse per promuoverli in vari ambiti, forse ci vorrebbe anche una maggiore coesione tra le varie realtà discografiche del genere che dovrebbero avere più coraggio, collaborare di più ed unire gli sforzi invece di promuovere una guerra tra poveri che, temo, in poco tempo ci porterà alla inevitabile fine. Anche noi fruitori infine potremmo con i nostri comportamenti indirizzarci verso le forme che consentano ad una etichetta ed una band di avere più margine orientando i nostri acquisti verso la qualità e cominciando a ri-considerare la musica un bene tangibile e prezioso invece di un sottofondo da avere mentre passiamo l’aspirapolvere.
Trovo svilente che la musica sia oramai considerata qualcosa di gratuito di cui fruire in qualità infima su YouTube o che pagando 9,90 al mese ci sentiamo con la coscienza pulita perché… beh insomma io ho pagato. Io penso che una volta quando avevamo comprato un disco, solo per il fatto di averlo pagato caro, gli dedicavamo una attenzione molto superiore e non limitandoci a dare giudizi solo per aver ascoltato 30 secondi di ogni brano; in poche parole avere a portata lo scibile umano non necessariamente ci porta ad avere una cultura più vasta e, personalmente, preferisco conoscere un disco nota per nota che ascoltarne 50 a pezzetti per poi poter sciorinare giudizi divini e paventare conoscenza enciclopedica.
Per concludere questo mio scomposto fluire di riflessioni vorrei dire che i dati numerici che ho citato sono un conto fatto a spanna e quindi (anche se mi sono documentato a proposito) devono essere presi come ordine di grandezza che naturalmente può variare da etichetta ad etichetta da paese a paese ed anche per artista coinvolto; servono solo a dare un quadro d’insieme per eventualmente stimolare una discussione ed una riflessione che necessariamente dovrà essere personale.
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