Registrati gratuitamente a Melodicrock.it! Potrai commentare le news e le recensioni, metterti in contatto con gli altri utenti del sito e sfruttare tutte le potenzialità della tua area personale.
effettua il Login con il tuo utente e password oppure registrati al sito di Melodic Rock Italia!
20 Gennaio 2023 8 Commenti Samuele Mannini
genere: Prog. Rock
anno: 1989
etichetta: Arista
ristampe:
Tracklist:
1 Themes I. Sound II. Second Attention III. Soul Warrior
2 Fist Of Fire
3 Brother Of Mine I. The Big Dream II. Nothing Can Come Between Us III. Long Lost Brother Of Mine
4 Birthright
5 The Meeting
6 Quartet I. I Wanna Learn II. She Gives Me Love III. Who Was The First IV. I'm Alive
7 Teakbois
8 Order Of The Universe I. Order Theme II. Rock Gives Courage III. It's So Hard To Grow IV. The Univer
9 Let's Pretend
Formazione:
Lead Vocals – Jon Anderson
Guitar – Steve Howe
Keyboards – Rick Wakeman
Drums [Acoustic And Electronic Drums] – Bill Bruford
Bass, Chapman Stick [Stick Bass], Vocals – Tony Levin
Rhythm Guitar – Milton McDonald
Il disco degli Yes che non potevano chiamarsi Yes? Oppure un progetto di Jon Anderson che coinvolge membri degli Yes per andare oltre gli Yes? Queste furono le domande principali che all’ epoca turbarono le menti degli ascoltatori e dei critici. Secondo me è un po’ tutte e due le cose. Dopo la svolta commerciale di 90125 e Big Generator dettata dal chitarrista Trevor Rabin, Jon anderson sentiva l’esigenza di tornare al classico sound progressive marchio di fabbrica degli storici Yes e così dette vita all’ennesimo scisma della band (in effetti, la storia degli Yes è quasi una soap opera fino a culminare in Union dove tutte le anime della band tentarono di coesistere, ma non è questa la sede appropriata per parlarne). Reclutati dunque i vecchi compagni di Close To the Edge, tranne ovviamente Squire che però deteneva legalmente il nome Yes, Jon decise di dare vita al progetto ABWH ed il posto di Squire venne preso da Tony Levin che a quei tempi militava con Bruford in una delle incarnazioni dei King Crimson.
Narrata a sommi capi la storia della nascita del progetto veniamo ora alla musica. Si comincia con Themes che spazza via subito l’idea del pop/aor di Big Generator con una mini suite di 5 minuti e sopra l’eclettismo strumentale si staglia la voce di un Anderson in forma smagliante. Fist Of Fire ha un incedere epico e maestoso (quasi pomp) ed un muro di tastiere si erge intorno alla melodia facilmente orecchiabile. Brother Of Mine trasla il prog degli Yes negli anni ottanta, suite da 10 minuti passaggi intricati, ma senza esagerare, ritornelli easy ed accessibili, liriche non banali ed un sound completamente calato nell’epoca, se non è il brano perfetto, ditemi voi cosa c’è di meglio in circolazione. Una chitarra acustica con un sottofondo oscuro di tastiere ci introducono a Birthright dove l’angelica ugola di Anderson ci narra la storia dei test nucleari svolti dagli inglesi a Maralinga negli anni 50, dove gli aborigeni non furono avvisati per tempo e lasciati così esposti alla nuvola radioattiva, una canzone densa di sentimento oltre che tecnicamente ineccepibile e coinvolgente. The Meeting è un duetto tra Anderson e Wakeman tra la voce eterea e il piano delicato, una canzone fiabesca e sognante, quasi una preghiera in musica, delicata e deliziosa. The Quartet è un’altra suite in pieno Yes prog style, ricercata ed ispirata con arrangiamenti al limite del maniacale, anche qui la tematica religiosa la fa da padrona e caratterizza i quattro movimenti della canzone con sfumature delicate ed idilliache. Teakbois è un pezzo che spiazza, l’intro caraibico e l’atmosfera da villaggio vacanze sinceramente sconvolgono abbastanza in mezzo al resto del disco, ma anche qui è possibile apprezzare l’ecletticità dei musicisti, anche se a parer mio è il pezzo più trascurabile del disco, va solo lasciato scorrere via senza pensarci troppo. Order Of The Universe è l’ultima suite in quattro movimenti e comincia con il folle intro pure progressive Order Theme per poi andare a navigare in territori molto vicini al pop con un hook veramente azzeccato, ennesimo esempio di come si possa trasportare il prog negli eighties. Chiude il disco la ballad acustica Let’s Pretend che poi è la canzone scritta con Vangelis, probabilmente la scintilla che ha dato la voglia ad Anderson di creare questo progetto musicale, una chiusura delicata e degna.
Ma insomma è un disco degli Yes o no? Secondo me si è un disco degli Yes in piena regola ( e se mi consentite il migliore dagli anni 80 in su), ma non solo, è un disco degli Yes che supera il sound originale attualizzandolo all’epoca pur ritornando alle origini e dimenticando la parentesi puramente da classifica. Un disco che non solo piacerà agli amanti del progressive, ma anche a chi adora il sound inconfonndibile degli anni 80. Must Have.
© 2023, Samuele Mannini. All rights reserved.
Devi essere registrato e loggato sul sito per poter leggere o commentare gli Articoli